Nel 1988 è caduto il venticinquesimo anniversario della Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, il primo documento pubblicato, appunto nel 1963, dai Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Nella ricorrenza S.E. mons. Karl Braun, vescovo di Eichstätt, nella Repubblica Federale di Germania, ha svolto una serie di considerazioni sulla situazione in cui versa la pratica liturgica nella sua diocesi, ma, con ogni evidenza, la loro portata e il loro interesse si estendono oltre i confini della sede episcopale fondata da san Willibald, monaco anglosassone, compagno di san Bonifacio, morto nel 787.
La traduzione del documento – condotta sul pieghevole originale in tedesco – è redazionale, così pure il titolo.
Eichstätt, 4 dicembre 1988
Ai Sacerdoti e ai Diaconi della diocesi di Eichstätt
in occasione del 25º anniversario della pubblicazione
della Costituzione sulla liturgia
Cari Confratelli!
Venticinque anni fa, il 4 dicembre 1963, come primo frutto del Concilio Vaticano II venne pubblicata la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (SC). Essa costituisce il fondamento di tutti i passi postconciliari nell’ambito della vita liturgica della Chiesa. Traggo spunto dal 25º anniversario di questa Costituzione per richiamare l’attenzione su alcune questioni che mi sembrano importanti nella prospettiva attuale.
1. Con la citata Costituzione i Padri conciliari hanno proseguito su vasta scala la riforma liturgica che Papa Pio XII aveva già iniziato al tempo della seconda guerra mondiale. Con questa decisione essi si proponevano di “far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli” (SC 1; cfr. SC 21).
2. I Padri conciliari erano consapevoli che sarebbe stato possibile realizzare le aspirazioni della Costituzione sulla liturgia soltanto quando “gli stessi pastori d’anime […] sono penetrati per primi dello spirito e della forza della liturgia, e […] ne diventano maestri” (SC 14). La celebrazione liturgica ha certamente presupposti e conseguenze. La “vita spirituale” non si esaurisce solo in essa (cfr. SC 12). Comunque la liturgia “è la prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano” (SC 14). Per questa ragione noi pastori d’anime dobbiamo curare “con zelo e pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, interna ed esterna …”; in tal modo assolviamo “uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio” (SC 19 [1]).
Oltre a tutti gli sforzi per un buon svolgimento esteriore dell’azione liturgica, oggi ci deve stare particolarmente a cuore che i fedeli giungano a una profonda partecipazione interiore all’atto liturgico. Un incremento delle attività esterne in occasione dell’azione liturgica non può andare a discapito dell’interiorità. Relativamente alla partecipazione interiore alla santa Eucarestia, la Costituzione desidera che “i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC 48). È quindi decisivo che i cuori si uniscano a Cristo e che insieme con lui si offrano al Padre. Ogni azione liturgica che non si ponga questo fine, per quanto apparentemente “riuscita” e “rispondente”, misconosce la natura della liturgia.
Quindi i pastori d’anime “devono vigilare affinché nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente”(SC 11).
Riferendosi alla Costituzione sulla liturgia il Sinodo Romano dei Vescovi, del 1985, sottolinea quindi a ragione che “l’attiva partecipazione […] non consiste solamente nell’attività esteriore, ma soprattutto nella partecipazione interiore e spirituale, nella partecipazione viva e fruttuosa al mistero pasquale di Gesù Cristo ( cfr. SC 11)”(Relazione finale II. B. b. 1).
Di fronte a una crescente superficialità in tutti i settori della vita l’approfondimento della spiritualità dell’azione liturgica in noi stessi e nei fedeli affidati alle nostre cure deve costituire una preoccupazione urgente.
3. La liturgia è una celebrazione dell’incontro con il Dio vivente in parole e in immagini, in simboli e in gesti. Per questo tutto è ordinato in modo tale che la celebrazione stessa sia sorretta dalla nostra fede e dalla nostra carità, dallo spirito di timor di Dio e della sua adorazione e glorificazione. Di fronte alla sempre minore riverenza nell’azione liturgica è molto importante che non ci limitiamo a parlare di timor di Dio, ma che lo manifestiamo anche nel nostro servizio. Promuoveremo il senso del sacro soprattutto comprendendo più profondamente i segni liturgici e compiendoli coscientemente, con fede e con timor di Dio (cfr. Sinodo dei Vescovi, del 1985, Relazione finale II.B.b.1).
Venticinque anni dopo la pubblicazione della Costituzione sulla liturgia ci dobbiamo chiedere se in ogni sforzo di rinnovamento liturgico teniamo anche in considerazione un presupposto essenziale per una partecipazione fruttuosa all’azione liturgica, cioè il timor di Dio. Senza timor di Dio non siamo “sensibili alla liturgia”.
Per questo le disposizioni esecutive della Costituzione sulla liturgia, così come le altre direttive liturgiche postconciliari per l’azione liturgica, ricordano ogni volta di nuovo il timor di Dio in campo liturgico, incominciando dalla messa in guardia dagli abusi, che misconoscono il carattere dell’azione liturgica, fino all’esortazione a un comportamento conveniente nella casa del Signore e a ricevere in modo riverente la santa Comunione. Il profondo timor di Dio nelle azioni liturgiche della Chiesa Orientale deve far riflettere noi cristiani in Occidente. Sarebbe grave se fra noi la sensibilità per il sacro si perdesse e l’irriverenza ci portasse a una velata irreligiosità.
Non è un indizio preoccupante della diminuzione di timor di Dio e di senso del sacro se l’altare consacrato viene utilizzato come “tavolo ripostiglio” per oggetti estranei alla liturgia, se l’altare principale e l’ambone sono quanto vi è in chiesa di più scadente per qualità e per forma, se i fedeli, entrando o uscendo da una chiesa, non si inginocchiano o fanno al massimo un cenno di genuflessione, se lo stare in ginocchio in chiesa viene sostituito sempre più dallo stare seduti, se anche durante la liturgia il gesto così ricco di simbolismo delle mani giunte sembra passare sempre più di “moda”, se il segno della croce viene fatto automaticamente e senza riflettere, se il canto dei fedeli e la preghiera comune vengono eseguiti in modo “sciatto”, se il silenzio della casa del Signore viene disturbato da discorsi inutili e da chiacchiere?
Non dobbiamo cercare di rendere di nuovo accessibile ai fedeli il senso di riverenza nello spazio e nell’azione liturgici, come hanno fatto per esempio Romano Guardini nel suo scritto Von heiligen Zeichen [2] e ultimamente il vescovo mons. Egon Kapellari nel suo volumetto Heilige Zeichen, “Santi segni” (Verlag Styria, Graz-Vienna-Colonia 1988)?
Le manifestazioni di mancanza di timor di Dio sembrano più preoccupanti quando si tratta di ricevere la santa Comunione. Non si ha qua e là l’impressione che la Comunione venga fatta automaticamente, in un atteggiamento esterno disinvolto e senza la dovuta manifestazione di timor di Dio? Che pensare di una “ressa” per la Comunione domenicale, se d’altra parte si deve constatare quanto è esiguo il numero di coloro che ricevono il sacramento della Penitenza? Non incombe in proposito il pericolo che la Comunione si trasformi in una semplice agape? Possiamo accettare senza difficoltà che nelle Messe in occasione di matrimoni, anniversari, funerali, e così via, ci si comunichi “collettivamente”? Certamente i fedeli sono invitati a partecipare alla celebrazione di tutta la liturgia della Messa e quindi anche a ricevere la Comunione. Come pastori d’anime, però, non dobbiamo spiegare a tutti, ancor più che in passato, che prima di accostarsi all’Eucarestia bisogna sottoporsi a un esame serio? Altrimenti non ci staremmo avviando, con l’automatismo nel ricevere la Comunione, verso una svalutazione dell’Eucarestia e a mangiare e a bere la nostra condanna (cfr. 1 Cor. 11, 28 ss.)?
A questo proposito si deve tener conto che “per Cristo la sua obbedienza fino alla morte è la condizione per potersi donare a noi come cibo e come bevanda di vita eterna; così questo sacramento pretende che anche noi, in una sincera donazione, ci uniamo a Cristo senza riserve. D’altra parte non sarebbe neppure corretto considerare senza senso la partecipazione alla Messa senza comunicarsi, perché anche senza la Comunione la partecipazione alla santa Messa è una partecipazione sacramentale al sacrificio divino. Comunque si devono incoraggiare a partecipare alla Messa anche tutti coloro che, per qualche motivo, non possono partecipare pienamente all’Eucarestia ricevendo la santa Comunione. In nessun caso la libera decisione del singolo deve essere messa in discussione o annullata, anche se rito e testo della santa Messa prevedono che i partecipanti al rito si comunichino” (Lettera dei Vescovi Tedeschi a tutti coloro che sono incaricati dalla Chiesa di annunciare la fede, del 22 settembre 1967, n. 51).
4. Ne “la liturgia infatti, […] massimamente nel divino sacrificio dell’Eucarestia, “si attua l’opera della nostra redenzione”” (SC 2). Essa è soprattutto e innanzitutto azione divina in parole e in segni, in forme d’espressione umane. Essa avanza nei confronti dei fedeli elevate esigenze a cui non è lecito sottrarsi sostituendo il divino con l’umano. Il mistero dell’altare è “mistero della fede”. Noi sacerdoti ci occupiamo del sacro tutti i giorni. Così si corre il pericolo dell’abitudine e della routine, se non continuiamo a preoccuparci di compiere coscientemente la celebrazione della fede.
Oggi molti si lamentano che il mistero dell’azione liturgica stia svanendo o sia almeno minacciato. La dimensione del sacro, la profondità di forme simboliche durevoli, l’efficacia del rituale e del sacramentale, la potenza, contraria a ogni banalità, di un memoriale fondato divinamente, spesso non verrebbero più capiti o addirittura rifiutati. Un umanesimo desacralizzante impronterebbe in molti luoghi lo stile delle azioni liturgiche. La santa Messa e l’amministrazione dei sacramenti sarebbero trasformati in campo di prova per esperimenti liturgici “moderni”, con il pretesto della “creatività” e della “spontaneità” si insinuerebbe l’arbitrio. Sarebbe necessaria una nuova disciplina arcani per un’azione liturgica di cui non si abusi per esibizioni personali o per la rappresentazione di banalità di tutti i giorni, ma conduca di nuovo nella profondità del mistero, se le nostre azioni liturgiche non devono finire nella dimensione orizzontale e mondana.
Dobbiamo infatti prendere sul serio queste affermazioni, soprattutto in quanto – come ha constatato anche il Sinodo dei Vescovi del 1985 – “oggi […] ci sono segni di una nuova fame e sete per la trascendenza e il divino” e “la diffusione delle sette” ci pone il quesito “se qualche volta non abbiamo manifestato sufficientemente il senso del sacro” (Relazione finale II.A.1).
La natura stessa della liturgia, ma anche il fatto – e il bisogno che vi sta alla base! – che compaiono in misura crescente “segni di un ritorno al sacro“, esigono da noi che, “per favorire questo ritorno al sacro e per superare il secolarismo, dobbiamo aprire la via alla dimensione del “divino” o del mistero” (ibidem). In proposito non si pone l’alternativa “culto misterico o assemblea della comunità”. La liturgia della Chiesa è tutte e due: azione della comunità e attualizzazione dell’azione salvifica di Cristo. Noi dobbiamo piuttosto combattere una distorsione, che consiste nel vedere esclusivamente il carattere di assemblea comunitaria o di considerarlo a tal punto dominante che il valore del mistero nell‘azione liturgica ne risulta pregiudicato. L’accentuazione del carattere comunitario della celebrazione della Messa non può prevalere sul carattere dell’Eucarestia come azione sacrificale divina rivolta a Dio. “Un primo stimolo” da parte della liturgia ortodossa – ha notato recentemente l’esperto protestante di Chiese Orientali K.-Ch. Felmy – “può essere quello di mettere di nuovo in maggior rilievo la dimensione del mysterium tremendum nella celebrazione dell’azione liturgica. La liturgia non è mai una manifestazione solamente umana, ma irruzione di Dio nella nostra realtà e partecipazione d’onore dell’uomo al servizio divino celeste, celebrato già prima di noi e anche senza di noi. Ogni azione liturgica ha perciò qualcosa di sacro in sé” (KNA-Ökumen. Information, n. 50, 1988, p. 12).
Sacerdoti e diaconi non si possono accontentare del ruolo – inteso più o meno come funzione sociologica – di un “presidente” dell’assemblea liturgica: anzitutto devono essere autentici mistagoghi, che guidano i fedeli al mistero, all’incontro sacramentale e ricco di grazie con Dio.
5. In noi sacerdoti e diaconi vengono riposte molte attese, che spesso non sono originate dalla totalità della fede, ma riguardano soltanto certi aspetti particolari. Una simile limitatezza è pericolosa. Essa compromette tanto la natura della liturgia quale celebrazione della fede della Chiesa come anche la sua ripetibilità. Mi sembra che noi oggi ci dobbiamo occupare più che mai dei fondamenti teologici della liturgia, per non soggiacere nella pratica pastorale a criteri che sono estranei alla sua natura.
Una delle principali preoccupazioni di noi pastori d’anime deve essere quella di guidare i fedeli a capire e ad adempiere sempre meglio il loro compito di popolo di Dio, santo e sacerdotale (cfr. 1 Pt. 2, 9) soprattutto nella vita liturgica. Perciò è necessaria una continua formazione teologica, liturgico-pastorale e ascetica. Dobbiamo essere aperti alle conoscenze liturgico-teologiche e alle sollecitazioni liturgico-pastorali. In proposito dobbiamo però tenere presente che, da parte nostra, non siamo autorizzati a modificare a nostro piacimento le forme liturgiche vigenti o a introdurne di nuove. Il potere di regolare la liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al vescovo (cfr. SC 22). Ogni azione liturgica supera la dimensione della comunità, mette in rapporto con tutta la Chiesa e rappresenta l’unità della Chiesa stessa.
Questo diventa chiaro non da ultimo nella celebrazione dell’azione liturgica in latino. La riforma liturgica ha consentito di celebrare la santa Messa e di amministrare i sacramenti nella lingua nazionale. Questo è molto importante dal punto di vista pastorale. Ma la lingua nazionale, nella quale viene normalmente celebrata la liturgia, non deve assolutamente sostituire del tutto la lingua latina nell’azione liturgica. La Costituzione sulla liturgia sottolinea:“Si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della Messa che spettano ad essi” (SC 54). Gli ultimi Pontefici hanno ripetutamente espresso il desiderio che i fedeli di tutti i paesi sappiano cantare almeno alcuni canti in latino, per esempio il Gloria, il Credo, il Sanctus, il Pater Noster e l’Agnus Dei in gregoriano. Assecondiamo per quanto possibile questo desiderio e quando promuoviamo il canto comune inseriamo anche il canto gregoriano in latino. Un “repertorio di base” di canti gregoriani deve collegare spiritualmente i fedeli con una tradizione plurimillenaria e rafforzare la coscienza dell’unità delle molte Chiese locali.
Le celebrazioni liturgiche “appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano” (SC 26). Questo punto di vista ecclesiale dell’azione liturgica della Chiesa merita la massima attenzione. Indipendentemente dal luogo e dall’occasione in cui celebriamo la liturgia, dobbiamo celebrare la liturgia della Chiesa e non una qualsiasi, creata da una singola comunità, da una commissione liturgica o da un singolo sacerdote in contrapposizione all’ordinamento liturgico della Chiesa. I fedeli hanno un diritto inalienabile alla partecipazione alla liturgia della Chiesa universale. A ragione essi oppongono resistenza ad azioni liturgiche che sono impregnate di elementi soggettivi e di preferenze personali, quando non ne sono completamente costituite. Essi sono particolarmente indignati se durante l’azione liturgica non vengono utilizzati i testi della Sacra Scrittura approvati dalla Chiesa, ma interpretazioni e parafrasi, che non sono più la Parola autentica di Dio.
La riforma liturgica ha considerevolmente ampliato le possibilità di modificare liberamente (cfr. Introduzione Generale al Messale romano [IGM], Norme per la celebrazione della Messa comunitaria, Direttive per la celebrazione della Messa in piccole comunità, e così via). Questa libertà consente ampiamente di adattarsi alla situazione particolare. La liturgia ha però bisogno non solo di libertà d’azione ma anche di sostegno stabile. Proprio l’uomo moderno, che vive in un mondo in continuo mutamento, deve sentire la liturgia come patria, immune da un cambiamento permanente e in cui può anche ritrovare pace interiore e sicurezza. La costanza dei riti e delle preghiere vi contribuisce in modo determinante.
Molte pubblicazioni liturgiche e proposte di testi in circolazione tradiscono un’ignoranza vergognosa in materia liturgica. Questo riguarda non da ultimo anche le formule delle preghiere dei fedeli nella celebrazione della Messa. Le invocazioni di intercessione sono non di rado ammaestramenti catechizzanti e moraleggianti, presentano una “sottolineatura etica” e sono appelli rivolti agli altri invece di essere veramente oratio fidelium, preghiere di coloro che si sono riuniti nell’azione liturgica e che, solidali con il prossimo, invocano pieni di fiducia il Signore: per le necessità della Chiesa, per i governanti e per la salvezza di tutto il mondo, per quanti sono oppressi da difficoltà di vario genere, per la comunità locale (cfr. IGM 45 ss.).
Durante la celebrazione dell’Eucarestia il diacono o il sacerdote possono esortare a manifestare la disponibilità reciproca alla pace e alla riconciliazione. Questa dimostrazione così come viene pratica in più luoghi non corrisponde per modalità e per durata allo spirito di ciò che vuole significare. Perciò è necessario ricordare quanto segue: il saluto di pace del sacerdote prima della Comunione deve ricordarci di aprire il cuore alla pace e all’amore di Cristo e di prepararci così alla Comunione. L’ordinamento della Messa prevede che i fedeli – in certo qual modo come risposta di assenso – si possano assicurare e augurare reciprocamente questa pace, memori della parola di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv. 15, 12).
È consuetudine che, per il saluto di pace, ognuno stringa la mano del vicino di destra e di sinistra, che rappresentano tutti gli altri fratelli e sorelle. Poiché non si tratta dell’unica professione in cui ci si riconosce in comunione con Dio e con gli altri, questo gesto non deve essere esteso più del dovuto. Non abbiamo già riconosciuto i nostri peccati e non abbiamo già chiesto perdono a Dio onnipotente, e a tutti i fratelli e sorelle all’inizio della celebrazione? Cantiamo e preghiamo insieme, e sappiamo che il pane che viene portato in offerta all’altare rappresenta in modo misterioso l’unione reciproca e, dopo la consacrazione, anche con Cristo. Non potremmo presentare le nostre offerte con cuore sincero se non fossimo disposti alla riconciliazione (cfr. Mt. 5, 23-24). Quindi il saluto di pace non è l’unico segno della nostra disponibilità a mettere in pratica la pace di Cristo. I sacerdoti che partecipano alla Messa come concelebranti e i diaconi in servizio si scambino il saluto di pace nella forma abituale dell’abbraccio reciproco, in questo modo manifestando la particolare comunione che Cristo ci ha donato con il sacramento dell’Ordine.
Ogni arbitrio nell’abbigliamento liturgico contrasta con la dignità della liturgia. Vi è un nesso stretto fra l’insofferenza verso i paramenti liturgici e l’individualismo liturgico. L’abbigliamento liturgico ha carattere simbolico, serve alla dignità dell’azione liturgica, sottolinea la distinzione fra sacro e profano e rende evidenti le differenti funzioni svolte dai ministri che partecipano alla liturgia. Il sacerdote o il diacono deve essere riconoscibile come rappresentante di Cristo e come presidente dell’azione liturgica e quindi non può fare a meno dei paramenti liturgici. Ogni volta che celebra l’azione liturgica o amministra i sacramenti indossa un abbigliamento religioso adeguato e i paramenti prescritti. Un motivo per questo richiamo è fornito non da ultimo dall’amministrazione del sacramento della Penitenza in chiesa.
Dovrebbe diventare di nuovo ovvio che diaconi e sacerdoti in azioni liturgiche comuni come in occasione di funerali, di ritiri per sacerdoti, nella Messa crismale della Settimana Santa, e così via, portino talare e cotta, se non concelebrano o se non sono in servizio come diaconi. La retta disposizione interiore, richiesta dal servizio a Cristo, si esprime anche nel comportamento esteriore e nell’abbigliamento. Io non credo che l’uomo moderno sia “insensibile ai simboli”. Egli è senz’altro recettivo per il linguaggio dei segni in cui viene espresso visibilmente ciò che è invisibile. Spetta a noi rendergli accessibile il significato dei simboli in ambito liturgico.
I tentativi di rendere “più attraenti” le funzioni liturgiche per riscuotere il “successo” possono essere dettati da buone intenzioni ed esprimere autentica preoccupazione pastorale. Sarebbe però espressione di una “modernità pastorale” molto equivoca e di un’inutile preoccupazione per un’azione liturgica di “successo” presso gli uomini se ci si lasciasse guidare dall’“aggiornamento della liturgia” e se si utilizzassero per la celebrazione della Messa trovate più o meno ingegnose, testi di propria creazione, scambio di ruoli, dialoghi improvvisati, rituali di saluto profani, e così via, e il tutto riferito a situazioni particolari della comunità e a fatti d’attualità. Tali forme “moderne” possono sul momento piacere ai fedeli, ma con il tempo diventano esse stesse noiose, perdono la loro attrattiva e tradiscono la natura della santa Messa. Nell’azione liturgica non si tratta tanto della nostra azione quanto piuttosto dell’azione e dell’opera di Dio; si tratta di un atto di fede, che non può essere semplicemente “fatto”, ma che deve essere sostenuto dalla grazia di Dio.
La grandezza della celebrazione eucaristica non dipende “da una forma per quanto possibile interessante, ma da quello che essa è: annuncio della Parola di Dio, preghiera della Chiesa, sacrificio di Cristo e convito con Cristo” (dalla Dichiarazione della Conferenza Episcopale Austriaca relativa alla visita “ad limina” del 1987, del 29 marzo 1988).
Più necessaria e più indispensabile dell'”aggiornamento” della celebrazione della Messa con l’introduzione di nuovi testi, forme e modelli è l’educazione liturgica dei fedeli, in modo che essi capiscano meglio natura, composizione ed elementi dell’azione liturgica e quindi vi possano partecipare più proficuamente. Il “successo” – come se si trattasse di uno spettacolo! – e l'”attrattiva” della liturgia, la sua forza e la sua efficacia non derivano da continui mutamenti e da novità superficiali, ma piuttosto da un’approfondita partecipazione all’avvenimento sacro della liturgia, in cui è presente e attivo il mistero di Cristo.
6. La celebrazione della liturgia è la fonte del nostro servizio sacerdotale. Essa ci rende coscienti affinché “quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati” (SC 2). La nostra dedizione al servizio divino davanti a Dio diventa con il suo aiuto fruttuosa per gli uomini, anche se non ci è concesso di constatarlo subito e di vederlo sempre confermato.
Il modo in cui noi celebriamo la liturgia possa essere sempre espressione della nostra fede e della nostra convinzione che – com’è scritto nella Regola di san Benedetto – non si deve anteporre nulla all’“opera di Dio” (cfr. RB 43, 3). Cerchiamo di compiere il nostro servizio liturgico in unanime collaborazione e secondo le disposizioni ecclesiastiche, mettiamo da parte la nostra caparbietà, rinunciamo alle nostre inclinazioni personali per essere servitori della liturgia della Chiesa! In tal modo possiamo preparare quella primavera in cui hanno sperato i Padri conciliari pubblicando la Costituzione sulla liturgia, quel rinnovamento che non indulge a secolarizzazione e ad arbitrio, ma corrisponde alle vere esigenze del nostro tempo.
Cari Confratelli, sono fiducioso che queste parole scaturite dalla mia preoccupazione e dalla mia responsabilità trovino un ascolto pronto e un cuore ben disposto. Mi sento anche obbligato a manifestarvi apprezzamento e riconoscenza per il vostro impegno a celebrare l’azione liturgica secondo le indicazioni e i fini della Costituzione sulla liturgia e a edificazione della nostra comunità.
Se la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia (cfr. SC 10), allora bisogna anche dire che una tale “esperienza di vetta” e una tale “esperienza di fonte” sono possibili soltanto per quanti si danno la pena di scalare la vetta e di risalire alla fonte. Auguro a tutti noi di non intiepidirci in questa impresa, ma di procedere con letizia.
Vi saluta di cuore e vi benedice
il vostro vescovo
+Karl Braun
Vescovo di Eichstätt
***
(1) Le sottolineature nel testo della Costituzione conciliare sono state introdotte dall’autore (n.d.r.).
(2) Cfr. Romano Guardini, I santi segni, in Idem, Lo spirito della liturgia. I santi segni, trad. it., Morcelliana, Brescia 1987, pp. 121-203 (n.d.r.).