Maurizio Brunetti, Cristianità 349-350 (2008)
Risale al 1946 la pubblicazione in lingua originale di Laudes Regiae. A study in Liturgical Acclamations and Mediaeval Ruler Worship, di cui le Edizioni Medusa presentano la prima traduzione italiana: “Laudes Regiae”. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo. Si tratta della seconda delle opere maggiori del tedesco Ernst Hartwig Kantorowicz (1895-1963), medievista e storico della sovranità, pure autore di Kaiser Friedrich der Zweite (trad. it. Federico II imperatore, Garzanti, Milano 2000) e di The King’s Two Bodies (trad. it. I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, con Introduzione di Alain Boureau, Einaudi, Torino 1989). Fra gli altri suoi scritti, pure tradotti, si ricordano le due raccolte di studi La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, a cura e con la post-fazione Dal mito all’immagine: Ernst Kantorowicz di Maurizio Ghelardi e con Presentazione di Ralph E. Giesey (Marsilio, Venezia 1995) e I misteri dello Stato, a cura e con il saggio introduttivo Finzioni di Gianluca Solla (Marietti 1820, Genova 2005).
L’autore nasce a Posen — ora Poznan, in Polonia — in una famiglia d’imprenditori di origine ebraica naturalizzata tedesca. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) si arruola volontario nell’esercito tedesco. Dopo la smobilitazione del 1918, si arruola nuovamente nell’esercito dei volontari reclutato dal quartiere generale tedesco per reprimere la rivolta polacca d’ispirazione marxista nella sua città natale.
A Berlino, dove tutta la famiglia si trasferisce nel 1919 quando il Trattato di Versailles stabilisce che l’intera Posnania passi alla Polonia, Kantorowicz, piuttosto che impiegarsi nell’impresa familiare, preferisce iniziare studi di storia e di economia. Negli stessi mesi entra nei Freikorps per combattere la rivoluzione spartachista. Continua gli studi a Monaco, dove partecipa — rimanendo ferito — alla lotta contro la Repubblica Sovietica Bavarese, la Bayerische Räterepublik —nota anche come Repubblica Sovietica di Monaco, Münchner Räterepublik —, un governo comunista di breve durata dello Stato tedesco della Baviera (1919).
Laureatosi ad Heidelberg nel 1921, ottiene una cattedra di Storia Medioevale a Francoforte nel 1930. In questi anni fa parte del Georgekreis, un gruppo di artisti e d’intellettuali uniti dalla devozione al poeta Stefan George (1868-1933) e ai suoi ideali estetici.
Alla nomina di Adolf Hitler (1889-1945) a cancelliere del Reich, Kantorowicz richiede nell’estate del 1933 un permesso per sospendere la propria attività didattica, iniziando un intenso periodo di studi all’estero.
Nel 1939 emigra negli Stati Uniti d’America, dove ottiene la cattedra di Storia Medioevale presso l’università di Berkeley, che lo espelle, però, dieci anni dopo, in seguito al suo rifiuto di prestare un giuramento di personale anticomunismo.
Nel 1951 ottiene una cattedra all’Institute for Advanced Studies di Princeton, dove resta fino alla morte.
L’opera “Laudes Regiae”. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo ripercorre la storia dal secolo VIII al XIII, appunto, delle laudes regiae, o litanie cesaree; di quel particolare canto, cioè, sviluppatosi all’interno della Chiesa gallo-franca che inizia con il verso Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat e che trovò una sua precisa collocazione liturgica per le cerimonie d’incoronazione di re e d’imperatori del Sacro Romano Impero, da quella di Carlo Magno (742-814), nell’anno 800, a quella di Carlo V (1500-1558), “l’ultima officiata da un Papa” (p. 118), avvenuta a Bologna nel 1530.
La ricostruzione erudita dell’evoluzione della fisionomia testuale e musicologica delle laudes — le Note occupano 73 delle 336 pagine dell’intero volume — costituisce per l’autore un’occasione preziosa di ermeneutica storico-politica. Le litanie cesaree, infatti, esprimendo “[…] una sorta di armonia cosmica tra il cielo, la Chiesa e lo Stato, un compenetrarsi di queste distinte dimensioni e un’alleanza tra i poteri della terra e del cielo, […] si collocano tra le più antiche testimonianze della storia politica occidentale del tentativo di stabilire, tanto nella sfera secolare quanto in quella ecclesiastica, una somiglianza con la Città di Dio” (pp. 80-81).
Nel saggio introduttivo (pp. 5-25), il curatore dell’opera, Alfredo Pasquetti dell’università di Firenze, traccia un profilo biografico e intellettuale di Kantorowicz, sfatando lo stereotipo di cripto-nazionalsocialista che ancora aleggia sullo studioso tedesco. Segue, poi, una Prefazione dell’autore (pp. 29-34) che spiega la genesi e le principali fonti dell’opera. “La liturgia — scrive l’autore nel 1946 — è oggi una delle principali discipline ausiliarie della storia medievale” (p. 31). Infatti, i cambiamenti, in particolare, delle laudes regiae nel corso dei secoli “[…] riflettono le varie trasformazioni della concezione teocratica dei poteri secolare e spirituale” (p. 32) e permettono di seguire “[…] la nascita dell’equivalente medievale del culto del sovrano quale è esistito nell’antichità” (ibidem).
Nel primo capitolo — Una leggenda sulle monete e le sue origini (pp. 35-42) — viene esaminato l’uso medievale del Christus vincit come iscrizione numismatica. I primi ad avvalersene in Occidente sembra siano stati i sovrani normanni di Sicilia nel secolo XII nell’equivalente forma greca. Ruggero II (1095-1154), re di Sicilia dal 1130 al 1154, promuove la graduale sostituzione delle monete arabe con un nuovo denaro su cui era appunto inciso IC XC NIKA, ’Ihsoàj CristÕj nik´, il motto che in ambito bizantino veniva impresso sulle ostie già nel secolo V e sulle monete a partire da Costantino V (718-775), imperatore dal 741 al 775.
La formula triadica XPC: VINCIT: XPC: REGNAT: XPC: IMPERAT è utilizzata nel 1266 per il conio delle monete francesi. Dietro la scelta di quel motto da parte del re san Luigi IX (1215-1270) sembra vi fosse la volontà di provare che il miracolo della guarigione dalla scrofolosi, spesso ottenuta al tocco di una moneta d’oro, “[…] non era in realtà opera del monarca, ma di Cristo stesso che agiva per il tramite del proprio intermediario regale. Inoltre, il triplice enunciato dimostrava come san Luigi non considerasse il proprio regno fondato sulla spada, ma su quel Dio dal quale egli lo aveva ricevuto in feudo” (p. 37).
Nel secondo capitolo, che, insieme al successivo, costituisce forse la parte più rilevante di tutta l’opera, vengono analizzate Le “laudes regiae” gallo-franche (pp. 43-82), cioè quelle più antiche, presenti nei primi manoscritti carolingi. La prima parte del canto si apre e si chiude con il tricolon — cioè un verso diviso in tre parti simili per ritmo e struttura sintattica — del Christus vincit ed è costituita anzitutto dalle acclamazioni augurali dei cantori solisti Exaudi Christe! N.N. vita (et victoria) rivolte al Papa, al sovrano, ai principi, ai giudici e all’esercito dei franchi; ogni singola acclamazione è poi seguita dall’invocazione del nome di un certo numero di angeli e di santi e a cui il coro rispondeva: Tu illum/illam/illos adiuva. La seconda parte del canto consiste in una litania che esalta “le qualità militari del Cristo” (p. 47); per esempio, si salutava Cristo Re come Arma nostra invictissima, Murus noster inexpugnabilis o Defensio et exaltatio nostra e il coro rispondeva salmodicamente Christus vincit. La conclusione — Feliciter!… Tempora bona habeas… Multos Annos — può essere ricondotta alle acclamazioni imperiali della Roma tardo-antica.
L’origine delle laudes va collocata fra il 751 e il 774, l’anno del Liber Pontificalis di Papa Adriano I (772-795) che ne fa esplicita menzione. L’autore respinge decisamente la tesi che il formulario delle laudes sia stato originariamente redatto a Roma e di lì trasmesso alla corte franca. Nel manoscritto più antico che le contengono — il Montpellier MS 409 risalente agli anni 783-787 —, vi sono, infatti, irregolarità linguistiche che abbondano nei manoscritti gallici dell’epoca, ma che sono del tutto assenti nei salteri contemporanei redatti a Roma; inoltre è evidente il tributo che le laudes devono alle Litanie dei Santi, importate nell’Europa continentale proprio a metà del secolo VIII dall’Inghilterra e dall’Irlanda, ma il cui uso in Italia si diffonderà solo dopo l’anno 800. Un terzo indizio di non romanità delle origini starebbe nell’ordine delle invocazioni dei formulari più antichi. Per tutta l’epoca carolingia, le litanie cesaree prevedono per il Papa, che viene acclamato per primo, l’intercessione di Pietro, di Paolo e di altri apostoli, mentre le invocazioni alla Vergine, agli arcangeli e a Giovanni Battista, ovvero ai “ranghi più alti della società celeste” (p. 68) seguono l’acclamazione del sovrano. Le laudes redatte a Roma nei secoli successivi ridefiniranno la qualità dei santi nella sequenza “[…] sia ridimensionando la dignità degli intercessori del sovrano, sia surclassandoli tramite l’invocazione, in favore del Papa, di protettori ineguagliabili come il Salvator mundi o la santa Trinità” (p. 69).
Il capitolo si chiude con considerazioni sulla regalità carolingia. La reintroduzione del rito biblico dell’unzione regia “[…] non si impose a Pipino [il Breve (714-768)] unicamente per motivi di ordine politico e dinastico” (p. 76). Allorché i franchi vengono additati dalla Santa Sede come la “nuova gente santa della promessa” (p. 76), il sovrano “[…] prese a incarnare una tipologia di monarca esemplata su quella di Davide” (p. 77). L’unzione dei re franchi diventa allora “la pietra angolare della regalità medievale per diritto divino e Dei gratia“ (ibidem).
Nel terzo capitolo vengono descritte Le versioni franco-romane delle “laudes” (pp. 83-118), più concise rispetto alle precedenti. A ogni acclamazione corrisponde stavolta una sola invocazione: il Salvator mundi per il Papa, Maria Vergine per l’imperatore, san Pietro per i principi e san Teodoro per l’esercito. Tale versione appare nel corso del secolo IX e rimarrà pressoché inalterata per i riti d’incoronazione dell’imperatore fino al 1209, trovando un posto preciso nella parte introduttiva della Messa fra la prima colletta e l’epistola (p. 100). “Le laudes rappresentavano il riconoscimento del sovrano da parte della Chiesa visibile e invisibile, […] per quanto non sia possibile misurare il peso di questa approvazione o conferma sulla base di criteri giuridici” (p. 95-96).
Il quarto capitolo — Le “laudes” della gerarchia (pp. 119-146) — esamina i formulari che compaiono alla fine del secolo XIII di litanie che pure iniziano con il Christus vincit. Sono le laudes ecclesiastiche, usate per acclamazioni solo papali o episcopali, di solito cantate al termine di Messe solenni. Fra queste, le laudes papali (pp. 135-136) verranno cantate in occasione dell’”incoronazione” dei Papi almeno a partire da quella di Papa Pasquale II (1099-1118).
Il quinto e il sesto capitolo evidenziano le peculiarità de Le “laudes” dalmate e veneziane (pp. 147-154) e de Le “laudes” nei regni normanni (pp. 155-172).
L’ultimo capitolo è dedicato alla fortuna de Le “laudes” nei tempi moderni (pp. 173-180). “Quando la concezione medievale del Cristo re e imperatore si andò eclissando, parallelamente alla crisi dell’idea corrispondente del re o dell’imperatore come suo vicario e immagine, il canto delle laudes regiae era condannato a scomparire dall’orizzonte liturgico-politico” (p. 173). In ogni caso l’antica usanza di eseguire le litanie cesaree per il sovrano a Natale e a Pasqua “[…] è stata osservata fino a tempi recentissimi. L’ultimo imperatore asburgico, Carlo [1887-1922], fu anche l’ultimo a ricevere l’acclamazione liturgica nella Pasqua del 1918, poco prima che la disfatta degli imperi centrali frantumasse quel sistema di tradizioni che aveva reso quasi visibile il legame della corona d’Austria con la storia dell’impero romano d’Occidente” (p. 174). Le laudes papali sono reintrodotte a Roma con l’intronizzazione di Papa san Pio X (1903-1914). Il canto del Christus vincit, sulle note della melodia di Aloys Kunc (1832-1895), ritorna popolare con l’istituzione della festa di Cristo Re nel 1925. Secondo Kantorowicz, l’ideale imperiale di Cristo Re riesce a oscurare “le ambizioni totalitarie del fascismo italiano” (p. 176) che, dal canto suo, probabilmente nell’ottica di una Renovatio Imperii Romanorum, pure prova a trarre vantaggio dalla carica emozionale delle laudes, inserendone una propria versione nel Canzoniere nazionale. Canti corali religiosi e patriottici trascritti per voci di fanciulli dal M.° Achille Schinelli [1882-1969]. Edizione ufficiale pubblicata dalla Libreria dello Stato nel 1929 (cfr. ristampa anastatica con Prefazione di Barbara Spazzapan, L.I.R. Editrice, Piacenza 2008): si augurano pax, vita et salus perpetua al Papa, al re Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) e al duce Benito Mussolini (1883-1945), “italicae gentis gloriae” (p. 177).
Il volume è impreziosito da quindici tavole e da cinque appendici (pp. 179-238). La prima di esse, scritta dal musicologo Manfred F. Bukofzer (1910-1955), è dedicata a La musica delle “laudes” (pp. 181-213). Ne vengono confrontate diciotto trascrizioni, fra cui quelle di Autun, di Soissons, di Rouen, di Worcester e di Palermo. Anche l’analisi musicale sembra confermare l’origine non romana delle laudes regiae di epoca carolingia, di cui viene evidenziata, per esempio, la presenza, nelle versioni più antiche, di un intervallo tritonale discendente, quello che esiste fra un si naturale e il fa che lo precede.
Al di là degl’inevitabili tecnicismi della disamina musicologica, “Laudes Regiae”. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo rimane, come le altre opere maggiori di Kantorowicz, un saggio di teologia politica medievale sviluppato, come nota il curatore, “secondo i più rigorosi criteri della ricerca scientifica” (p. 13). “Addentrarsi in quel bosco magico […] di orazioni, benedizioni, insegne e canti liturgici” (p. 6) che costituisce il culto del sovrano nel Medioevo “[…] sarà probabilmente meno allettante che dilettarsi con la paccottiglia pseudo-storica propinata da qualche romanziere di successo, ma risulterà di gran lunga più istruttivo” (ibidem).
Maurizio Brunetti