Giuseppe Bonvegna, Cristianità, n. 313 (2002)
Francesco Pappalardo, napoletano, consigliere parlamentare presso il Senato della Repubblica, militante di Alleanza Cattolica e direttore dell’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, di Roma, è autore dell’opera Perché briganti. La guerriglia legittimista e il brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unità (1860-1870) e, con Oscar Sanguinetti, di Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia (entrambe edite da Tekna, Potenza 2000; cfr. la mia recensione in Cristianità, anno XXIX, n. 306, luglio-agosto 2001, pp. 21-24).
Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia non soltanto consente una lettura inedita della vita e della figura di Giuseppe Garibaldi (1807-1882), uno degli artefici dell’unificazione della Penisola italiana sotto la Corona dei Savoia, ma offre anche una ricostruzione non convenzionale della Rivoluzione italiana, il cosiddetto Risorgimento.
Dopo la Presentazione (pp. 5-7) di mons. Andrea Gemma F.D.P., vescovo di Isernia-Venafro, che invita a “[…] levare la voce perché certi luoghi comuni, ormai diventati insopportabili, non continuino ad ingannare i semplici” (p. 5), Giovanni Cantoni, direttore di Cristianità, nell’Introduzione (pp. 9-14) individua la novità della ricerca sull’”eroe dei Due Mondi” nell’aver provato “[…] che i due “mondi” in questione non sono geografici [l’Europa e l’Iberoamerica], bensì quello politico-militare e quello culturale” e che “[…] l’agire di Garibaldi nel primo mondo fu animato da una prospettiva culturale, fu anzi a essa direttamente funzionale” (p. 13).
Nella Premessa (pp. 15-29) l’autore indaga l’origine del mito creatosi intorno alla figura di Garibaldi, la cui fama “[…] non soltanto ha rappresentato un fattore coagulante della Rivoluzione italiana, ma è anche utilizzata tuttora per accreditarne il preteso carattere popolare” (p. 17). Il mito garibaldino, la cui nascita risale al 1834, quando il nizzardo, solo “spettatore imprudente” (p. 21) della fallita azione insurrezionale progettata da Giuseppe Mazzini (1805-1872) nel capoluogo ligure, diventa “l’eroe di Genova”, cresce grazie ai pregiudizi anticattolici diffusi nei paesi anglosassoni e si consolida in occasione della “spedizione dei Mille”, quando Garibaldi affida allo scrittore francese Alexandre Dumas (1802-1870) la “regia” propagandistica dell’intera operazione e la stesura delle sue Memorie, nelle quali viene elaborata una verità funzionale al mito.
Nel primo capitolo, La formazione politica e militare di Garibaldi (pp. 31-77), viene ricostruito l’itinerario formativo dell’”eroe”, sia sotto il profilo religioso — caratterizzato dalla presenza di idee panteiste, sincretiste, sansimoniane, razionaliste e anche occultiste, che confluiscono in una precoce ostilità al cattolicesimo —, sia sotto il profilo politico, segnato dall’adesione al socialismo, sia pure a un socialismo sui generis, e alla Prima Internazionale (1864-1876), da lui considerata “come modello di società anticlericale” (p. 38). Questo confuso atteggiamento ideologico, che porta Garibaldi, nel 1844, ad aderire alla massoneria, è alla base dell’impegno militare in Sudamerica, fra il 1835 e il 1844, che dà luogo non tanto a una gloriosa epopea in difesa di popolazioni oppresse quanto a una lunga serie di azioni di pirateria e di saccheggi nei confronti di contadini e di allevatori “[…] che evidentemente non avevano nessuna intenzione di “collaborare” con gli invasori” (p. 71).
Sullo sfondo di tali avvenimenti, Pappalardo ricostruisce il periodo della Restaurazione, quando in Italia, accanto alla “[…] scelta, spesso obbligata, dei sovrani restaurati di mantenere in vita sistemi di governo introdotti nell’età napoleonica” (p. 42), si sviluppa l’attività propagandistica e organizzativa di laici e di religiosi che, invece, “[…] intendono dare un carattere di maggior profondità e incisività alla Restaurazione” (ibidem). Tuttavia, da questi cenacoli non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo del ceto colto e della tradizione giurisdizionalistica ancora viva nelle maggiori corti italiane; di contro, l’influenza delle società segrete nel corpo sociale e degli elementi liberali nei governi, nonché la diffusione del nazionalismo — che fa della nazione la nuova divinità del mondo moderno — provocano i moti rivoluzionari del 1820-1821 e del 1830 e preparano il crollo degli Stati italiani. Un lungo paragrafo è dedicato a Mazzini, teorico del nazionalismo in Italia, il cui messaggio — nonostante l’oscurità, l’astrattezza e il carattere ideologico — ha una certa forza mobilitante nei confronti di giovani idealisti romantici.
Nel secondo capitolo, Garibaldi, spada della Rivoluzione in Italia (pp. 78-140), viene esaminato il carattere equivoco del “cattolicesimo liberale”, che proponeva un compromesso fra la fede cattolica e gl’inganni della Rivoluzione. Negli Stati italiani, durante gli anni immediatamente successivi alla Restaurazione, “[…] l’unità politica e l’indipendenza non sono concepite, se non da alcune minoranze, né come una priorità, né come una missione nazionale” (p. 78), e noti pensatori cattolici teorizzano soluzioni al problema dell’unificazione nazionale, che non comportino la rottura con la tradizione politica e religiosa del popolo italiano. Per esempio, le riflessioni del sacerdote Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e del padre gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), diversamente dalla posizione dei cattolici liberali — “[…] inclini a conciliare la fede cattolica con il pensiero filosofico moderno e l’universalismo religioso con il sentimento nazionale” (p. 82) —, si muovono nella consapevolezza che l’unità politica può essere realizzata anche nella forma della federazione e che l’indipendenza non è un attributo essenziale della nazionalità.
Rispetto alla prospettiva neoguelfa, che intende realizzare l’unificazione della Penisola nella forma di federazione fra i legittimi sovrani e sotto la guida morale del Papa, “la Rivoluzione, però, mirava ben più in alto” (p. 90), cioè al coinvolgimento del Papa beato Pio IX (1846-1878). Ma il Pontefice, dopo aver inviato le sue truppe a sostegno della guerra del re di Sardegna Carlo Alberto (1798-1849) contro l’Austria, con l’allocuzione del 29 aprile 1848 “[…] rifiuta il suo appoggio all’intervento militare sabaudo e rigetta solennemente l’invito a porsi alla testa della Rivoluzione in Italia” (p. 93).
Garibaldi, dopo la partecipazione in Lombardia, nel 1848, alla cosiddetta prima guerra d’indipendenza, accoglie con gioia la notizia dell’assassinio del primo ministro di Pio IX, Pellegrino Rossi (1787-1848) e, all’inizio del 1849, appoggia il governo rivoluzionario repubblicano instaurato a Roma, mettendosi in mostra nella difesa della città contro gli eserciti francese e napoletano, accorsi in aiuto del Pontefice rifugiatosi a Gaeta.
Il fallimento dei moti del biennio 1848-1849, oltre a produrre “[…] una lacerazione tra quanti accettano la soluzione statale unitaria, che comportava la soppressione degli antichi Stati e la trasformazione del regno sabaudo in regno italico, e quanti la rifiutano, perché estranea alla tradizione politica italiana” (p. 106), determina una metamorfosi del progetto rivoluzionario, che ottiene l’appoggio dei “moderati” e di Casa Savoia, nonché di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), presidente del Consiglio del Re di Sardegna. Cavour, nell’arco di pochi anni, intraprende un’azione di “modernizzazione” sul terreno economico e finanziario e su quello della legislazione ecclesiastica, dando inizio alla persecuzione, anche violenta, nei confronti della Chiesa cattolica, nonostante il forte malcontento suscitato nel Paese. Inoltre, consapevole della necessità di ampi appoggi internazionali per realizzare l’unificazione della Penisola, comincia a tessere un’abile trama d’intrighi, prima guadagnandosi il sostegno della Francia e dell’Inghilterra con la partecipazione alla guerra di Crimea accanto alle due potenze e contro la Russia (1853-1856), quindi organizzando una campagna denigratoria e di odio contro l’impero asburgico.
Con l’appoggio francese, nel 1859 il Regno di Sardegna entra in guerra con l’Austria. All’aggressione militare partecipa anche Garibaldi, con il grado di maggior generale dell’esercito sabaudo, al comando del corpo dei Cacciatori delle Alpi. Il suo contributo non è significativo nel quadro generale delle operazioni, che solo grazie alla vittoria dell’esercito francese a Solferino si risolvono sfavorevolmente all’impero asburgico, costretto ad abbandonare i piccoli Stati italiani di fronte all’attacco rivoluzionario.
Il terzo capitolo, Garibaldi alla conquista del Sud (pp. 141-189), ricostruisce la cosiddetta “spedizione dei Mille”, attraverso la quale il nizzardo dà il suo più significativo contributo militare all’unificazione italiana. Appena un anno dopo la conclusione della seconda guerra d’indipendenza, infatti, i capi della Sinistra radicale al Parlamento subalpino, fra i quali Francesco Crispi (1818-1901), affidano al nizzardo il comando di un’operazione militare — sostenuta molto concretamente dal Regno di Sardegna e indirettamente dal Regno Unito —, volta a provocare un’insurrezione in Sicilia. L’isola, a causa delle aspirazioni autonomistiche della popolazione, è considerata il punto debole del Regno delle Due Sicilie e, dunque, un ottimo trampolino di lancio per procedere alla conquista di tutto il Mezzogiorno, uno dei tasselli mancanti, insieme allo Stato della Chiesa e al Veneto, all’unificazione della Penisola sotto la monarchia sabauda.
Facilitato prima dalla presenza nel porto siciliano di Marsala di navi da guerra britanniche — che impediscono alle unità napoletane di aprire il fuoco contro i garibaldini — e poi, durante l’intera campagna, dall’atteggiamento arrendevole dei generali borbonici, Garibaldi entra a Napoli sotto la protezione di Liborio Romano (1793-1867), ministro di polizia del re Francesco II di Borbone (1836-1894) e colluso con la camorra. Questo successo inatteso convince Cavour a “[…] riprendere l’iniziativa, sia per riconquistare la direzione del movimento unitario, subordinando definitivamente l’azione del nizzardo alle direttive di Torino, sia per salvaguardare il nucleo centrale del territorio pontificio, condizione indispensabile per non creare imbarazzi a Napoleone III” (p. 170).
Mentre Francesco II, seguito da gran parte dei soldati — dispersi dalla viltà dei comandanti ma fedeli al sovrano —, si rifugia a Gaeta, l’esercito sabaudo invade lo Stato Pontificio e, dopo aver sconfitto a Castelfidardo i volontari cattolici provenienti da tutto il mondo in difesa del Papa, attacca il Regno delle Due Sicilie. Gaeta capitola nel febbraio del 1861, però la popolazione dà inizio a una vigorosa resistenza armata, bollata come brigantaggio ma, in realtà, “espressione macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata” (p. 189).
Nel capitolo conclusivo, Garibaldi educatore (pp. 190-242), viene messo a fuoco il ruolo — poco noto — svolto da Garibaldi appunto come “educatore” del neonato Regno d’Italia, nel più ampio contesto della politica pedagogica inaugurata dalla Destra Storica, mirante a costruire uno Stato accentratore e a ridimensionare la presenza della Chiesa all’interno della società. L’azione “pedagogica” di Garibaldi — che si concretizza in battaglie legislative e culturali in funzione anticattolica, delle quali la massoneria doveva essere il perno — ha lo scopo dichiarato di “”disfare” gli italiani” (Introduzione, p. 14), cioè di fare la nuova Italia contro gli italiani.
Ossessionato dalla sua ostilità nei confronti della Chiesa, Garibaldi compie la sua ultima azione militare sul suolo italiano appunto contro la città di Roma, ma il tentativo di conquistare la Città Eterna con il tacito accordo del governo italiano viene bloccato il 3 novembre 1867 a Mentana dai volontari cattolici della Legione d’Antibes, accorsi in difesa del Pontefice.
Dopo la Breccia di Porta Pia, del 1870, l’”eroe” s’impegna a unificare le società democratiche, repubblicane e radicali che affollavano il panorama politico italiano, cercando di riunirle strettamente intorno a un programma caratterizzato da venature socialiste, indulgenze internazionaliste e atteggiamenti pacifisti, ma soprattutto dall’anticlericalismo, in vista di una nuova e decisiva ondata rivoluzionaria. In questa prospettiva accentua il suo furore anticattolico anche attraverso la stesura di romanzi ingiuriosi e denigratori nei confronti del clero e del Pontefice, ma la sua capacità aggregante — che era stata decisiva negli anni del Risorgimento — è ormai in declino.
Muore a Caprera il 2 giugno 1882, dopo aver rifiutato ogni conforto religioso.
Giuseppe Bonvegna