“Una preziosa e a tutt’oggi unica radiografia dello stato della giustizia italiana, specialmente penale, esaminata con l’occhio attento di un magistrato che, nutrito della cultura cattolica contro-rivoluzionaria, si sforza di descrivere accuratamente il fenomeno della criminalità e tenta d’identificare le cause vere e profonde, generalmente trascurate nelle analisi ufficiali e negli studi di carattere specialistico, di una realtà che sta segnando in modo rilevante il tessuto sociale italiano, per quindi portare il giudizio sulle modalità di risposta a essa da parte dello Stato”: questa una possibile sintetica descrizione dell’opera prima di Alfredo Mantovano La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale.
Lo studio si apre con una magistrale Presentazione (pp. 5-10) di Mauro Ronco, ordinario di Diritto Penale nell’Università di Modena ed esponente di Alleanza Cattolica, che indica la causa ultima dell’espandersi della “dis-società” illegale nella rottura del fondamentale rapporto fra religione, etica e diritto, e mette in evidenza l’assoluta incongruenza di ogni tentativo volto a realizzare la prevenzione criminale secolarizzando ulteriormente il diritto stesso, ovvero separando, fino a contrapporli dialetticamente, diritto e morale, tentativo che finisce con il moltiplicare la confusione “[…] procrastinando magari nel tempo la permanenza al potere degli apprendisti o dei maestri stregoni, ma allontanando irrimediabilmente il momento del ravvedimento e della conversione sociale” (p. 5). Di fronte agli esempi e agli effetti palesi della secolarizzazione in genere e di quella del diritto in specie — divorzio, aborto, liberalizzazione della pornografia e della droga, per citarne solo alcuni — non può non suscitare sdegno — prosegue Mauro Ronco — “[…] il fatto che, dopo avere a lungo e ostinatamente negato l’esistenza del male, i potenti della politica e della cultura si diffondano oggi a constatare lo spessore quantitativo del male stesso, senza per nulla piegarsi a esaminare le cause morali e gli errori intellettuali che tanto e così decisivamente hanno contribuito a provocare l’attuale stato di profondo mal-essere sociale” (p. 7).
Alfredo Mantovano — informa la Nota bio-bibliografica (p. 141) — nasce a Lecce il 14 gennaio 1958 e, dopo essersi laureato in giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sui problemi di legittimità costituzionale della legge sull’aborto, nel 1983 entra in magistratura. Dal 1985 al 1987 è pretore del mandamento di Ginosa, in provincia di Taranto, e dal 1988 è giudice della prima sezione penale del Tribunale di Lecce. Giornalista pubblicista, collabora a L’Ora del Salento, a Voce del Sud e a Pagine libere. Suoi scritti compaiono regolarmente in Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica, associazione in cui milita dal 1976, e appunto dalla profonda rielaborazione e ampia integrazione di alcuni di essi nasce La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale.
Nel primo capitolo — Il crimine in Italia: qualità, quantità ed estensione geografica ed economica (pp. 11-42) — l’autore svolge una meditata ricognizione della consistenza del crimine sul territorio nazionale utilizzando allo scopo i dati forniti dall’ISTAT, l’Istituto Centrale di Statistica, da altri organismi di provata affidabilità, dalle relazioni periodicamente redatte dai procuratori generali presso le Corti d’Appello nonché da singoli magistrati: la pur sintetica descrizione del fenomeno — all’indicazione delle cifre si affiancano considerazioni sulle regioni dette “a rischio” e sul controllo del territorio da parte della criminalità organizzata — si conclude con l’illustrazione degli effetti dell’esplosione della criminalità sulle attività “legali”, con particolare riferimento alla vita economica.
Nella parte d’esordio in cui illustra la “qualità” del crimine, Alfredo Mantovano indica l’omicidio del dottor Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, avvenuto il 9 agosto 1991 nelle vicinanze di Reggio Calabria, come episodio rivelatore di un progetto particolarmente inquietante: infatti la vittima non è un giudice di merito, com’era — per esempio e per evocare un altro tragico accadimento — il dottor Rosario Livatino, ucciso nei pressi di Agrigento il 21 settembre 1990, ma un magistrato che avrebbe dovuto sostenere le ragioni della pubblica accusa dinanzi alla Corte di Cassazione in relazione al cosiddetto maxiprocesso, celebrato nei primi due gradi di giudizio a Palermo, contro una rilevante parte della criminalità organizzata della Sicilia Occidentale; e l’osservazione acquista ulteriore tragica puntualità dopo la “strage di Capaci”, cioè dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, pure magistrato, e dei tre uomini della scorta, avvenuto il 23 maggio 1992 sull’autostrada fra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo.
Allo stesso modo, dopo l’apertura dell’”inchiesta sulle tangenti” — collegata allo “scandalo” corrispondente, esploso soprattutto a Milano e in Lombardia, ma in via di estensione a tutto il territorio nazionale — sono assolutamente attuali le considerazioni che l’autore svolge circa i frequenti coinvolgimenti di amministratori e di politici in procedimenti penali di vario genere, talora relativi alla stessa criminalità organizzata.
Alla constatazione accurata degli effetti segue l’individuazione delle cause della debolezza dello Stato, identificate in una serie di leggi “lassiste”, frutto di precise scelte ideologiche, maturate nel clima culturale degli anni Settanta, fra le quali si segnala, per la gravità dei risultati prodotti, il nuovo codice di procedura penale.
Il secondo capitolo è tematicamente dedicato all’esame de Il nuovo codice di procedura penale (pp. 43-67). Per descrivere con efficacia e con puntualità il vizio culturale di fondo della riforma Alfredo Mantovano richiama e fa proprio il giudizio di Mauro Ronco: “Secondo l’idea tradizionale, il processo penale è il mezzo attraverso cui il giudice, imparziale rispetto alle parti, ma non indifferente alla scelta tra la verità e la menzogna, cerca di acquisire certezze storiche e fattuali in funzione della riaffermazione di valori recati dalle norme di diritto sostanziale. Nell’ideologia del nuovo codice di procedura penale, il processo è fine a sé stesso; il giudice è l’arbitro della schermaglia d’ordine tecnico che le parti contendenti giocano tra loro, in una prospettiva secondo cui ciò che esclusivamente conta è la regolarità formale del contendere, indipendentemente dal fine per cui la contesa è stata intrapresa” (p. 44).
Conseguenze pratiche di tale presupposto ideologico sono la drastica riduzione dei poteri del pubblico ministero, i limiti e i controlli a cui è soggetta la sua attività d’indagine, la sconcertante brevità dei termini entro i quali devono essere compiute le indagini, ma anche, dalla parte dell’”indagato” innocente, la possibilità di subire accertamenti rilevanti ai fini del procedimento nella loro più completa ignoranza.
Altro aspetto estremamente negativo del nuovo codice, conseguente allo scarso successo degli istituti del “patteggiamento” e del “giudizio abbreviato”, è la vistosa riduzione della produttività dei processi: dai 10-15 processi per udienza che potevano anche essere celebrati con il vecchio rito, oggi, in media, se ne concludono circa un paio e non fra i più complessi, proprio perché la prova si forma per la prima volta in quanto tale in dibattimento.
A proposito di quest’ultimo, nell’opera sono segnalate le fondamentali difficoltà, ai fini dell’accertamento dei fatti illeciti, derivanti dai divieti di utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese dal testimone — al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria — nella fase delle indagini preliminari, e dalla conseguente intimidazione dello stesso testimone, soprattutto a opera della criminalità organizzata, dal momento che spesso è bastata la presenza nell’aula di udienza dell’imputato e dei suoi parenti o amici per dissuadere chi è informato dei fatti dal dire la verità. Peraltro, si tratta di difficoltà in buona parte superate dalle sentenze della Corte Costituzionale del maggio del 1992, che hanno affermato l’illegittimità di tali divieti di utilizzazione, e dalle modifiche apportate al sistema processuale penale dal decreto legge n. 306, dell’8 giugno 1992, che ha dilatato la possibilità di utilizzare i risultati delle indagini svolte dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, proprio nella direzione auspicata da Alfredo Mantovano.
L’autore passa poi ad analizzare i conti “in rosso” della giustizia e in particolare del nuovo codice di procedura penale. Dopo l’individuazione di ulteriori aspetti negativi dello stesso, relativamente alle norme disciplinanti il processo per i minorenni e, in via generale, alla posizione di totale disinteresse per la sorte delle parti lese che caratterizza spesso l’applicazione di certi istituti, come per esempio il patteggiamento, l’autore conclude con l’affermazione dell’assoluta necessità di rettifiche coraggiose della nuova disciplina processuale affinché le regole di rito non prescindano dal finalismo del processo stesso che non può non tendere, certo nel rispetto degli aspetti formali, a far emergere l’oggettività del fatto, pena la confusione fra lo strumento e il fine da raggiungere.
Nel terzo capitolo — La politica giudiziaria fra confusione, demagogia e inefficienza (pp. 69-87) — Alfredo Mantovano tratta di un altro aspetto delle modalità di risposta dello Stato al fenomeno criminale e cioè quello costituito da una legislazione non solo iperformalista e supergarantista, ma anche gravemente confusa e di difficile esegesi; e nota come — con una superficialità di giudizio che può comprendersi nell’uomo della strada, non già in autorevoli personaggi politici e del mondo giornalistico — gli effetti delle lacune e degli ermetismi vengano di consueto imputati al magistrato, così esposto al ludibrio della pubblica opinione, mobilitata pendolarmente e secondo necessità di parte talora in chiave “rigoristica”, talora “garantistica”.
“[…] la confusione e la superficialità sembrano essere i compagni di strada preferiti di interventi legati alle vicende giudiziarie” (p. 79) e, il che è più grave, questioni sorte da difficoltà ermeneutiche di una legislazione ipertrofica e complessa vengono date “in pasto” a un’opinione pubblica sempre più frastornata, che comincia a guardare ai problemi dell’interpretazione del diritto un po’ come alle diatribe da bar fra “sistema” e “zona” calcistica, e la tifoseria si divide fra i “giudici”, da poco più popolari grazie alle indagini sulle tangenti, e il politico “castigamagistrati” di turno.
Se nel settore penale della giustizia il quadro è tutt’altro che rasserenante, nel settore civile si può parlare, secondo l’autore, di un vero e proprio “diniego di giustizia”, le cui cause egli puntualmente analizza, elencando poi, a conclusione del terzo capitolo, più in generale, le “cifre dell’impotenza” degli organici e dei mezzi dell’apparato giudiziario, in uno Stato che, è doveroso ricordarlo, dedica all’amministrazione della giustizia meno dell’1% del bilancio nazionale, e nel quale, per contro, “[…] trova posto ogni sorta di sprechi e di devoluzioni per attività prive di qualsiasi rilievo pubblico” (p. 87).
Il quarto capitolo — Alla ricerca dei rimedi (pp. 89-114) — è dedicato agli interventi succedutisi a ritmi intensi nel 1991 e alle riforme annunciate nello stesso anno, che tuttavia, almeno nelle dichiarazioni dell’allora capo dello Stato, sen. Francesco Cossiga, e del ministro di Grazia e Giustizia, on. Claudio Martelli, non interessavano, com’è invece accaduto con il decreto legge n. 306, dell’8 giugno 1992, il codice di procedura penale, verso il quale anzi è stato più volte espresso ampio favore. In compenso, dalle stesse autorità sono state riprese, in nome di una supposta maggiore efficienza, le proposte di estromettere il pubblico ministero dalla magistratura, ponendolo alle dipendenze del potere esecutivo, e di rendere non più obbligatoria l’azione penale. L’autore espone gli ostacoli di ordine costituzionale, ma prima ancora logici e di buon senso, che si possono opporre all’approvazione di queste riforme: se esse fossero realizzate, l’esecutivo non soltanto verrebbe a determinare quali reati devono essere perseguiti e quali no, ma anche in quali aree di illecito, e addirittura nei confronti di quali soggetti va esercitata la giurisdizione, “[…] con ciò ponendo sia fine alle garanzie di autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico, sia anche a quella dei magistrati giudicanti, le cui decisioni non potranno che riguardare ciò che l’inquirente avrà loro sottoposto, una volta esercitata la propria discrezionalità” (p. 101).
Il capitolo dedicato ai possibili rimedi è completato dall’esame critico della proposta di depenalizzazione avanzata da Magistratura Democratica, il raggruppamento di sinistra all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati — tale proposta è caratterizzata dall’affievolimento della difesa di quanto attiene ai diritti e agli interessi del singolo, in favore della permanenza dei reati che invece toccano interessi della collettività —, nonché della costituzione della DNA, la direzione Nazionale Antimafia, e delle DDA, le Direzioni Distrettuali Antimafia, delle quali viene sottolineata l’ambiguità istituzionale e al cui proposito sono ipotizzati i problemi che porrà il loro concreto funzionamento.
Nel quinto capitolo — Certezza del diritto e certezza della pena (pp. 115-127) — Alfredo Mantovano, dopo aver illustrato la funzione della pena, sotto il triplice aspetto del castigo, della prevenzione e della correzione del reo, denuncia l’incertezza che caratterizza la sanzione penale all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, a causa della contemporanea operatività di un insieme di istituti, alcuni dei quali non privi di una loro intrinseca giustificazione, ma che, nel loro insieme, spesso producono un effetto tutt’altro che dissuasivo nelle valutazione fra i costi e i benefici da parte di chi intenda compiere un atto penalmente illecito.
Nello stesso capitolo l’autore ridimensiona anche la portata, in questo senso, della legge sull’ordinamento penitenziario — più nota come “legge Gozzini” —, che viene chiamata in causa non sempre a proposito per giustificare la scarsa effettività dell’intervento punitivo dello Stato; infatti, mentre la logica che è alla base della “legge Gozzini” — i cui benefici sono stati peraltro fortemente ridotti nel 1991 e con il decreto legge n. 306, dell’8 giugno 1992 — è quella di spingere il condannato a un comportamento positivo, che preluda al suo reinserimento nella società, sono invece privi di ogni fondamento razionale i ricorrenti provvedimenti di amnistia e di indulto che, con scadenze regolari fino al Natale del 1990, sono stati varati da un legislatore “lassista”, e che hanno cancellato gratuitamente e senza alcun condizionamento condanne divenute definitive.
La parte finale — il capitolo sesto intitolato Legalità “formale” e illegalità di sostanza (pp. 129-139) — trae spunto da un discorso tenuto l’8 luglio 1991 dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ricevendo in udienza i partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente organizzata dal ministero dell’Interno della Repubblica Italiana su La cultura della legalità. Infatti, il problema della giustizia e della sua crisi deve essere affrontato elevando il tono del discorso: “[…] l’affermazione meramente formale della legalità senza effettiva incisività negli interventi concreti”, ha detto il Santo Padre, “finisce per favorire una illegalità di sostanza, fatta di compromesso e corruzione, con la conseguenza dell’affermarsi di un diffuso malessere che incrina alla base quel consenso sociale che, com’è noto, è il fondamento stesso della civile convivenza. […] È chiaro, pertanto, che ogni azione mirante al recupero della legalità deve necessariamente partire dalla riaffermazione di questi valori fondamentali, senza i quali l’uomo è offeso nella sua dignità originaria e la società è intaccata nel suo nucleo più profondo” (p. 129).
Con riferimento a questo fondamentale insegnamento pontificio Alfredo Mantovano tratta degli aspetti di principio della situazione di cui ha criticamente illustrato i termini, ribadendo che la causa prossima della gravissima diffusione della criminalità è costituita da una legislazione fondata su presupposti culturali relativistici, produttivi di fatto di “effetti devastanti”, e individuandone le radici profonde “[…] nella progressiva scristianizzazione del corpo sociale e nell’abbandono, nel contempo a livello individuale e istituzionale, di un ordine oggettivo di valori di riferimento” (p. 130).
Questa e non altra è la risposta al quesito “Perché tutto questo?” che ogni uomo di buona volontà non può non porsi nella presente situazione, sia esso operatore del diritto o meno.
Giuliano Mignini