Mauro Ronco nasce a Torino nel 1946. Laureato in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi su Il nazionalismo giuridico di Alfredo Rocco legislatore penale, relatore il professor Marcello Gallo, nel 1975 è assistente ordinario presso la cattedra di Diritto Penale della facoltà di Giurisprudenza, poi professore associato di Diritto Penale Comparato, successivamente professore di Diritto Penale nelle università di Cagliari e di Modena, sede quest’ultima dove insegna attualmente e dove è stato docente di Istituzioni di Diritto Pubblico e di Filosofia del Diritto all’Accademia Militare. Ha pubblicato i volumi Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente (Giappichelli, Torino 1979), L’azione “personale”. Contributo per un’interpretazione dell’art. 27, comma 1° Costituzione (G. Bessone, Torino 1984) e Il controllo penale degli stupefacenti (Jovene, Napoli 1990). Procuratore legale dal 1974 e avvocato dal 1980, svolge la professione forense come penalista. Dal 1968 milita in Alleanza Cattolica, di cui è responsabile piemontese ed esponente nazionale; collabora inoltre a Cristianità, sulla quale ha affrontato temi di carattere morale giuridico, relativi alla legislazione divorzista e abortista, nonché — in genere — alla giustizia penale.
Se il carattere urgente di questioni in cui il diritto penale si intreccia con la cronaca, la politica e il costume rischia spesso di far perdere di vista il problema fondamentale relativo alla natura della pena, ne Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena Mauro Ronco contrasta questo rischio palese e conquista meritoriamente l’indispensabile tempus meditandi, il cui frutto — il suo studio — presenta nella Prefazione (pp. 1-2) come articolato in due parti, una analitica, per dimostrazioni culturali, e una sintetica, per tesi, e che dedica al proprio “Maestro di diritto penale”, il già citato professor Marcello Gallo.
Quindi l’autore nota che la pena implica sempre un certo grado di sofferenza della persona umana che è punita: ragioni gravi devono quindi giustificare la sua erogazione. Per rispondere alla domanda sul significato della pena è possibile adottare due metodi: l’uno parte dalla ricognizione concreta della pena così come si presenta, mentre il secondo si chiede in astratto che cosa dovrebbe essere. Il fatto che la riflessione moderna sulla pena — a cui è dedicata la prima parte del volume, Ricognizioni storiche intorno ai modelli di pena (pp. 3-104) — abbia privilegiato in modo pressoché esclusivo il secondo accostamento è già un indizio della sua natura ideologica, “[…] intesa a fare dell’idea astratta e generale lo strumento per la destrutturazione e/o la ricostruzione dell’esistente storico” (p. 5). Il primo capitolo dell’opera — Alle origini del concetto di pena come “difesa” (pp. 5-20) — è principalmente dedicato a Thomas Hobbes, il cui pensiero si trova insieme alle origini dello Stato moderno e del cosiddetto “general-prevenzionismo”, che assegna alla pena una funzione di prevenzione generale del delitto, mentre il “prevenzionismo speciale” la ritiene piuttosto uno strumento per impedire la reiterazione di crimini da parte dello specifico reo. Il general-prevenzionismo, dominante proprio a partire da Hobbes, si oppone al retribuzionismo della filosofia classica e cristiana, che considerava piuttosto la pena come legittima punizione per il male compiuto dal reo. La teoria del diritto penale di Hobbes può essere riassunta in tre passaggi: la pena è un male; la merita chi trasgredisce una legge vigente, a prescindere da qualunque indagine che miri a stabilire se la legge sia o meno giusta; il suo scopo è “disporre […] la volontà degli uomini all’obbedienza” (p. 15). Alla radice di questa teoria sta l’idea dell’utilità: l’unica tendenza della persona che è presa in considerazione è quella ad esse, “[…] con la correlativa negazione della tendenza “ad bene esse”” (p. 18). Nella cultura del diritto può così fare irruzione il “principio della modernità, costituito dalla separazione radicale tra la sfera della moralità, della giuridicità e della politicità” (p. 19).
Sulla stessa linea si muove sostanzialmente l’accostamento al diritto penale dell’illuminismo — rappresentato soprattutto da Cesare Beccaria, anche se alla materia hanno offerto contributi gli stessi Voltaire e Jean-Jacques Rousseau —, a cui è dedicato il secondo capitolo, La considerazione della pena come strumento per la “difesa” della società in Cesare Beccaria (pp. 21-30). Da una parte gli illuministi — e particolarmente Beccaria — denunciano l’esistente, ritenendo che le pene — così come sono — siano troppo crudeli. Dall’altra fondano questa critica — di cui l’autore riconosce peraltro gli “effetti positivi” (p. 22) — su una nozione di prevenzione generale spinta fino alla manipolazione, tramite la pubblica amministrazione della giustizia penale, della psicologia dei consociati, il che mostra come i loro obiettivi non siano puramente umanitari. Il tema è ulteriormente approfondito nel terzo capitolo — La pena come tecnica di condizionamento e l’aporia dell’individualismo (pp. 31-51) —, che indaga sulle radici filosofiche del general-prevenzionismo illuminista. In una visione materialista, la persona è considerata come un puro fascio di sensazioni, che lo Stato tramite il diritto penale può manipolare, convincendo i consociati che avessero in mente di fare qualche cosa di vietato che la sofferenza della punizione sarà maggiore della soddisfazione immediata procurata dal delitto.
Negli anni 1799-1800 il giurista tedesco Paul Johann Anselm von Feuerbach — le cui teorie sono esaminate nel quarto capitolo, Il consolidamento legalistico del general-prevenzionismo nell’opera di Paul Johann Anselm von Feuerbach (pp. 52-73) — ricostruisce intorno al general-prevenzionismo l’intera scienza del diritto penale. L’orizzonte è quello di una totale separazione del diritto dalla morale, che muta la formulazione stessa delle domande che sono poste: non ci si chiede più se una legge, o una pena siano giuste ma semplicemente a che cosa servano. Anche in questo caso, Mauro Ronco mette in luce — dietro le elaborazioni dello specialista tedesco — precise radici filosofiche, che si estendono fino a una vera e propria negazione della libertà della persona. Secondo von Feuerbach la libertà è un concetto esclusivamente morale, che non ha posto nel diritto. Il fondamento teorico ha anche un’importante conseguenza pratica nella sfera della punibilità relativa, cioè dell’applicazione della pena al singolo reo. Qui il criterio di determinazione diventa quello della pericolosità criminale, cioè della probabilità che il colpevole reiteri il delitto, e non quello della colpevolezza soggettiva. Se la libertà è irrilevante, “la punibilità non è diminuita a cagione di una libertà minore, ma, semmai, tutto al contrario, accresciuta quanto più intensa è la dipendenza dell’uomo da cause naturali e diminuita quanto più deboli sono gli impulsi che lo hanno spinto al delitto” (p. 68).
La filosofia classica tedesca ha cercato di reagire al general-prevenzionismo, una reazione di cui l’autore fa stato nel quinto capitolo, Le ragioni del retribuzionismo e la sua debolezza storica (pp. 74-104). Viene anzitutto La risposta di Immanuel Kant al general-prevenzionismo (pp. 74-80): il filosofo di Königsberg ha obiettato che nella teoria della prevenzione generale la persona umana diventa mezzo, non fine, mentre — a suo dire — la punizione non può mai essere decretata “[…] semplicemente come un mezzo per raggiungere un bene, sia a profitto del criminale stesso, sia a profitto della società civile, ma deve sempre venirgli inflitta … perché egli ha commesso un crimine” (p. 78, nota 183). Segue La risposta di Georg Wilhelm Friedrich Hegel al general-prevenzionismo (pp. 80-93), la cui critica rimane però nell’ambito di una fondamentale “laicizzazione della pena” (p. 88). Anzitutto, il punto di riferimento della retribuzione nel pensiero hegeliano non è l’azione morale del soggetto, ma il fatto astratto, perché “[…] la sfera della giuridicità importa l’astrazione da ogni specificità soggettiva” (p. 85). A un kantiano che avesse obiettato che, in questo modo, si separano — proprio come facevano i general-prevenzionisti — diritto e morale, Hegel avrebbe risposto osservando che, per lui, diritto e moralità sono rispettivamente la tesi e l’antitesi di un processo la cui sintesi è costituita dall’eticità, che si realizza compiutamente nello Stato. In questo senso la pena ricostruisce, per così dire, l’eticità del soggetto e segna il trionfo dello Stato sulla volontà particolare del singolo. Per questa via — che è quella del diritto penale dell’epoca cosiddetta liberale — si rende omaggio al retribuzionismo a parole, ma di fatto si erode il suo fondamento.
Alla fine, anche l’omaggio verbale al retribuzionismo è abbandonato, quando il diritto penale liberale è trasformato dal positivismo, quando si producono La recezione del retribuzionismo hegeliano e il rovesciamento positivista (pp. 94-104), il cui principale esponente per quanto riguarda la teoria della pena è Franz von Liszt. La pena diventa uno “strumento di selezione artificiale in virtù del suo concreto operare sulla psiche e sul corpo del condannato” (p. 102). I delinquenti sono divisi in tre gruppi — “irrecuperabili”, “risocializzabili” e “occasionali” — in funzione di una “[…] selezione artificiale del corpo sociale che lo Stato deve compiere sussidiariamente alla selezione che si svolge senza posa in natura” (p. 102). L’influenza di von Liszt giunge fino ai giorni nostri, e “[…] con l’irruzione dell’idea che concepisce la pena come adattamento sociale il ciclo della pena difensiva e utilitaristica sembra essersi definitivamente concluso” (p. 104).
Nella seconda parte del suo lavoro — Riflessioni sulla pena nell’esperienza contemporanea (pp. 105-205) — l’autore ripropone — contro le diverse forme di general-prevenzionismo dominanti — l’idea della pena come retribuzione. Nel primo capitolo — Il riproporsi del problema della pena nella società contemporanea (pp. 107-125) — Mauro Ronco rileva che tracce di retribuzionismo sono presenti nel diritto contemporaneo, particolarmente in Italia — come emerge da recenti sentenze della Corte Costituzionale — e in Germania. In questi paesi la scienza del diritto penale “[…] ha ormai ricollocato al centro della teoria del reato il concetto di colpevolezza. Tuttavia, l’ancoraggio del concetto di pena a moduli general-preventivi impedisce a tale concetto quel pieno dispiegamento che sarebbe logicamente congruo” (p. 109). In realtà una corrente della dottrina — esaminata nel secondo capitolo, La fondazione general-prevenzionistica e il rifiuto del retribuzionismo (pp. 126-160) — svolge piuttosto un ruolo di vigilante sentinella del general-prevenzionismo, proponendo di eliminare dagli ordinamenti tutto quanto abbia un sapore anche vagamente retributivo. L’autore esamina particolarmente le teorie di Norbert Hoerster e Claus Roxin, che si muovono consapevolmente in questa direzione. Osserva pure che non si tratta soltanto di dibattiti accademici. La fiducia nella funzione preventiva generale della pena porta spesso i legislatori, quando un delitto suscita particolare allarme sociale, ad aumentare semplicemente le pene, come è avvenuto recentemente in Italia per lo spaccio di stupefacenti su vasta scala e per l’usura. In realtà — osserva Mauro Ronco — gli studi criminologici mostrano che succede spesso il contrario di quanto il legislatore si aspetta. L’aumento delle pene — o la criminalizzazione di attività che in precedenza cadevano fuori della sfera penale — rende più alti i margini di profitto dell’illecito, e quindi contribuisce a diffonderlo. Se si crede ai criminologi, non è la gravità della pena ma semmai la probabilità di venire scoperti che frena certe condotte criminali.
Nel terzo capitolo — L’analogia tra la pena “naturale” e la pena giuridica (pp. 161-173) — ricostruisce i fondamenti del retribuzionismo su basi più solide rispetto a quelle del diritto penale liberale classico, partendo appunto dall’analogia fra la pena cosiddetta “naturale” e la pena giuridica. Nella filosofia di san Tommaso d’Aquino la pena è anzitutto una conseguenza necessaria del peccato che — prima di essere inflitta dallo Stato — colpisce il reo come ferita e rimorso. Fra questa pena “naturale” e la pena giuridica vi è un certo rapporto di analogia, intuito da Giambattista Vico nell’opera De universi juris uno principio et fine uno. Il filosofo italiano riporta la pena al suo fondamento, la giustizia, ma nello stesso tempo prende in considerazione l’utilità. Quest’ultimo elemento entra in gioco quando lo Stato deve prendere la decisione di applicare concretamente la pena a uno specifico reo. “La pena della colpa è la vergogna della coscienza. Fin quando quest’ultima è in grado di percepire il significato del mal fatto, non sorge l’utilità della pena. Quest’ultima si presenta allorché sia indispensabile far conoscere concretamente ed efficacemente il significato del delitto a chi abbia mostrato di non essere in grado di percepirlo: lo scopo è di additare, anche a costui, il ponte tra il particolare e l’universale, la distanza tra il suo agire nell’esistenza concreta e il modello del buono e dell’equo” (p. 173).
L’autore può così trarre le sue conclusioni — nel quarto e nel quinto capitolo, rispettivamente L’esigenza di retribuzione nell’universo delle relazioni giuridiche (pp. 174-184) e Il nesso retributivo tra il reato e la pena (pp. 185-205) —, che costituiscono una vigorosa riaffermazione del retribuzionismo tradizionale. Anzitutto, contro le idee di Hobbes la pena è presentata non semplicemente come un male, ma anche come un bene. Certo, il bene rappresentato dalla pena è di carattere “derivativo e secondario” (p. 181): “[…] non bene in se stesso, ma un bene in quanto destinato a sopprimere un male” (p. 181), quindi suscettibile di valutazioni prudenziali quanto alla sua applicazione nel caso concreto. In secondo luogo, la pena — per essere tenuta in seria considerazione — non deve essere collegata a una semplice violazione di una qualunque legge, che potrebbe essere sanzionata anche dal solo diritto civile. Deve trattarsi della violazione di una legge che a tutti appare come giusta: “La cifra rivelativa della pena, costituita dal rimprovero per una colpevolezza ontologicamente fondata, reca con sé l’esigenza che siano presidiati con la sanzione penale esclusivamente i contegni sintomatici di un atteggiamento dis-umano, attualmente o potenzialmente lesivi dei diritti umani fondamentali” (p. 202). Si conferma così come il dibattito fra retribuzionismo e general-prevenzionismo sia tutt’altro che astratto e accademico. Mentre il retribuzionismo limita la sfera della pena a un numero relativamente limitato di comportamenti tanto immorali da negare l’idea stessa dell’umanità e del diritto, il mito della prevenzione generale induce i legislatori a dilatare la sfera del diritto penale, nell’illusione che sia possibile “prevenire” con la minaccia della pena pressoché qualunque violazione delle leggi. Il carattere diffuso della teoria general-prevenzionista della pena — con il tenace rifiuto del retribuzionismo e dei suoi fondamenti morali — non è l’ultima causa dei gravi problemi che affliggono la giustizia italiana, di cui anche i non specialisti diventano ogni giorno più consapevoli.
Massimo Introvigne