Stefano Chiappalone, Cristianità, 336 (2006)
Negli ultimi anni alcuni pronunciamenti magisteriali — dall’enciclica Ecclesia de Eucharistia, pubblicata nel 2003 da Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), all’istruzione Redemptionis Sacramentum, emanata nel 2004 dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti — hanno facilitato una «de-ideologizzazione» della discussione sulla riforma liturgica postconciliare, garantendo a chi critica alcuni appiattimenti sociologici e auspicherebbe una maggiore dimensione contemplativa e trascendente nella liturgia attualmente in vigore nella Chiesa latina, di non essere immediatamente tacciato di «nostalgismo» né di voler mettere in discussione la riforma liturgica tout court.
Infatti, non si tratta di rifiutare il rito della Messa promulgato da Papa Paolo VI (1963-1978), bensì di quale interpretazione dare di esso. Il problema richiama la — ed è implicito nella — questione più ampia della ricezione e della interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), alla quale Papa Benedetto XVI ha dedicato buona parte del suo Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2005 (cfr. L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-12-2005). In sostanza, il cuore del problema s’identifica nei termini di continuità o di rottura: tanto il Concilio quanto il Messale vanno recepiti — con devozione — all’interno della bimillenaria tradizione della Chiesa, oppure sono validi solo come punti di partenza per una radicale — e assolutamente arbitraria — rottura che esalti di essi solo le novità?
Così, per limitarci alla questione liturgica, l’esigenza di chi solleva perplessità sulla prassi attuale non è la mera riproposizione di forme del passato, bensì il ritorno a uno spirito che quelle forme del passato garantivano e che le attuali forme garantiscono meno o hanno addirittura perso di vista. L’esigenza di una liturgia in cui non sparisca del tutto l’adorazione, la riverenza verso il mistero celebrato sull’altare, la consapevolezza dell’alterità di quel mistero rispetto alla vita quotidiana e della necessità che abbiamo d’immergerci in una dimensione altra: tutto questo non è legato esclusivamente al rito preconciliare, né è stato bandito dal Concilio Ecumenico Vaticano II o da Papa Paolo VI. E, oltre a essere lecito, non ha per certo perso di significato.
È quanto sostiene, circa la direzione della preghiera liturgica — che nei decenni postconciliari è stata intesa esclusivamente «faccia al popolo», spesso a discapito dell’aspetto trascendente e contemplativo dell’azione sacra — il sacerdote tedesco Uwe Michael Lang, della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Londra, in Gran Bretagna, nello studio Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, già pubblicato in tedesco nel 2003 e in inglese l’anno successivo. Nell’aprile del 2006 l’edizione italiana del testo ha riacceso il dibattito, anche grazie al fatto che, nel frattempo, il già autorevole prefatore delle edizioni tedesca e inglese è asceso al soglio pontificio.
Il cardinale Joseph Ratzinger — all’epoca ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede — apre la sua Prefazione (pp. 7-10) osservando che «per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo» (p. 7). Un luogo comune da sfatare è quello «[…] in base al quale il sacerdote, in precedenza, celebrava “volgendo le spalle al popolo”; [il liturgista austriaco Josef Andreas Jungmann S.J. (1889-1975)] sottolineò infatti come il punto in discussione non fosse il sacerdote con le spalle ai fedeli, ma al contrario il fatto che si voltasse nella stessa direzione dei fedeli» (p. 9). Oltre a Jungmann, altri liturgisti fecero notare la convenienza di uno stesso orientamento assunto da clero e fedeli, ma «malgrado la loro grande reputazione, in principio non riuscirono a far sentire la loro voce: era troppo forte la tendenza a sottolineare il fattore comunitario della celebrazione liturgica, quindi a considerare assolutamente necessario il fatto che sacerdote e fedeli fossero rivolti l’uno verso gli altri» (p. 9). Con il passare del tempo, la distensione del clima — anche grazie alla constatazione dei limiti di una prassi liturgica spesso ridotta alla dimensione orizzontale — ha permesso una ripresa della discussione più serena e maggiormente fondata in re, sia dal punto di vista storico-archeologico sia da quello teologico, cui può giovare la lettura dell’opera di padre Lang, che «[…] presenta con cura i risultati delle recenti ricerche e offre il materiale necessario a sviluppare un giudizio informato» (p. 10).
Nell’Introduzione (pp. 13-16) l’autore prende le mosse dalle parole di un suo critico, il liturgista tedesco Angelus A. Häußling O.S.B., secondo il quale, poiché il Concilio ha conferito centralità al Mistero Pasquale, e poiché questo evento è ancora presente, è indubbio che «[…] in un’epoca nella quale l’uomo ha reso sé stesso il fulcro della propria coscienza […] si ritenga più appropriato che i fedeli si raccolgano intorno all’altare anziché volgersi verso Oriente» (p. 14). In realtà, se la centralità del Mistero Pasquale è indiscussa, essa «[…] non richiede assolutamente che il sacerdote si ponga di fronte ai fedeli celebrando la messa e, di conseguenza, suggerisca di raccogliersi intorno all’altare. […] Häußling mette poi in rilievo l’antropocentrismo prevalente nella nostra epoca: volgersi verso il Signore è esattamente un sano correttivo a questa mentalità, può avere un effetto liberatorio e guidarci alla pienezza della Vita divina. […] [il liturgista austriaco don Reinhard] Meßner aggiunge che la perdita quasi totale di tale tradizione liturgica nella Chiesa cattolica romana di oggi è indice di un deficit escatologico» (p. 14).
Anzitutto, per sgombrare il campo dai luoghi comuni, è davvero proscritto l’orientamento comune dal rito attuale? A questa domanda padre Lang dedica il capitolo I, La riforma liturgica e la posizione del celebrante all’altare (pp. 17-25), notando come il rapido uniformarsi alla celebrazione versus populum abbia favorito la diffusa opinione «[…] che la riforma liturgica inaugurata dal Vaticano Secondo richieda, anzi imponga, la celebrazione della Messa “rivolti verso il popolo”.
«I relativi documenti conciliari e postconciliari presentano tuttavia un quadro diverso» (p. 17). Infatti se la costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia Sacrosantum Concilium, del 4 dicembre 1963, non ne parla affatto, l’istruzione Inter Oecumenici, pubblicata nel 1964 dal Consilium deputato all’elaborazione della riforma liturgica, parla di possibilità, «possit»: a tale proposito è interessante l’interpretatio authentica del cardinale Giacomo Lercaro (1891-1976), presidente del Consilium, secondo il quale, «[…] per una liturgia vera e partecipe, non è necessario che l’altare sia rivolto versus populum» (p. 18). A chiarire ulteriormente la questione è poi intervenuta la Congregazione per il Culto Divino che, in un responso datato 25 settembre 2000, afferma la non obbligatorietà di tale forma di celebrazione.
Merita di essere riportato un interrogativo che già nel 1966 si poneva il teologo Ratzinger: «È di assoluta importanza poter guardare il sacerdote in viso, o non potrebbe spesso essere benefico riflettere che anche lui è un cristiano, e che ha ogni ragione per volgersi verso Dio con tutti gli altri confratelli cristiani della congregazione e recitare con loro il “Padre Nostro”?» (p. 22).
Ma se non è mai stata vincolante, e se già negli anni del «rinnovamento» — talora selvaggio — suscitava perplessità, come mai resta tuttora quasi esclusiva — e gelosamente difesa — la celebrazione versus populum? «Usualmente vengono addotte due argomentazioni essenziali a favore della posizione del celebrante verso i fedeli durante l’Eucaristia. Anzitutto si afferma che questa fosse la pratica della Chiesa agli albori, e che questa debba essere la norma per la nostra epoca. In secondo luogo si afferma che la “partecipazione attiva” dei fedeli, un principio introdotto da Papa san Pio X [1903-1914], e che è fondamentale per il Sacrosantum Concilium, richiedesse la celebrazione verso il popolo» (pp. 22-23). Scopo dei successivi due capitoli è appunto controbattere rispettivamente sia l’argomento storico della presunta celebrazione rivolta al popolo nella Chiesa dei primi secoli, sia l’argomento teologico-psicologico della presunta impossibilità di una partecipazione attiva dei fedeli nel caso di orientamento comune.
Prima di proseguire sarà bene tener presente innanzitutto la distinzione operata dal card. Ratzinger «[…] fra partecipazione alla Liturgia della Parola, che prevede azioni esterne, in particolare la lettura e il canto, e la Liturgia eucaristica, durante la quale le azioni esterne sono assolutamente secondarie» (p. 23). Un’ulteriore distinzione da fare è quella fra teologia e topografia, perché «il sacerdote parla al popolo solo durante i dialoghi all’altare, tutto il resto è preghiera al Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo» (p. 25): attraverso Cristo, non attraverso i fedeli, qualunque sia la sua posizione fisica.
Il capitolo II dunque affronta gli aspetti storici relativi a Orientamento della preghiera, liturgia e architettura della chiesa nella Chiesa degli albori (pp. 27-64). L’esistenza di una direzione sacra per la preghiera è elemento comune alla maggioranza delle religioni: in particolare, i romani pregano verso il sole che sorge e gli ebrei verso il sancta sanctorum del tempio di Gerusalemme. Per i cristiani la direzione sacra diviene l’Oriente. «Sia nella preghiera in privato che nella preghiera liturgica i cristiani si voltavano non più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste; credevano fermamente che, quando il Signore fosse tornato nella gloria per giudicare il mondo, avrebbe radunato i suoi eletti per formare questa città celeste. Il sole nascente era considerato l’espressione appropriata di questa speranza escatologica» (p. 31), espressione supportata da diversi riferimenti biblici.
Fonti letterarie molto antiche, quali il Pastore di Erma e gli Atti di Paolo, attestano che «[…] l’uso cristiano di pregare rivolti a Oriente risale almeno al principio del II secolo» (p. 35), e continuano ad attestarlo Tertulliano (160-220), san Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-254), come pure due testi siriaci contenenti prescrizioni rituali del secolo IV. Sant’Agostino d’Ippona (354-430) doveva preoccuparsi di quanti orientavano il corpo senza orientare il cuore. San Giovanni Damasceno (675-750) fornisce un esauriente elenco dei motivi alla base dell’orientamento e san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) spiega perché «adorare guardando verso Oriente è appropriato» (p. 41), mostrando chiaramente «[…] il fondamento escatologico della direzione della preghiera verso Oriente, così rilevante nei documenti della Chiesa degli albori» (p. 42).
L’idea di una presunta priorità della celebrazione versus populum è legata a una errata concezione del banchetto: in realtà, le più antiche fonti iconografiche dell’Ultima Cena raffigurano «[…] l’uso dell’epoca di sedere, o più probabilmente di adagiarsi, sul lato convesso di un tavolo di forma semicircolare, lasciando libero l’altro lato per servire il cibo. Il posto d’onore non era al centro, ma sulla destra del semicerchio (in cornu dextro)» (p. 45). Del resto, anche nelle chiese con l’ingresso a est — come le basiliche romane — è anacronistico ipotizzare una celebrazione rivolta al popolo, nel senso attuale, perché «[…] il principio prevalente della direzione della preghiera nell’Eucaristia è volgersi verso est, ovvero verso il Cristo risorto che tornerà nella gloria» (p. 49).
Se i ritrovamenti archeologici di Dura Europos mostrano una domus ecclesiæ del 256 d.C. con una pedana sul lato orientale, che sembra lasciare pochi dubbi sulla posizione dell’altare, questa è più controversa nel caso delle basiliche romane. Comunque, «anche presumendo che sacerdote e fedeli fossero uno di fronte agli altri nelle basiliche paleocristiane con l’ingresso rivolto a est, possiamo tuttavia escludere qualsiasi contatto visivo, almeno per il canone, dato che tutti pregavano con le braccia alzate guardando in alto. In ogni caso sull’altare non c’era molto da vedere, poiché i gesti rituali come il segno della croce, i baci sull’altare, le genuflessioni e l’elevazione delle specie eucaristiche vennero aggiunti soltanto in seguito. […] In altre parole, la nozione che la disposizione della basilica romana sia ideale per la chiesa cristiana, perché consente a sacerdote e fedeli di vedersi durante la celebrazione della messa, è in realtà errata. È di certo l’ultima cosa che i primi cristiani avrebbero preso in considerazione» (p. 62).
A questo punto, accertati il significato e l’importanza del volgersi a oriente per i cristiani del primo millennio, nel capitolo III — L’orientamento comune della preghiera liturgica: i suoi contenuti teologici e spirituali (pp. 65-85) — l’autore si chiede «[…] in che senso la pratica paleocristiana di un comune orientamento nella preghiera liturgica sia importante per la vita della Chiesa di oggi» (p. 65); e se, al contrario, esso non sia un artificioso archeologismo liturgico — atteggiamento ben esemplificato dall’erronea concezione della celebrazione versus populum come specchio fedele dell’Ultima Cena: erronea sia perché il culto cristiano fa riferimento a tutto il Mistero Pasquale, non solo alla Cena, sia per la disposizione antica dei commensali e del posto d’onore.
Dunque, il ripristino di un orientamento comune sarebbe un inutile arcaismo? No, innanzitutto perché era praticato fino a pochi decenni fa, e lo è tuttora nelle Chiese orientali. Inoltre, la questione «[…] trascende il fatto di volgersi semplicemente verso uno dei punti cardinali» (p. 72), perché ciò che conta è volgersi insieme, sacerdote e fedeli, nella stessa direzione.
Ciò che conta è il doppio significato, trinitario ed escatologico, del sole che sorge: «In primo luogo come un segno del Cristo risorto, quindi anche della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo; in secondo luogo come un segno di speranza nella parusia. […] L’orientamento nella preghiera va al di là dell’altare visibile, verso l’appagamento escatologico che viene anticipato nella celebrazione dell’Eucaristia. […] Il carattere escatologico dell’Eucaristia è mantenuto vivo cercando con lo sguardo il Signore» (p. 73-74), evitando così che la comunità si chiuda in sé stessa.
«Per contro, la posizione costantemente faccia a faccia del sacerdote e del popolo esprime un simbolismo proprio e suggerisce un circolo chiuso. […] La celebratio versus populum tende a sminuire la dimensione trascendente dell’Eucaristia a tal punto da far nascere la nozione di una società chiusa» (p. 75) che non cerchi più Dio, ma si limiti a compiacersi del proprio essere comunità; oppure tende a sfociare in un paradossale clericalismo, spingendo il celebrante, su cui converge lo sguardo dell’assemblea, a trasformarsi da servitore in «regista» dei divini misteri.
Oltre all’apertura alla trascendenza, l’orientamento comune esprime meglio l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, aspetto che va visto in stretta connessione col banchetto e che non a caso negli ultimi decenni è divenuto pressoché ignoto a molti fedeli. Coloro che sacrificano non dovrebbero guardarsi fra loro, bensì essere rivolti a Colui cui offrono il sacrificio. «Neppure la migliore catechesi mistagogica può compensare il declino nella comprensione della Messa fra i cattolici, se la celebrazione liturgica comunica segnali contrari» (p. 83).
Infine, un terzo motivo a favore dell’orientamento comune è l’atteggiamento maggiormente contemplativo, al contrario di quanto accade in una celebrazione costantemente «faccia a faccia», la quale, secondo il teologo svizzero Max Thurian (1921-1996), «[…] viene spesso condotta come fosse una conversazione e un dialogo nel quale non c’è più spazio per l’adorazione, la contemplazione e il silenzio» (p. 84) e che «[…] ripiega l’assemblea su sé stessa e impedisce l’orientamento contemplativo di tutta la comunità nell’adorazione verso il luogo simbolico della presenza del Signore e nell’attesa escatologica del suo ritorno» (p. 85).
La proposta avanzata dall’autore nel capitolo IV — Rivolti al Signore (pp. 87-92) — è una distinzione fra la proclamazione della Parola di Dio, che richiede una posizione faccia a faccia, e la Liturgia eucaristica, per la quale invece andrebbe privilegiato l’orientamento comune di sacerdote e fedeli. A cominciare da «[…] quelle chiese, di solito storiche, dove l’altare è la caratteristica artistica dominante della cappella o dell’intero edificio» (p. 89), e che invece negli ultimi decenni è stato «marginalizzato», quando non eliminato, stravolgendo la struttura spirituale e spaziale dell’edificio. La stessa Congregazione per il Culto Divino afferma che è preferibile celebrare sull’altare versus Deum, piuttosto che avere due altari nel medesimo presbiterio.
In tal modo tutta la comunità, sacerdote e fedeli, sarà facilitata ad andare incontro allo Sposo, poiché, ci ricorda il cardinal Ratzinger: «L’altare […] è il luogo del cielo squarciato. Esso non chiude lo spazio ecclesiale, ma lo apre alla liturgia eterna» (p. 90).
L’edizione italiana — prima delle Note al testo (pp. 99-123), delle Abbreviazioni (pp. 125-127) e delle Illustrazioni (p. 129), quindi di una Bibliografia (pp. 131-144) e dell’Indice dei nomi (pp. 145-149) — si conclude con una Postfazione (pp. 93-97) di don Nicola Bux — vice direttore dell’Istituto di Teologia Ecumenica «San Nicola» di Bari e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede — il quale ripercorre brevemente gli argomenti storici e teologici portati dall’autore a sostegno dell’orientamento comune — che non è affatto messo in discussione nei testi conciliari —, chiedendosi se esso «non costituiva già un imponente segno di quel senso escatologico della liturgia, così invocato e di cui poi si è imputata la mancanza al rito romano “preconciliare”?» (p. 94), e se non sarebbe ora di accorgersi che «tra tanto filorientalismo ecumenico» (p. 96), le distanze con le Chiese orientali potrebbero essere abbreviate proprio da una «[…] seria ed equilibrata riforma della riforma liturgica […] che porti a promuovere luoghi esemplari in cui si vive la liturgia come culto di adorazione al Padre nello Spirito e nella verità del Signore Gesù Cristo» (p. 97).
Stefano Chiappalone