A poca distanza da Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila (Sugarco, Milano 2008; cfr. la recensione di Sandro Petrucci in Cristianità, anno XXXVII, n. 351, gennaio-marzo 2009, pp. 53-59), sono state raccolte — riviste e annotate, sotto il titolo Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra “mestiere” e impegno civico-culturale — alcune conferenze dello storico pisano Marco Tangheroni (1946-2004), docente universitario e grande studioso del Medioevo, nonché socio fondatore di Alleanza Cattolica. Tangheroni ha insegnato, oltre che nella città natale, nelle università di Barcellona, di Cagliari e di Sassari. Sposato e padre di tre figlie adottive ruandesi, ha svolto attività politica e di apostolato culturale ed è stato attivo e apprezzato conferenziere su numerosi temi, anche al di fuori dell’ambito strettamente accademico. Tutto ciò nonostante una grave malattia renale che fin dalla giovinezza ne ha minato il fisico e ha conferito un senso “provvidenziale” alla coincidenza fra la memoria liturgica della Beata Vergine di Lourdes, venerata come salus infirmorum, e la sua morte, avvenuta l’11 febbraio 2004. Fra le numerose pubblicazioni ricordo Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996) e il catalogo della mostra Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici (Skira, Milano 2003), che costituiscono un po’ la summa delle ricerche e degli interessi di Tangheroni, principalmente incentrati sul Mediterraneo tardo-medievale, sconfinando tuttavia volentieri — e con competenza — anche in altri settori, in linea con la propria curiosità che lo rendeva immune dall’errore degli specialisti in grado di sapere tutto di quasi nulla, senza peraltro saper inserire questo “quasi nulla” in un quadro più ampio.
Il libro, dopo la Nota editoriale (p. 8) del curatore Oscar Sanguinetti, si apre con il saggio introduttivo La storia come “riassunto” (pp. 9-16), di Giovanni Cantoni, fondatore e reggente nazionale di Alleanza Cattolica, nonché amico e stimato consigliere e maestro di Tangheroni. Cantoni osserva come la narrazione delle res gestae sia necessariamente un riassunto, posto che l’unico storico perfetto è Dio Padre, memoria perfetta e onnisciente, mentre l’uomo — la cui attività storiografica pure tende a imitare la perfezione del Padre celeste — “[…] è sempre storico imperfetto: non soltanto non sa mai quanto accadrà, ma neppure tutto quanto è accaduto, né tantomeno perché” (p. 12). Una storia totale, del resto, sarebbe per noi di difficile lettura, quindi tanto perfetta quanto inutile, proprio come la “[…] Mappa dell’Impero che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso” (Jorge Luis Borges [1899-1986], cit. a p. 14). “Dunque — ancora —, se la “storia perfetta” può essere solo divina, la storia umana può essere solo riassunto, bisognoso però di rimando totale, d’inserimento nella cornice della Provvidenza” (p. 15). Allo stesso modo, sulla scia delle cronache medievali inserite fra Adamo ed Eva e l’Apocalisse, anche queste conferenze di Tangheroni si configurano come “riassunti” sub specie Providentiae affinché la storia, magistra vitae, divenga “addestramento all’ars bene moriendi, educazione alla morte, dunque pietra miliare sulla via verso il Regno” (p. 16).
Segue la Nota Praevia (pp. 17-18) di Andrea Bartelloni, militante di Alleanza Cattolica e responsabile del Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa che ha organizzato e ospitato le lezioni e conferenze qui raccolte. Bartelloni ripercorre la genesi dell’opera, a partire da un breve corso di storia organizzato da Alleanza Cattolica in Pisa alla fine degli anni 1970 per un gruppo di studenti universitari, che successivamente “[…] organizzarono e seguirono, nel tempo, nuovi corsi sul tipo del primo, grazie ai quali furono dissipate numerose “leggende nere”, mai però sostituendole, grazie al grande equilibrio di Tangheroni, con altrettanto false “leggende rosa”” (p. 17). La prima parte del libro — Appunti di storia — contiene le trascrizioni delle lezioni riproposte nel 1989: dopo alcune Considerazioni introduttive (pp. 21-33), l’autore passa a confutare La leggenda nera sul Medioevo (pp. 35-51) e individua Gli elementi costitutivi del Medioevo (pp. 53-61); quindi affronta La crisi del Medioevo e la Riforma protestante (pp. 63-73), La Rivoluzione francese (pp. 75-93) e infine Il Risorgimento italiano (pp. 95-106). Nella seconda parte sono raccolti Testi di conferenze su argomenti di attualità: 1492-1992. Bilancio di un centenario (pp. 109-131), in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, quindi Islam, una realtà sconosciuta (pp. 133-143) e Le radici storiche dell’Occidente (pp. 145-161), entrambe del 2002. L’opera si conclude con una Nota bio-bibliografica (pp. 163-169) a mia cura e con un elenco di Letture introduttive consigliate (pp. 171-174).
Nelle Considerazioni introduttive Tangheroni osserva che lo storico, come l’orco delle fiabe — per riprendere l’efficace immagine dello storico francese Marc Bloch (1886-1944) — si volge dovunque percepisca la presenza di uomini, poiché costoro sono, in definitiva, il suo oggetto di studio. Dietro qualsiasi documento c’è sempre “una persona, che ha amato, sofferto, tradito, pianto, lottato: un uomo come noi” (p. 24), o meglio, tanto simile a noi quanto diverso; e tale diversità va tenuta in conto per evitare di “travestire” i nostri predecessori con sentimenti e mentalità contemporanee. Inoltre, la storia richiede necessariamente una selezione, non arbitraria, ma dettata dalla perizia dello storico, il cui lavoro è paragonabile “a quello, a cavallo fra scienza ed esperienza, dell’artigiano” (p. 25), ragion per cui “i grandi storici nascono una volta ogni “morte di papa”, se non più raramente” (ibidem). Dopo queste considerazioni relative al “mestiere”, Tangheroni svolge alcune riflessioni “da storico che è cattolico” (p. 27), al quale, se non compete una lettura teologica — e neanche teleologica — della storia, gioverà tuttavia il realismo dell’antropologia cattolica, consapevole dei limiti e delle potenzialità dell’uomo, nonché una minore inclinazione a leggere il passato cercando forzatamente conferme o smentite, poiché “[…] sappiamo che la guerra è stata certamente vinta da Cristo, ma che prima della fine molte battaglie potranno essere perdute: questo è il tema, celebre, del “già e non ancora”. Non abbiamo perciò bisogno di verifiche dalla storia” (p. 33).
Al contrario, la radicata immagine degli anni della Cristianità europea come “secoli bui”, come parentesi ovvero “medio evo”, oscura età di mezzo fra le glorie dell’Antichità e del Rinascimento, è frutto di un uso strumentale della storia che — per via mediatica ma anche scolastica — mira “[…] a far perdere ai cattolici la consapevolezza di avere un passato “sociale” particolarmente glorioso” (p. 35) e a “[…] convincere surrettiziamente che l’impegno per restaurare una civiltà cristiana sia pura utopia” (ibidem). Questa “storia sbagliata” si è coerentemente tradotta in un’altrettanto errata azione politica e culturale da parte di un mondo cattolico votato all’espiazione sistematica delle proprie colpe — vere e presunte — mediante l’anonimato politico-sociale. Dal Rinascimento al 1968 si registra infatti una continua variazione sul tema “cancelliamo il Medioevo”, che in fondo significa “cancelliamo la civiltà cristiana medievale”. Obbiettivo di questa plurisecolare operazione rivoluzionaria non è infatti un qualsiasi ordinamento incontrato per caso, bensì specificamente la realizzazione concreta “nelle condizioni inerenti ai tempi e ai luoghi, dell’unico vero ordine fra gli uomini, ossia della civiltà cristiana” (p. 41), del cristianesimo vissuto non solo privatamente, ma anche in quanto società. Tale prospettiva sociale è ormai ignorata o avversata da gran parte del mondo cattolico che, nonostante il lavoro degli storici, ha assorbito acriticamente, “anche a proposito di Medioevo, miti e pregiudizi protestanti e illuministici” (p. 51). Eppure, fra luci ed ombre, la stessa Europa emerge come frutto dell’epoca medievale: un nuovo mondo nato fra tante rovine, proprio grazie alla forza coagulante del cristianesimo “non solo come generale sentimento religioso, ma anche come istituzioni ecclesiastiche, dalla più piccola cura d’anime fino ai vertici episcopali e fino al papato” (p. 54). Rispetto alla diffusa e falsa idea di un Medioevo inerte e rassegnato, Tangheroni riporta lo stupore del medievalista tedesco Arno Borst (1925-2007), “[…] colpito dal sacro zelo di uomini che, mossi in prima istanza dal desiderio di servire Dio, per una realtà non terrena, non storica, sono, proprio da questa istanza, portati ad assumersi in prima persona immani compiti terreni di ricostruzione” (p. 59), dando luogo a una civiltà originale che, “[…] pur riconoscendo la centralità storica dell’incarnazione di Cristo” (p. 56), si considerava in perfetta continuità con il mondo classico, come “nani sulle spalle dei giganti” (ibidem).
In modo totalmente diverso, artificiale e “negromantico”, l’Umanesimo propugna il ritorno all’antichità classica, che nelle corti europee — inclusa quella pontificia — “[…] è spesso un alibi ideologico per abbandonarsi ai lussi e ai piaceri della vita” (p. 70). Parallelamente si registra un cambio di mentalità all’insegna di un crescente individualismo, anche in ambito religioso, dalla devotio moderna all’ossessiva preoccupazione per la propria salvezza individuale. Questi e altri fenomeni preparano il terreno alla frattura protestante, alle cui radici c’è anche l’antropologia esasperatamente pessimistica di Martin Lutero (1483-1546) secondo il quale “[…] è impossibile all’uomo di procurarsi qualsiasi merito di fronte a un Dio che salva o condanna del tutto arbitrariamente” (p. 71) a prescindere dalle opere. Poiché Tangheroni amava dire che la storia si fa anche con i se, non possiamo fare a meno di chiederci se su queste basi spirituali sarebbe stata possibile l’immane “opera” di ricostruzione avvenuta nell’Alto Medioevo. In ogni caso si è rivelato pienamente coerente con le premesse — al di là delle intenzioni di Lutero — il controllo totalitario nella repubblica teocratica fondata a Ginevra da Giovanni Calvino (1509-1564), poiché una natura umana incapace di agire bene “[…] deve essere violentemente coartata e corretta alla luce della rivelazione cristiana” (p. 72).
Analogamente la Rivoluzione Francese, soppresse le libertà concrete in favore dell’astratta liberté, rende gli individui eguali e fratelli in quanto soggetti allo Stato rivoluzionario. Illudendosi di poter ricreare tutto ex novo, “[…] i rivoluzionari penseranno concordemente che bisogna rendere gli uomini buoni per mezzo della legislazione” (p. 87), dal totale rifacimento a tavolino della geografia francese all’abolizione dei corpi intermedi, fino a legiferare perfino sugli abiti, sul modo di salutarsi o di portare la coccarda. Libertà, eguaglianza e fraternità, fondate su tali costrizioni, non possono che essere molto lontane dai corrispondenti concetti cristiani ai quali la triade rivoluzionaria viene spesso indebitamente associata. La fraternità, più massonica che cristiana, non è frutto dell’unione, bensì della progressiva eliminazione di chiunque non sia un bravo citoyen: “[…] se un giorno, a disegno rivoluzionario attuato, saremo tutti fratelli, per il momento il compito dei veri rivoluzionari è quello di smascherare i falsi fratelli. È una fraternità che esclude alcuni, e anzi ne esclude sempre di più” (p. 89). Di conseguenza, mentre i rivoluzionari realizzano — volente o nolente — l’uomo “nuovo”, in Vandea la pelle dell’uomo “vecchio”, del contadino insorto contro la Repubblica, finisce in mano a un conciatore per farne dei gambali. Nonostante ciò il mito della Rivoluzione francese resiste ed è intoccabile, così come in Italia la mitologia risorgimentale fa sì che tuttora non si possa che parlar bene di Giuseppe Garibaldi (1807-1882), rivoluzionario per eccellenza. Al di là delle agiografie correnti, “[…] dal punto di vista della storia militare bisogna dire che il Risorgimento non ebbe molti episodi gloriosi e, anzi, conobbe molte pagine negative” (p. 97) e in generale questa epopea di “redenzione” nazionale “[…] fu il frutto, nei suoi successi come nei suoi insuccessi, di continue interferenze delle potenze europee nella storia italiana” (p. 98). Quanto la necessità di essere redenti fosse sentita dalle popolazioni della penisola, lo dimostra la continua necessità, una volta “fatta” l’Italia, di “fare” gli italiani, evidentemente più legati alla Chiesa o al socialismo. Senza voler generalizzare — lo stesso Papa beato Pio IX (1846-1878) nel 1848 “[…] aveva infatti benedetto il programma di una lega o di una confederazione italica” (p. 102), non essendo dunque contrario all’unificazione in sé —, il processo risorgimentale assume progressivamente i connotati di una lotta contro la Chiesa, come attestano le innumerevoli soppressioni di congregazioni religiose e relative confische, ma anche la meno conosciuta “corrente calda” del Risorgimento che ne costituisce il volto millenaristico e “gnostico”.
Senza pretesa di esaurire tutta la storia — alla luce di quanto detto in apertura — questi “riassunti” ci abituano a studiare il passato, ma anche il presente, con un senso della complessità del reale che spinge a non accontentarsi delle mitologie correnti, ponendosi sempre nuove domande. Così, in un clima culturale caratterizzato — anche a livello accademico — dalla facilità d’indignarsi piuttosto che dalla volontà di capire, Tangheroni ci indica da quali pulpiti vengono certe prediche: ad accusare l’ammiraglio genovese Cristoforo Colombo (1451-1506) di essere all’origine del genocidio delle popolazioni precolombiane ci sono marxisti travestiti da indios e perfino un mondo nord-americano che ha fatto davvero tabula rasa delle popolazioni indigene, come attesta la totale assenza di meticciato, diffusissimo invece in America Latina, dove in realtà hanno fatto più vittime i batteri portati dagli spagnoli che la loro “barbarie”. E se i sacrifici umani compiuti da incas e aztechi vengono facilmente compresi in nome di un relativismo culturale che non riconosce gerarchie di civiltà, “[…] allora non si vede perché ai poveri spagnoli invece questa relatività debba essere sistematicamente negata” (p. 131). Analoga deformazione compie chi contrappone la presunta modernità di Colombo ai suoi superstiziosi contemporanei ancora ignari della sfericità della Terra, dato in realtà pacificamente accettato già nel “buio” Medioevo. “In realtà, il parere negativo espresso tanto dai dotti di Salamanca quanto dai dotti di Lisbona, si basava proprio su una concezione moderna, scientifica ed esatta della geografia, della cosmografia del nostro pianeta” (p. 118), più grande di quanto previsto da Colombo al punto che, senza quell’imprevisto continente, sarebbe stato impossibile giungere vivi fino alle Indie.
Un analogo senso della complessità è necessario per comprendere l’attualità. In seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 “[…] siamo stati soffocati da un eccesso di informazioni, rispetto alle quali è difficile separare il buono dal cattivo, ciò che è frutto di vera conoscenza da ciò che è frutto di approssimazione: molti — pare — si sono infatti scoperti “esperti di islam”” (p. 133). Senza improvvisarsi a sua volta “esperto”, Tangheroni si limita a fornire alcuni elementi utili per orientarsi. Ad esempio, non ci si può accontentare del significato del jihad nel senso di “lotta interiore” senza porsi il problema di una parallela connotazione esteriore e aggressiva, con un ruolo rilevante nella fulminea espansione della religione fondata da Maometto, che è contemporaneamente conquista militare ed espansione politica, vista la totale assenza di distinzione fra le due sfere all’interno dell’Umma, la comunità islamica. “Nel nostro Medioevo, vale a dire nell’epoca in cui maggiormente si è cercato di costruire una società cristiana […] è sempre, viceversa, rimasta ferma la distinzione fra la Chiesa come popolo di Dio e la società civile formata dai cristiani” (p. 136). Un’altra differenza risiede nella concezione positiva della storia e nell’autonomia del mondo naturale insite nella dottrina cristiana, mancando le quali l’islam, anche nel periodo di maggiore sviluppo e splendore, ha già in sé i germi del successivo arresto che si verifica a partire dal secolo XIII. In relazione a questo crescente gap, la pressione dell’Occidente laicizzato dei secoli XIX e XX “[…] pone alla cultura islamica il problema di come pensare se stessa in relazione alla civiltà occidentale e alla modernizzazione con cui la civiltà occidentale si presenta e che diffonde rapidamente in Oriente” (p. 140). A questo duplice problema le varie anime dell’islam — tutte legittime data l’assenza di un’autorità universalmente riconosciuta — rispondono in modi differenti. In ogni caso è stato nettamente smentito chi prevedeva l’inesorabile scomparsa della religione, tanto nel mondo musulmano quanto in Occidente.
Anche quest’ultimo concetto necessita di qualche chiarimento, se non altro perché si tratta del nostro “mondo”, che pur essendo “orientato” da sempre verso Oriente — come le chiese rivolte al sole che sorge – è tuttavia proiettato verso Occidente — dal pellegrinaggio a Santiago di Compostella, in Spagna, alle leggendarie isole atlantiche di san Brandano (480-576), fino al viaggio di Colombo. Tangheroni confuta l’equivoco antioccidentale e antiamericano di chi contrappone alla “vecchia” Europa l’Occidente inquinato dalla modernità, magari finendo per cercare la salvezza nell’”incontaminato” Oriente islamico, sulla scia dello studioso francese René Guénon (1886-1951). In realtà, l’attuale mondo occidentale è ciò che resta della Cristianità, e pur negandola ha sempre in essa le proprie radici. “Pensare che senza l’America l’Europa avrebbe conservato le proprie tradizioni è un atteggiamento assolutamente anti-storico” (p. 154), dimenticando che gli americani non sono marziani comparsi dal nulla per spargere modernità, in quanto anch’essi figli dell’Europa e ne sono semmai i figli meno inquinati dalla crisi rivoluzionaria, poiché la Rivoluzione francese, per definizione, non è avvenuta negli Stati Uniti d’America. Anche guardando alla “vecchia” Europa dobbiamo constatare che, perfino nel momento in cui appariva meno evoluta, la storia della Cristianità medievale è la storia di uno sguardo positivo verso il mondo e verso la storia — grazie alla religione di Dio che s’incarna nel tempo e nello spazio — e quindi di un dinamismo, di una continua tensione verso la scoperta. In altre parole, quella fra Europa e Occidente è una falsa contrapposizione, poiché “[…] questa apertura, questa ansia, questo desiderio di conoscenza che possono avere acquisito — e che hanno certamente acquisito, in parte — un carattere prometeico, cioè di rivolta contro la divinità, sono per altro insite nelle radici della nostra civiltà” (p. 160).
Se è lecito, in chiusura, un primo rapido commento, mi servo di un elemento apparentemente marginale, ma che in realtà racchiude tutto ciò che si può attendere dalla pubblicazione delle preziose pagine di Marco Tangheroni. La copertina scelta per questo libro — che lo renderà immediatamente riconoscibile — è la più efficace presentazione tanto del testo quanto dell’autore: l’icona di san Giorgio che su un cavallo bianco uccide il drago per liberare la principessa. Scopo principale di queste riflessioni non è certo quello di produrre esperti, per quanto effettivamente si possano imparare molte cose da esse. Piuttosto, in un contesto caratterizzato da un bombardamento d’informazioni cui corrisponde una formazione pressoché nulla, Tangheroni ci insegna, “fra mestiere e impegno civico-culturale”, ad andare a cavallo e a maneggiare la lancia per poter finalmente liberare la principessa imprigionata — dall’ideologia di turno o dalle deformazioni mediatiche —, cioè la Verità.
Stefano Chiappalone