Omar Ebrahime, Cristianità 369 (2013)
La collana Magna Europa. Panorami e voci, diretta da Giovanni Cantoni per l’editore crotonese D’Ettoris, si arricchisce di un’altra opera, dopo quelle dello storico britannico Christopher Dawson (1889-1970),essenziali per comprendere la nascita e lo sviluppo della civiltà occidentale come la conosciamo oggi. Ne è autore lo storico e saggista statunitense Thomas E. Woods Jr., che ha pubblicato una guida inedita, curata per il lettore italiano da Maurizio Brunetti, di un Paese centrale per la storia dell’Occidente degli ultimi due secoli: gli Stati Uniti d’America.
Woods, esponente di rilievo di quella galassia conservatrice che sirichiama al patrimonio morale e intellettuale di figure-chiave del secolo appena trascorso, quali Russell Amos Kirk (1918-1994), Richard Malcom Weaver (1910-1963) e Robert Alexander Nisbet (1913-1996), è noto in Italia per aver pubblicato un testo divulgativo, intelligentemente apologetico, dal titolo Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Cantagalli, Siena 2007), e un impegnativo saggio di dottrina sociale — di quelli per cui la fede diventa seriamente la cifra, e al tempo stesso la soluzione, della complessità del reale —, La Chiesa e il mercato(Liberilibri, Macerata 2008).
L’opera è aperta da uno scritto di Marco Respinti, La “scoperta dell’America”: un invito alla lettura (pp. 11-19), che fa stato di non pochi luoghi comuni che ancora oggi caratterizzano la conoscenza media dell’universo statunitense agli occhi dell’uomo della strada. Questi, sempre più assediato dall’egemonia imperante del “politicamente corretto”, non è più in grado di compiere la necessaria operazione di bonifica nel mare magnum delle idee che il circuito mass-mediatico gli propone senza soluzione di continuità. Così, occorre tornare con decisione alla realtà come essa è, qui e ora, giacché “a fronte e di fronte alla rivoluzione culturale, che sia si alimenta strumentalmente dell’ignoranza delle cose e della “verità delle cose”, sia ha per scopo la produzione stessa di quell’ignoranza, il realismo è […] azione ben temperata di contro-rivoluzione” (p. 16).
Segue quindi una Nota del curatore (pp. 21-22), che presenta l’équipe di traduttori, correttori e revisori che hanno partecipato alla rifinitura della versione italiana e quindi una corposa Bibliografia (pp. 23-32), che dà l’idea del vasto, quanto variegato, orizzonte culturale e ideale a cui le riflessioni dell’autore si ricollegano. L’esordio vero e proprio dell’opera è rappresentato dalla Prefazione (pp. 33-35), che offre quale significativo incipit una citazione fulminante dell’attore e comico statunitense Will Rogers (1879-1935), secondo cui “[…] in America il problema non è tanto che la gente non sa; quanto piuttosto che la gente pensa di sapere precisamente quello che non sa” (p. 33). Chiosa Woods: “In nessun altro contesto l’osservazione del grande umorista è più appropriata che nel campo della storia americana. Il resoconto di questa storia di cui la maggior parte degli studenti, quantomeno negli ultimi decenni, ha fatto esperienza consiste in una serie di cliché tristemente scontati: la Guerra Civile fu solo una questione di schiavitù, la legislazione antimonopolistica federale ci salvò dal mondo malvagio del grande business, il presidente Franklin [Delano] Roosevelt [1882-1945; 1933-1945] ci fece uscire dalla Depressione, e così via. Dall’insediamento dei coloni fino alla presidenza di Bill Clinton, questo studio, nel suo piccolo, ha lo scopo di mettere le cose in chiaro” (ibidem). A questo fine sono dedicati i diciotto capitoli dell’opera, che, se non vogliono essere una lettura esauriente e definitiva della storia americana, vorrebbero però iniziare a rimettere ordine in tanti, troppi, ambiti della storia patria, che hanno riflessi non propriamente marginali anche sulle scelte geopolitiche, economiche e persino educative del mondo occidentale.
Il capitolo I, Le origini coloniali della libertà americana (pp. 37-48), ripercorre le tappe della presenza dei coloni britannici Oltreoceano, premurandosi di sottolineare il forte anelito di libertà che li aveva spinti a fuggire dalla madrepatria e la loro marcata e orgogliosa identità religiosa. Saranno in effetti soprattutto questi due “caratteri” a dar vita al cosiddetto “spirito americano”, che si affermerà successivamente. “Per i coloni la religione era fondamentale” (p. 39) e le questioni spirituali erano vivacemente dibattute: da Nord a Sud, nei contesti sociali più diversi ed eterogenei, ma sempre in pubblico. La convinzione di fondo, in ogni caso, la stessa che poi li aveva spinti fin laggiù, era che nessun governo centrale avrebbe potuto intromettersi — per alcun motivo — nell’esercizio del diritto alla libertà religiosa. Qualora l’avesse fatto, sarebbe venuto meno lo stesso patto fondativo dell’Unione, che si connotava così fin dall’inizio come la terra per eccellenza della libertà, e per questo tendenzialmente scettica di fronte a ogni idea, progetto o proposta di Stato centralizzato.
Il dato emerge con chiarezza nel capitolo II, La rivoluzione conservatrice americana (pp. 49-54), dedicato proprio agli eventi che hanno portato i coloni a separarsi dalla madrepatria. Contrariamente a quanto ancora si ritiene, quella degli americani (1775-1783) non è stata una rivoluzione ma una reazione, con l’obiettivo di conservare, e non di cancellare, la propria storia civile. Per dirlo con le parole di Woods: “Gli americani che protestarono contro l’usurpazione inglese delle libertà coloniali volevano preservare i loro diritti tradizionali, non erano rivoluzionari in cerca di una riorganizzazione radicale della società” (p. 49). I loro riferimenti naturali, e ideali, sono da ricercare più nel Medioevo — come la Magna Charta del 1215 — e all’alba dell’età moderna — come il Bill of Rights, la “Carta dei diritti”, risalente al 1689 —, che nell’illuminismo francese della seconda metà del secolo XVIII, a cui pure per diverso tempo sono stati legati da una storiografia ideologizzata con l’obiettivo — neanche troppo nascosto — di stravolgere decisamente l’identità stessa della nazione. Insomma, “gli americani difesero i loro tradizionali diritti [mentre] i rivoluzionari francesi disprezzavano le tradizioni della Francia e cercarono di rifare ogni cosa daccapo: nuove strutture di governo, nuovi confini provinciali, una nuova “religione”, un nuovo calendario” (p. 52). Quello che accadde dall’altra parte dell’Oceano fu allora “[…] una guerra americana per l’indipendenza in cui gli americani si sbarazzarono del potere britannico al fine di conservare le proprie libertà e autonomia di governo” (p. 53).
Il volto che assume il Paese all’indomani dell’indipendenza è descritto nel capitolo III, La Costituzione (pp. 55-69), in cui Woods illustra sinteticamente le fondamenta dottrinali del federalismo americano, a partire dall’approvazione del Primo Emendamento, varato, non a caso, in tema di libertà religiosa per garantire le prerogative del cittadino dalle eventuali usurpazioni dello Stato centrale. Il capitolo IV, Il governo americano e i “princìpi del ‘98” (pp. 71-84), esaminando la versione americana della teoria politica dei checks and balance, evidenzia ulteriormente le ragioni storiche che avevano contribuito allo sviluppo di una radicata cultura civica delle autonomie locali, come la definiremmo in Italia. Il fatto da tenere a mente, quando si considerano i primi anni dell’indipendenza, è che “poiché gli Stati erano parti costituenti dell’Unione e avevano goduto di un’esistenza indipendente molto prima che la Costituzione fosse decretata, i primi uomini di Stato americani vollero munire gli Stati di qualche protezione nei confronti del governo federale. A quest’ultimo non fu concesso di avere l’autorità esclusiva d’interpretare la Costituzione: in maniera consistente, avrebbe altrimenti emesso decisioni a suo favore e, con il tempo, consolidato il proprio potere” (pp. 74-75).
Quello che realmente muta la fisionomia iniziale degli Stati Uniti d’America è invece La divisione fra il Nord e il Sud (pp. 85-106) e la conseguente Guerra Civile (1861-1865), che decreta — questa volta sì — un progressivo avvicinamento del Paese a concezioni del mondo e ad atteggiamenti più propri delle ideologie astratte e quindi dei fenomeni intrinsecamente rivoluzionari. Eppure, anche qui una vulgata di parte ha diffuso nei decenni passati versioni a dir poco manichee del conflitto, come degli stessi eventi che lo avevano preceduto. Anzitutto, per quanto controverso possa apparire oggi a un osservatore esterno, la guerra non viene combattuta soltanto — e neanche principalmente — per l’abolizione della schiavitù. L’esercizio del predominio politico ed economico di un gruppo di Stati sull’altro svolge un ruolo di pari importanza. D’altra parte, non è certo per altruismo che il Nord voleva impedire l’introduzione della schiavitù nei nuovi territori: l’obiettivo era di riservare quelle terre ai soli bianchi. Gruppi e movimenti abolizionisti, peraltro, esistevano ed erano diffusi anche al Sud: anzi, per essere precisi, “nel 1827, operava negli Stati meridionali un numero di associazioni contro la schiavitù maggiore più di quattro volte rispetto a quelle del Nord” (p. 87). Perfino nella drammatica vicenda dello schiavo del Missouri Dred Scott (1795-1858) si omette spesso di ricordare che è proprio un tribunale del Sud a ordinarne la liberazione mentre per paradosso la Corte Suprema federale, investita del caso successivamente, annulla il giudizio, legittimando di fatto il suo status di schiavo.
Il conflitto, la prima guerra totale della storia — illustrata nel capitolo VI, La Guerra fra gli Stati (pp. 107-122) —, lascia ferite profonde e difficili a rimarginarsi del tutto ancora oggi. Va comunque ribadito che la questione della schiavitù non era stata il reale casus belli. Prima ancora che entrasse in carica il primo presidente repubblicano, Abraham Lincoln (1809-1865), sette Stati del Sud avevano lasciato l’Unione. D’altronde, il diritto all’autogoverno, secondo le parole dei Padri Fondatori, avrebbe dovuto essere difeso fino allo stremo, anche a costo di uscire dall’Unione, come di fatto avviene all’inizio degli anni 1860 di fronte a un governo centrale divenuto oppressivo. Jefferson Finis Davis (1808-1889), presidente degli Stati Confederati d’America, sosteneva inoltre che “[…] le basi legali per la secessione si potevano trovare nel Decimo emendamento della Costituzione. Questo emendamento aveva stabilito che ogni potere che non era stato delegato al governo federale dagli Stati e non era proibito agli Stati dalla Costituzione rimaneva un diritto degli Stati o del popolo. Siccome la Costituzione non si esprime in merito alla questione della secessione e gli Stati non delegarono mai al governo federale il potere di reprimerne una, la secessione rimaneva un diritto riservato agli Stati. Questo era stato, in parte, il motivo per cui James Buchanan [1791-1868; 1857-1861], il predecessore di Lincoln alla Casa Bianca, aveva permesso ai primi sette Stati sudisti di allontanarsi pacificamente dall’Unione. Sebbene non ritenesse che essi possedessero il diritto di separarsi, nemmeno credeva che il governo federale avesse il diritto di usare la coercizione nei confronti di uno Stato secessionista” (p. 109).
Così, quando, nell’aprile del 1861, Lincoln invia una nave per riapprovvigionare un forte federale nella Carolina del Sud — che era già uscita dall’Unione e non ammetteva certo che il governo federale potesse continuare a mantenere delle guarnigioni sul proprio territorio — e i sudisti rispondono aprendo il fuoco, scoppia la guerra. Lincoln dichiara lo stato di ribellione e richiama 75.000 uomini della Guardia Nazionale. Per tutta risposta dichiarano la secessione anche gli altri Stati del Sud ancora nell’Unione: Tennessee, Virginia, Carolina del Sud e Arkansas. Per aggiungere un ulteriore spunto significativo di riflessione, Woods ricorda la lista delle persone autorevoli d’accordo con il diritto alla secessione, definendola “impressionante” (p. 111). Vi si leggono, fra gli altri, i nomi di Thomas Jefferson (1743-1826), principale estensore della Dichiarazione d’Indipendenza e terzo presidente degli Stati Uniti d’America, John Quincy Adams (1767-1848), sesto presidente, William Lloyd Garrison (1805-1879), il celebre abolizionista, William Rawle (1759-1836) e Alexis de Tocqueville (1805-1859). Correttamente parlando, quindi, la guerra non fu combattuta fra gli Stati del Nord e quelli del Sud ma fra gli undici resisi indipendenti e il governo federale. Per questo, “nessuno che abbia studiato l’argomento contesterebbe che, almeno per i primi diciotto mesi della guerra, l’abolizione della schiavitù non era la questione.
“Il Senato degli Stati Uniti dichiarò, fin dall’inizio, che l’obiettivo della guerra era ripristinare l’Unione e che non c’era nessun altro obiettivo” (p. 112). La stessa figura di Lincoln, recentemente oggetto di nuove pellicole celebrative, va decisamente ridefinita rispetto al mito abolizionistico che la caratterizza. Lincoln, nota Woods, credeva infatti nella superiorità dei bianchi ed era a favore della deportazione degli schiavi liberati: “Nel 1861, fu proposto un emendamento alla Costituzione nel quale esplicitamente si affermava che il governo federale non aveva alcuna autorità — mai — d’intromettersi in questioni riguardanti la schiavitù negli Stati in cui questa esisteva. Lincoln sostenne l’emendamento con questa motivazione: “Ho saputo che è stata approvata dal Congresso […] la proposta di un emendamento costituzionale che avrebbe l’effetto d’impedire che il governo federale interferisca con le istituzioni degli Stati, comprese quelle riguardanti le persone tenute a servizio. Essendo a favore che tale disposizione sia riconosciuta ora come legge costituzionale, non ho alcuna obiezione a che diventi chiara nei suoi termini e irrevocabile”” (pp. 112-113).
Non solo, anche nel resto della sua carriera politica non è difficile trovare conferme delle sue opinioni razziali, così ad esempio in un dibattito del 1858: “Non sono — né mai sono stato — in alcun modo a favore dell’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; e non sono — né mai sono stato — favorevole a dare ai neri la possibilità di votare o di fare i giurati, né a permettere loro di ricoprire cariche pubbliche, né d’imparentarsi con persone bianche; e dirò in aggiunta che c’è una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razze di vivere insieme sulla base di un’uguaglianza politica e sociale. E, se non possono vivere così, fintanto che rimangono insieme, dovranno sussistere una posizione di superiorità e una d’inferiorità, ed io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca” (p. 113). D’altronde, per completare il quadro, “come deputato del parlamento dell’Illinois, Lincoln non mise in discussione le leggi discriminatorie contro i neri del suo Stato, votando perché ai neri non fosse esteso il diritto di suffragio e rifiutandosi di firmare una petizione che avrebbe dato la possibilità ai neri di testimoniare in tribunale. Lincoln fu anche un forte sostenitore della proposta d’insediare i neri liberati in una colonia, convinto che nella società americana non si sarebbero mai potuti assimilare. Come presidente, favorì un emendamento costituzionale che autorizzava l’acquisto e la deportazione degli schiavi e sollecitò il Dipartimento di Stato a individuare possibili aree per un insediamento; fra i luoghi presi in esame, c’erano Haiti, l’Honduras, la Liberia — dove la colonia degli USA per i liberti esiste tuttora —, l’Ecuador e l’Amazzonia”(pp. 113-114). Dietro la guerra contro il Sud, inoltre, vi erano motivazioni non solo squisitamente politiche, di predominio sul resto dell’Unione, ma anche di natura economica. Come ammettevano alcuni degli stessi giornali nordisti, “se al Sud fosse stato permesso di separarsi dall’Unione e di stabilire il libero scambio, il commercio estero avrebbe massicciamente deviato dai porti del Nord verso quelli del Sud, poiché le ditte mercantili avrebbero approfittato dei bassi dazi doganali o del regime di libero scambio vigenti al Sud” (p. 115). Insomma, non proprio una questione di diritti umani. E dovrebbe ulteriormente far riflettere il fatto che perfino le cosiddette cinque tribù civilizzate dei pellirossa — Cherokee, Choctaw, Chickasaw, Creek e Seminole — parteggiassero apertamente per la Confederazione. Ve n’è abbastanza per riscrivere — o quantomeno, in buona parte, correggere — intere pagine di alcuni manuali di scuola. Quello che invece avviene dopo la guerra di secessione è oggetto di due dettagliati capitoli, il VII, che descrive La Ricostruzione (pp. 123-140), condotta dal Nord in modo punitivo nei confronti del Sud e con modalità tali da porre le basi per incomprensioni e per risentimenti che pregiudicarono a lungo la convivenza fra bianchi e neri; e l’VIII, su Come la grande imprenditoria rese gli americani più ricchi (pp. 141-157), che illustra la ripresa economica del Paese.
Tuttavia, la chiave di volta per l’ascesa internazionale degli Stati Uniti d’America come potenza geo-politica incontrastata è senz’altro la Grande Guerra (1914-1918), che prostra l’Europa per quasi cinque anni decretando al contempo la fine di quattro imperi, tre dei quali plurisecolari, l’asburgico, il russo, il germanico e l’ottomano. Woods lo spiega nel capitolo IX, La Prima Guerra Mondiale (pp. 159-185), illustrando i due pesi e le due misure usati dal presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) nei confronti della Gran Betagna da una parte e della Germania dall’altra. Persuaso che occorresse entrare decisamente nel conflitto per dettare poi le condizioni al tavolo della pace, Wilson motiva l’ingresso in guerra sostenendo che “[…] gli Stati Uniti avrebbero combattuto per l’affermazione di grandi princìpi morali”(p. 177): non semplicemente per sconfiggere l’Impero germanico, quindi, ma per sradicare ogni forma di autoritarismo nel mondo, rivendicando addirittura la difesa dell’intera umanità. Quello che accade dopo, è noto. Nel gennaio del 1918 Wilson emana i suoi Quattordici punti, un documento straordinariamente ambizioso, fra l’idealistico e l’utopistico, che prevedeva anche la nascita di un organismo internazionale che avrebbe dovuto porre fine alle guerre una volta per tutte: la Società delle Nazioni. In realtà, sarà proprio il trattato di pace di Versailles, del 1919, esageratamente punitivo contro la Germania, vista come “l’epitome dei mali del mondo” (p. 185), a spianare la strada al revanscismo del nazionalsocialismo di Adolf Hitler (1889-1945) e, quindi, al nuovo conflitto mondiale (1939-1945), affrontato in tutti i suoi riflessi in due ampi capitoli, il XIII, Verso la Seconda Guerra Mondiale (pp. 237-247), e il XIV, La Seconda Guerra Mondiale: strascichi e conseguenze(pp. 249-261).
Fra i due avvenimenti vi sono gli anni 1920, un periodo solitamente ignorato dalla grande storiografia statunitense contemporanea. In realtà, come si legge nel capitolo X, Gli incompresi anni 1920 (pp. 187-193), per gli Stati Uniti d’America rappresentano un periodo di relativa stabilità, di prosperità economica e di benessere, grazie soprattutto all’azione mirata, ancorché non particolarmente propagandata, di due presidenti, Warren Gamaliel Harding (1865-1923) e John Calvin Coolidge (1872-1933). I problemi arrivano successivamente, con la Grande Depressione, oggetto del capitolo XI, intitolato appunto La Grande Depressione e il New Deal (pp. 195-216), che segue all’improvviso crollo del mercato azionario nell’ottobre del 1929: il PIL pro capite in breve tempo scende del trenta per cento, mentre la disoccupazione tocca il venticinque per cento. Woods spiega che la situazione sociale non era stata arginata in alcun modo né dalla presidenza di Herbert Clark Hoover (1874-1964), né da quella del democratico Roosevelt, colui che condurrà il Paese alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale e quindi al consolidamento di una leadership pressoché incontrastata in campo internazionale. Tuttavia, uscire vincitori in tempo breve da una fase recessiva con delle politiche di contrasto è un’altra storia: “[…] ciò che pose fine alla Depressione non furono né la legislazione economica né la Seconda Guerra Mondiale. Fu, piuttosto, il ritorno, dopo la guerra, a condizioni normali e la fine dell’incertezza che avevano angosciato il mondo degli affari durante gli anni di Roosevelt. Il benessere sarebbe tornato molto prima, se non fosse stato per le politiche sciocche e devastatrici di Hoover e di Roosevelt” (p. 216).
Il Secondo Dopoguerra, comunque, non viene caratterizzato soltanto dal progressivo ritorno all’economia di mercato e allo status quo ante ma anche dalla lotta senza quartiere alle infiltrazioni comuniste, o filocomuniste, in gangli vitali dell’amministrazione statunitense, che avrebbero segnato l’inizio di una nuova guerra globale, silenziosa ma non meno insidiosa, la cosiddetta Guerra Fredda (1945-1991). Se ne discute a lungo nel capitolo XII, Sì, i simpatizzanti comunisti esistevano sul serio(pp. 217-236), dedicato a confutare leggende nere come quelle che hanno investito figure-chiave della battaglia anticomunista, quale, su tutti, il senatore del Wisconsin Joseph Raymond McCarthy (1908-1957). Offrendo numerosi esempi dalla stampa nazionale dell’epoca, Woods dimostra che il problema delle spie filosovietiche era reale — almeno 350 americani avevano rapporti con il nemico — e altrettanto reale era la congiura del silenzio che occulterà per anni i crimini contro l’umanità compiuti dai sovietici, come quello perpetrato da Iosif Vissarionovič Džugašvili detto “Stalin” (1878-1953) nei confronti dell’intera popolazione ucraina, che subisce fra i 5 e i 7 milioni di morti. In ogni caso, se davvero McCarthy avesse spinto il Paese nel terrore non si comprende come mai i sondaggi di quegli anni lo indicassero come uno degli uomini più ammirati d’America e, per dirne una, “perché [Joseph Patrick] Joe Kennedy [Senior; 1888-1969] lo sostenne, le ragazze Kennedy fissavano con lui appuntamenti, Robert Kennedy [1925-1968] lavorava con lui, e JFK [John Fitzgerald Kennedy; 1917-1963] prese le sue difese additandolo come “un grande patriota” proprio nell’anno in cui subì una serie di critiche sfavorevoli?” (p. 235).
Agli anni Sessanta è dedicato il capitolo XV, I diritti civili (pp. 263-283), che rievoca gli episodi sociali più importanti soffermandosi sul ruolo sempre più politicizzato delle corti giudiziarie, il cui potere da allora non ha fatto che espandersi a vista d’occhio nelle materie più impensate e inedite; vale la pena di ricordare che la sentenza “Roe vs. Wade”, che di fatto legalizzerà il “diritto” all’aborto, è di qualche anno più tardi. Alle presidenze più recenti, ma — da parti opposte — cruciali, di John Kennedy e di Ronald Wilson Reagan (1911-2004) sono invece dedicati i capitoli XVI, John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson (pp. 285-304) e XVII, Il decennio dell’avidità? (pp. 305-313). Chiudono l’opera un capitolo chiarificatore sul “finto centrista” Bill Clinton (pp. 315-325) e sulle sue responsabilità nella diffusione del radicalismo islamico nel cuore dell’Europa, nonché un Indice biografico (pp. 327-335).
Omar Ebrahime