Ignazio Cantoni, Cristianità 340 (2007)
Monsignor Antonio Livi, della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei, cappellano di Sua Santità, nato a Prato nel 1938, è ordinario di Logica e di Filosofia della Conoscenza nella Pontificia Università Lateranense di Roma. Discepolo dello storico della filosofia e filosofo Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995) e dello storico francese della filosofia e pure filosofo Étienne Gilson (1884-1978), ha, in oltre quarant’anni di attività, concentrato i suoi studi sulla nozione di “senso comune” e sugli aspetti gnoseologici, metafisici e morali a esso correlati. Fra le sue opere vi sono i tre volumi in quattro tomi del corso di storia della filosofia per i licei La filosofia e la sua storia (Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1996; cfr. la recensione di Marco Invernizzi in Cristianità, anno XXVI, n. 279-280, luglio-agosto 1998, pp. 21-24), del quale è in corso di stampa una nuova edizione, profondamente riveduta, con il titolo Storia sociale della filosofia (Società Editrice Dante Alighieri, Roma dal 2004); e la direzione di Sensus communis. Studi e ricerche di logica aletica. Periodico trimestrale a carattere internazionale, uscito dal 2000 al 2004 con cadenza trimestrale e poi trasformato, a partire dal 2005, in Sensus communis. Annuario di logica aletica, con cadenza semestrale (cfr. la mia presentazione in Cristianità, anno XXXII, n. 321, gennaio-febbraio 2004, pp. 17-18). Ultimamente sono usciti la monografia Senso comune e logica aletica (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Santa Marinella [Roma] 2005; 2a ed. riveduta e aumentata, ibid., 2007); Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Santa Marinella [Roma] 2006) e le voci Logica aletica (in Enciclopedia filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate-Bompiani, Milano 2006, volume settimo, Lan-Mem, pp. 6567-6569), Presupposizione (ibid., volume nono, Par-Rad, pp. 8931-8932) e Senso comune (ibid.,in volume undicesimo, Se-Teol, pp. 10483-10495).
Finalmente, nel 2005 è uscita anche la seconda edizione riveduta e aumentata dello studio Razionalità della fede nella Rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, comparso originariamente nel 2002.
Per accostare adeguatamente tale studio, è opportuno richiamare preventivamente le nozioni di “senso comune” e di “logica aletica”.
Con la prima espressione s’intende l’insieme organico delle certezze di fatto e di principio comuni a ogni uomo e precedenti ogni riflessione critica, quali l’esistenza di un mondo indipendente dalla conoscenza che se ne ha; l’io come soggetto qualificato dall’anima; l’ordine morale o legge naturale; infine Dio, l’affermazione della cui esistenza è l’esito della riflessione sull’esperienza di tali realtà.
Con la seconda espressione s’intende la disciplina filosofica che studia il pensiero non dal punto di vista della forma, oggetto questo della logica formale, ma dal punto di vista materiale, contenutistico, quindi veritativo: non guarda al “come”, ma al “cosa”. La logica aletica risponde in definitiva alla domanda: “Quali sono i fondamenti, le condizioni di possibilità, di un discorso vero?”.
Dopo il Sommario (pp. 5-6) e la Prefazione della seconda edizione (pp. 7-11), in cui l’autore fa stato di alcuni commenti alla prima edizione, nella Presentazione (pp. 13-21) viene posta e circoscritta la questione alla quale il volume intende portare un contributo: “Questo lavoro esamina criticamente l’atto di fede cristiana — intesa come assenso della mente alla verità della rivelazione divina — alla luce della logica aletica. Pertanto, malgrado le apparenze (ad esempio, le numerose opere di teologia fondamentale incluse nella bibliografia), non si tratta di una riflessione propriamente teologica — che parta cioè da presupposti di fede — ma di un’indagine condotta con una metodologia rigorosamente filosofica” (p. 13). È necessario anzitutto comprendere che l’impostazione delle varie correnti del pensiero moderno e post-moderno nell’esaminare l’atto di fede sono fuorvianti, poiché “[…] molti partono dal presupposto […] che la fede cristiana sia una forma culturale tra le altre e che possa essere trattata dallo studioso come un’espressione qualsiasi di ciò che l’antropologia e la sociologia chiamano “senso religioso” […]. Partendo da questo presupposto, essi vedono nei testi sacri della Rivelazione e nei dogmi della Chiesa solo un’occasionale (e talvolta arbitraria) interpretazione di quel “senso religioso” che dovrebbe esserne l’origine” (pp. 13-14). Ma “non sarebbe più logico e più seriamente scientifico studiare prima che cosa il cristianesimo dice di sé, per poi verificare se ciò che il cristianesimo pretende di essere — ossia, la vera religione, fondata sulla verità rivelata da Dio stesso — corrisponde a una qualche possibilità reale, come tale ammissibile in astratto, e poi in concreto suscettibile di verifica da parte della ragione umana?” (p. 14).
In altre parole: la ragione può giungere alla certezza dell’esistenza di Dio con le sue forze? Se la si ammette, è concepibile una rivelazione divina, cioè che Dio parli agli uomini? Se si riconosce tale possibilità, si possono individuare le caratteristiche che l’autentica rivelazione divina deve avere per apparire tale alla ragione? Se, infine, si risponde affermativamente a tale questione: a fronte di un’autentica rivelazione, la persona è in grado di svolgere, anche mediante la ragione, un atto di fede su di essa, cioè di credere determinati dogmi e misteri senza, ovviamente, poterli comprendere e tantomeno verificare tramite l’esperienza o la dialettica?
La prima domanda dice relazione alla conoscenza razionale di Dio: in Premesse. La conoscenza naturale di Dio (pp. 23-44), monsignor Livi mostra la capacità dell’uomo di arrivare con le sue sole forze a tale conoscenza: “La fenomenologia dell’esperienza religiosa mostra infatti che la nozione di Dio come principio è implicitamente ma efficacemente connotata dall’insieme delle certezze esistenziali del senso comune […], in quanto esprime il fondamento necessario dell’evidenza originaria del mondo, dell’io e dei valori morali, quelli che regolano i rapporti con i propri simili” (p. 29); quest’“esperienza originaria” (p. 38), in quanto tale, sta a fondamento di qualsiasi ragionamento, anche filosofico, e non a conclusione.
Alla facile obiezione che la Sacra Scrittura, per esempio san Paolo, afferma l’inconoscibilità di Dio — Egli “[…] abita una luce inaccessibile” (1 Tim. 6, 16) —, si può rispondere che al contempo afferma con forza la seguente verità di ordine filosofico. Parlando dei pagani, l’apostolo delle genti afferma: “[…] ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rom. 1, 19-20). Pertanto, si è in errore quando si afferma di “credere in Dio” intendendo con ciò il credere per dato rivelato alla Sua esistenza; ciò che è fuori dalla portata della ragione umana è, invece, la Sua essenza.
Solo dopo aver risposto alla domanda an Deus sit, ci si può porre la successiva, che dice relazione al quis e al quid divini, e a una loro conoscenza che — questa sì — ammesso che sia possibile, necessita di essere rivelata, e quindi creduta.
Nel primo capitolo, La conoscenza per fede nelle sue diverse forme (pp. 45-66), l’autore definisce, in un passo magistralmente sintetico, la fede in generale: “[…] si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza riguardo a un oggetto che gli è inevidente, cioè che è (per lui) non-visibile, un “mistero”: infatti, sia quando si tratta di eventi del passato (fede storica) che di aspetti dell’interiorità altrui (fede nella confidenza o confessione di un altro), è sempre di un “mistero” naturale che si tratta, quando non si tratta addirittura di “misteri” soprannaturali (fede nella rivelazione divina)” (p. 45). È necessario tenere presente che la fede ha una portata noetica, cioè dice relazione al sapere “come stanno le cose”: “[…] l’atto di fede, dal punto di vista logico, si può definire come ammissione e certezza che un’ipotesi di proposizione (di giudizio) sia vera, in quanto corrisponde alla realtà“ (p. 48), anche se si tratta di una “certezza morale, non una certezza fisica, o metafisica, o logica” (p. 49). Ma, a tal proposito, l’autore si serve di un brano del filosofo ebreo tedesco Franz Rosenzweig (1886-1929): “Le verità disperatamente statiche, come quelle della matematica, che le antiche teorie gnoseologiche hanno considerato un punto di partenza (senza però riuscire ad andare oltre e al di sopra di questo punto di partenza), d’ora in poi dovrebbero essere […] considerate un caso-limite” (ibidem), dal momento che la stragrande maggioranza delle nozioni su cui si basa la vita degli uomini, siano esse di portata naturale o soprannaturale, sono conosciute perché credute, poiché solo per pochissime di esse si è in grado di farne esperienza diretta. Si pensi, per esempio, alla fede nell’autorità del maestro, alla conoscenza storica, all’interiorità personale, basate tutte in modo radicale sulla testimonianza. Da qui è venuta, per esempio, la valutazione da parte del filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer (1900-2002) dell’istanza illuministica. Scrive Gadamer: “Il superamento di tutti i pregiudizi […] appare alla fine un pregiudizio esso stesso; dal fatto di superarlo dipende la possibilità di una adeguata conoscenza di quella finitezza che costituisce non solo la nostra essenza di uomini ma anche la nostra coscienza storica” (p. 51).
A partire da quanto fin qui detto, è possibile vedere la peculiarità dell’atto di fede cristiano: “Nell’ambito della conoscenza per testimonianza, l’evento cristiano ha introdotto una fondamentale distinzione, quella tra fede “umana” e fede “divina”. Quest’ultima è il tratto specifico del cristianesimo, basato sulla fede in una rivelazione soprannaturale, cioè propriamente divina: sia perché è divino l’oggetto della testimonianza da credere, sia perché è Dio stesso il testimone degno di essere creduto” (p. 62). Pertanto, “l’atto di fede del cristiano è […] una “specie” nel “genere” logico della credenza in una testimonianza: ma è anche qualcosa di assolutamente diverso, per grado, dalla fede nella parola di qualche persona umana, per quanto essa possa essere autorevole” (p. 64), perché “Dio non è solo il Mistero,[…] ma è anche il Testimone” (ibidem).
Nel secondo capitolo, Specificità della fede nella rivelazione (pp. 67-95), l’autore rimarca il fatto che la fede è un sapere: “Certamente, la conoscenza dei misteri divini […] non si esaurisce in proposizioni […]: la fede è qualcosa di più della mera conoscenza […], in quanto mette la persona umana in rapporto diretto con Dio stesso, e il rapporto con il Dio della Rivelazione, il Dio trino e uno, trascende la conoscenza oggettiva e consiste in una vita — la vita mistica — nella quale ha un ruolo prevalente la conoscenza non obiettivabile. Con tutto ciò, non si può perdere di vista che il fondamento logico che rende possibile questo tipo di conoscenza (mistica) è la conoscenza di fede nel suo nucleo certo e comunicabile, che è di tipo assertivo-oggettivo: proprio perché il soggetto ha la più ferma convinzione che tutto ciò che egli crede in base alla Parola di Dio è vero, il suo coinvolgimento personale con l’oggetto della fede è totale” (p. 74). Sicuramente ciò che è mistero è ultimamente inconoscibile, ma ciò che importa è che esso “[…] sia perfettamente compreso in termini di realtà esistenziale, cioè nella […] reale ed efficace presenza nella storia degli uomini, come dato di fatto certo e ineludibile” (p. 76). Parlare di certezza e di verità nel cristianesimo significa parlare di fatti, e di fatti storici, dal momento che Gesù Cristo è una persona realmente esistita, che ha fatto miracoli realmente accaduti, che ha insegnato realmente determinate dottrine, che è realmente morto ed è realmente risorto. Il poter attingere a tali conoscenze, che sono tutte di ordine naturale, è possibile nel momento in cui si accetta la testimonianza storica come veritiera, e ciò è possibile solo sulla base di testimonianze. Infatti, al contrario dei contemporanei di Nostro Signore, che lo hanno conosciuto direttamente, noi dobbiamo basarci su “[…] testimoni, nostri contemporanei, che debbono trasmetterci un messaggio che risale agli Apostoli di Gesù e, tramite loro, a Gesù stesso” (p. 84), attraverso una “catena di testimonianze” (ibidem): “[…] ad alcuni — un numero scelto di persone più vicine, destinate a una missione particolare — Gesù chiede di riconoscerlo come Dio fatto uomo esibendo — come motivo di credibilità — l’evidenza empirica dei miracoli, ultimo e più importante quello della sua resurrezione corporale; a tutti gli altri chiede di giungere alla medesima certezza […] garantendo soltanto che a essi possa giungere la testimonianza di quei primi, i quali esibiranno a loro volta dei validi motivi di credibilità” (ibidem). “[…] in altri termini, la fede divina (credere a Dio che si rivela in Gesù) presuppone necessariamente la fede umana (credere agli Apostoli che hanno visto Gesù risuscitato e sono stati con lui per quaranta giorni)” (p. 85).
Nel terzo capitolo, Le dimensioni razionali della fede nella rivelazione divina (pp. 97-113), monsignor Livi riordina quanto espresso precedentemente sull’atto di fede. “”Cercare la verità”, “conoscerla” e “aderirvi” sono i tre passi del processo noetico della fede. L’assenso finale (“adesione alla verità rivelata”) è possibile in virtù di un atteggiamento previo di apertura a una possibile rivelazione divina (“cercare la verità”) e di un sincero riconoscimento dei segni attestanti che essa è effettivamente avvenuta (“conoscere la verità”). Questi passi previ sono definiti tradizionalmente “praeambula fidei”, ossia appunto passi della ragione che portano l’uomo sulla soglia della fede” (p. 97). La prospettiva che elimina la corretta sequenza ora richiamata prende il nome di fideismo, corrente del più ampio scetticismo: per esso “[…] la conoscenza sarebbe sempre e comunque incerta, mentre la certezza della fede deriverebbe da altro, da qualcosa che non è conoscenza bensì istinto, cuore, sentimento, volontà, amore” (p. 101). In sostanza, l’atto di credere sarebbe un atto volontaristico, quasi che la relazione fra ragione e fede trasformasse la seconda in un passaggio logico: ma, distingue il nostro, “dati i presupposti della fede, si può credere e non credere, perché la fede resta un atto libero. I “praeambula fidei” costituiscono non le cause efficienti dell’atto di fede ma solo le condizioni previe necessarie” (p. 103), perché per andare oltre si entra nel campo “del rischio e del merito“ (p. 49).
Dopo i praeambula fidei intervengono i motiva credibilitatis, i “motivi di credibilità”, che permettono di dare l’assenso a questa o a quella rivelazione: a differenza dei primi, i secondi non hanno carattere metafisico, ma storico-empirico, e dicono relazione non principalmente al contenuto della rivelazione, ma alla credibilità del testimone: “[…] segni o indizi della missione profetica, ossia le prove della credibilità dei profeti dell’Antico Testamento […] relativi alla divinità di Gesù […], della presenza di Dio nella vita della Chiesa fondata da Gesù (indefettibilità e santità della Chiesa nella storia)” (p. 107). Questo basarsi su segni “[…] si inserisce nella logica più ampia della credibilità del testimone delle cose divine attraverso l’esame e la valutazione della sua condotta, della sua qualità morale; è la logica che Gesù stesso propone quando chiede ai suoi discepoli fedeli di saper distinguere tra veri e falsi profeti, fornendo poi il criterio di discernimento:
“”Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni, e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. […] Dai frutti dunque li potrete riconoscere” (Vangelo secondo Matteo, 7, 15-20)” (pp. 107-108).
Nel quarto capitolo, Le premesse razionali delle fede nel pensiero di Karol Wojtyla (pp. 115-134), l’autore prende in esame, nonostante il titolo, il pensiero di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), e segnatamente della lettera enciclica Fides et ratio circa i rapporti tra fede e ragione, del 14 settembre 1998. Tale rilevante documento mostra fra le altre cose come la filosofia debba essere valutata. “Si osservi l’andamento del discorso di Giovanni Paolo II: egli ha a cuore di ricollocare la filosofia nel suo giusto contesto antropologico, accanto a tutte le altre forme di sapienza umana (mito, religione, poesia); infatti, “molteplici sono le risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità. […] Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo. È una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti culture in cui l’uomo vive” (Fides et ratio, § 3). Si noti come il Papa parli di “proprietà nativa della ragione umana”, ossia di qualcosa che non è cultura ma genera la cultura in tutte le sue diverse forme; di qualcosa che non è legato a contingenze socio-culturali ma appartiene al patrimonio comune dell’umanità; in altri termini, è proprio il senso comune” (p. 124): secondo quanto monsignor Livi viene affermando e argomentando da decenni, la filosofia non è altro che una riflessione sulle verità del senso comune, e non una fondazione di esse, al punto da poter concludere che sono esse i praeambula fidei, non la filosofia, che già le presuppone.
Nelle Conclusioni. Persistenti equivoci circa la razionalità della fede (pp. 135-142), l’autore coglie l’occasione per richiamare il rifiuto costante che si deve avere nei confronti sia del razionalismo, sia del fideismo.
Seguono e chiudono l’opera i Riferimenti bibliografici (pp. 143-164).
Dopo aver detto dell’opera ogni bene, è l’ora di qualche nota critica.
Innanzitutto s’impone la segnalazione della presenza di una notevole quantità di refusi, veramente fastidiosa, che disturba un’altrimenti agevole lettura, nonché la sostituzione della pagina 18 con la pagina 21, che pertanto risulta ripetuta, mentre della pagina 18 non vi è traccia né dove sarebbe giusto trovarla, né altrove.
In secondo luogo, monsignor Livi, parlando del tradizionalismo, afferma: “[…] in effetti, il concilio ecumenico Vaticano I, nel 1870, ha condannato formalmente il fideismo cattolico di autori come Bonald, Bonnetty e Joseph de Maistre” (p. 112). Ebbene, mentre è certa la condanna del pensatore e pubblicista francese Augustin Bonnetty (1798-1879), citata a pagina 127 — e a firma della Sacra Congregazione dell’Indice, non del Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870) —, non si trova condanna di sorta, né formale né informale, a carico del visconte francese Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840) o del conte savoiardo de Maistre (1753-1821). Il che deriva dal fatto che “sul piano religioso il tradizionalismo si divise: alcuni esigevano la necessità della tradizione (ossia, di fatto, della rivelazione) per tutte le verità religiose, compresa quella dell’esistenza di Dio (tradizionalismo rigido); altri ammettevano che queste potevano derivarsi dall’idea di Dio già esistente nella società (accettando con fede umana l’idea di Dio, si può provarne poi razionalmente l’esistenza ([tradizionalismo mitigato o semitradizionalismo])” (Giovanni Santinello ed Eugenio Guccione, voce Tradizionalismo, in volume dodicesimo, Theon-Z, dell’Enciclopedia filosofica, cit., pp. 11717-11719 [p. 11718]). Quindi, fu — ed è — oggetto di condanna il tradizionalismo rigido, non l’altro. Inoltre, nel tempo che corre dal Concilio Ecumenico Vaticano I, mentre Papa san Pio X (1903-1914), nella Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre charge apostolique”, del 25-8-1910, afferma simpliciter che “[…] i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti” (La concezione secolarizzata della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre charge apostolique”, n. 44, trad. it., Cristianità, Piacenza 1993, p. 36), Papa Giovanni Paolo II, richiamando la condanna di Bonnetty nell’enciclica Fides et ratio, parla di “tradizionalismo radicale” (n. 52, nota 60), implicitamente dando spazio a un “tradizionalismo non radicale”, che però non dice relazione solamente a “[…] un atteggiamento spirituale di reazione ad avvenimenti storici o a movimenti di cultura rivoluzionari, in nome di un complesso di valori trasmessi nel passato” (G. Santinello ed E. Guccione, voce cit., p. 11717), ma anche al “tradizionalismo in senso specifico […] quello dell’età successiva alla Rivoluzione Francese e a Napoleone, espresso in un indirizzo di pensiero che rappresenta la coscienza filosofica dell’età della Restaurazione. I maggiori rappresentanti sono: J. de Maistre, L. de Bonald, F. de Lamennais [Hugues-Felicité-Robert (1782-1854)], B. Constant [de Rebecque Henri-Benjamin (1767-1830)] e altri, fino allo spagnolo Donoso Cortés [Juan (1809-1853)]; in sede letteraria, tra gli altri, Madame de Stäel [Anne-Louise-Germaine Necker (1766-1817)] e R. de Chateaubriand [François-René de (1768-1848)]. Questo tradizionalismo ottocentesco si denomina non soltanto così perché riprende dottrine tradizionali del cristianesimo cattolico, o perché fiorisce nel clima del legittimismo politico e della Restaurazione che si richiama al passato francese ed europeo pre-rivoluzionario, ma soprattutto perché elabora il concetto di tradizione opponendolo a quello illuministico di ragione individuale“ (ibidem).
La terza — e ultima — nota riguarda la Conclusione. In essa, parlando di fideismo, vengono fatti due nomi: quello del professor Dario Antiseri, già citato in precedenza, e quello del sen. professor Marcello Pera, noto epistemologo. In merito al secondo si dice: “[…] interpretando a modo suo un appello che il card. Ratzinger rivolgeva ai “non credenti” per un’azione culturale comune volta alla valorizzazione delle radici cristiane della civiltà europea, confonde volutamente i “non credenti” con i “non cristiani”; per lui, questi ultimi sono gli intellettuali, eredi dell’Illuminismo, i quali ritengono che la ragione impedisca loro di ammettere l’esistenza di Dio, mentre coloro che invece la ammettono sarebbero i “credenti”, i quali di conseguenza appaiono come persone che aderiscono senza motivi razionali a una visione religiosa del mondo. In tal modo Pera continua ad adoperare i termini “ragione” e “fede” proprio come li adoperava Kant [Immanuel (1724-1804)] […]. Ora, Pera ha certamente il diritto di essere e di chiamarsi kantiano, ma non ha il diritto (da un punto di vista storico-critico) di spacciare l’opzione kantiana per l’unica possibile in rapporto alla razionalità come tale” (p. 141). E ancora, gli si potrà chiedere “[…] che ragione ci può mai essere perché un agnostico convinto adotti nella sua vita morale e politica l’ipotesi teistica dei cristiani […]; Pera risponderà che “il laico che agisca veluti si Deus daretur diventa moralmente più responsabile” […], ed è evidente che questa è una tesi senza alcun fondamento logico” (ibidem). Monsignor Livi ha ragione, e probabilmente il tono non è nemmeno inopportuno, posto il carattere filosofico del testo, lontano dalla polemica politico-sociale. Cionostante, mi pare che non tenga in adeguato conto la difesa, fatta dal professor Pera in diverse circostanze, di elementi di senso comune e di diritto naturale, che certamente confliggono con l’impostazione kantiana; ma l’epistemologo li sostiene, li difende anche polemicamente, nonostante il suo kantismo. Se si tiene conto del primato del senso comune rispetto alla filosofia, ciò che è sostanziale è pertanto l’assenso a esso: il resto, la filosofia, con l’aiuto e la pazienza di Dio, verrà da sé. Fra le certezze del senso comune vi è l’esistenza di Dio ma essa, come viene insegnato dallo stesso monsignor Livi, è in certo modo conseguente alle altre esperienze originarie, quindi derivata. La strada è lunga, ma è quella giusta; accomodando un antico detto latino: rem tene, reflectiones sequentur, “se cogli il vero, finirai per riflettere su di esso”.
Ignazio Cantoni