Don Roberto Spataro SDB, Cristianità n. 425 (2024)
Intervento, rivisto e annotato, svolto in occasione del ritiro regionale di Alleanza Cattolica, tenutosi a Napoli, presso l’eremo di Camaldoli, il 28 gennaio 2024. È stato mantenuto lo stile del parlato.
Carissimi Amici, laudetur Iesus Christus !
Con una certa trepidazione, non senza aver invocato lo Spirito Santo, prendo la parola dinanzi a questo qualificatissimo consesso di militanti di Alleanza Cattolica, uomini di elevata onestà intellettuale e morale. Allo stesso tempo, per la reciproca simpatia e — lasciatemelo dire — per l’amicizia che nasce dalla consonanza di ideali e di affetti, prendo la parola con gioia. Vorrei sviluppare una meditazione alla quale ho dato il titolo di Sub specie aeternitatis. Il Dizionario enciclopedico Treccani, uno dei vanti della tradizione culturale della nostra Italia, ne dà questa pregnante definizione. «Espressione in uso nella filosofia scolastica e nella teologia cattolica, con cui viene comunemente indicato il modo di considerare le cose del mondo dal punto di vista dell’eternità, sotto l’aspetto dell’eternità, in relazione all’eternità, quindi, in senso assoluto, sotto un profilo universale, prescindendo da ogni considerazione di tempo e di luogo» (1). I più recenti avvenimenti internazionali ed ecclesiali rimarranno pertanto sullo sfondo, come argomenti che, pro viribus, ci sono noti e sui quali in altri momenti e in altri luoghi esercitiamo doverosamente e responsabilmente la nostra riflessione. Il focus, invece, sarà indirizzato proprio su categorie di pensiero più comprensive e meno analitiche. Esse, dunque, non ci esimono, piuttosto ci sollecitano a un’ulteriore rilettura delle contingenze, stabilendo così un virtuoso circolo ermeneutico fra saeculares res e species aeternitatis.
1. La teologia della storia di sant’Agostino
Gli avvenimenti sconvolgenti del 410, culminati nella devastazione vandalica di Roma, la città eterna, allorché la Chiesa era internamente dilaniata da controversie che ne minavano l’unità e talvolta sembravano mettere a repentaglio la sua stessa esistenza, indusse il grande Agostino d’Ippona (354-430) ad elevare la sua mente e il suo cuore alla contemplazione delle vicende della storia sub specie aeternitatis. Nacquero così i ventidue libri della sua monumentale De civitate Dei: il fatto che essa sia stata l’opera più copiata del dottore d’Ippona, di cui si contano oltre 350 manoscritti, mostra la cogente attualità della domanda che egli si pone: perché sciagure e distruzioni affliggono il corso degli eventi e turbano l’anima dei giusti? Pur a costo di risultare eccessivamente semplificatore, vorrei sintetizzare la risposta dell’Ipponense in questa formula: dalla terra solleva lo sguardo al Cielo, sii paziente, tranquillo e perseverante nel bene e lascia a Dio di essere Dio. La storia appartiene a Dio e — dunque — lo stesso drammatico esercizio della libertà umana che, se privo dell’influsso benefico della Grazia, inclina verso il male e suscita i mali, personali e sociali, non può essere sottratto all’azione della Provvidenza. Le grandi strutture che occupano la storia — si tratti dell’impero assiro o della res publica romana prima e dopo l’avvento del cristianesimo — passano, come passano le ideologie. Esse vanno ponderate e valutate alla luce dell’accoglienza del Mistero della Redenzione. Ed è l’immersione personale e comunitario in questo Mistero che introduce in una relazione virtuosa con Dio e con il prossimo, con gli amici e gli avversari, con buoni e malvagi, che — comunque — non conosciamo mai completamente nella loro identità. Questo intreccio di relazioni sub regimine gratiae è la civitas Dei, l’appartenenza alla quale è pur sempre sfidata, provocata e, comunque, purificata ed elevata dalla coesistenza della civitas hominis. La loro separazione definitiva è un appuntamento escatologico. Nel fluire del tempo, invece, ci è data la possibilità di distinguerle più in mente che in re, sfumando i giudizi.
Giudicare, tuttavia, è un’operazione doverosa e imprescindibile: appartiene alla nostra stessa attività di pensiero. Non possiamo, dunque, e non dobbiamo evitare di elaborare i nostri giudizi rettamente, ammettendo, da una parte, la nostra impotenza a tutto comprendere, e dall’altra anche la nostra capacità di comprendere parzialmente l’intreccio delle due civitates. Civitas Dei e civitas hominis sono due grandezze spirituali. Vivono dentro di noi. La grazia ci allontana progressivamente dalla seconda e ci introduce sempre più approfonditamente nella prima. Con Agostino, però, non siamo così ingenui da dimenticare che la civitas hominis prevale in alcune creature e che superbia, violenza e inquietudine ne sono la cifra. La prospettiva escatologica rimette però tutto nella giusta proporzione perché, come ammonì Francesco II di Borbone (1836-1894) dopo la disfatta militare che segnò il crollo del Regno delle Due Sicilie a causa di tradimento e prepotenza, le ingiustizie non sono eterne (2) e, come Agostino afferma nel cuore della seconda parte della sua opera, tale prospettiva comunica un senso di pace soprannaturale. La visione della storia di Agostino, che è generata — non dimentichiamolo — da un contesto tragicamente deprimente, è un esercizio della virtù della speranza: in essa si pregustano i beni che sono stati promessi. E la virtù della speranza — come ha insegnato Benedetto XVI (2005-2013) nella sua enciclica Spe salvi, secondo me la più bella —, virtù eminentemente teologale quanto a destinazione, ci aiuta paolinamente ad affermare che «omnia cooperantur in bonum diligentibus Deum», «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8,28). A tal proposito mi pare opportuno ricordare un passo della Fede ortodossa di san Giovanni Damasceno (675 ca.-749), l’ultimo dei Padri greci, che fissa un caposaldo della teologia e della spiritualità quando dichiara: «In realtà, delle cose che dipendono dalla provvidenza, alcune avvengono grazie alla sua volontà attiva, altre invece attraverso la sua volontà permissiva. In virtù della prima accadono tutte quelle cose che risultano come incontrovertibilmente buone; molte sono, invece, le forme nelle quali si manifesta la volontà permissiva di Dio. Per esempio, quando egli permette che l’uomo giusto s’imbatta nelle calamità, affinché la virtù nascosta in lui si renda visibile anche per gli altri, come accadde nel caso di Giobbe (Gb 1,12). Talvolta, Dio consente che avvenga qualcosa d’ingiusto affinché, attraverso circostanze apparentemente inique, si compia qualcosa di grande e di mirabile: attraverso la croce, ad esempio, egli ha dato la salvezza agli uomini. Inoltre il Signore permette che l’uomo pio sia afflitto da gravi sventure: perché non si allontani, cioè, dalla retta coscienza ovvero, a causa dell’autorità e della grazia concessegli, non precipiti nella superbia, come avvenne in Paolo (2Cor 12,7)» (3).
Concludo la trattazione di questo punto con un breve accenno a un grande studioso del cristianesimo antico e particolarmente di Agostino: un uomo del secolo scorso, Henri-Irénée Marrou (1904-1977). Nel suo saggio intitolato Decadenza romana o tarda antichità? (4), egli, pioniere fra gli studiosi della tarda antichità, mise in evidenza come nello stesso processo di decomposizione della civiltà romana imperiale pullulavano i germi di una nuova civiltà piena di vigore e destinata a scrivere pagine meravigliose della storia nell’epoca della Cristianità medioevale.
2. La testimonianza di Caterina da Siena e di altri santi
Ad aeternitatem eiusque speciem ci eleva anche la testimonianza della compatrona d’Italia e — piace ricordarlo alla vigilia di una mattinata di studio sull’Europa — del nostro continente: santa Caterina da Siena (1347-1380). Ella è vissuta in un’epoca tormentata nella storia della Chiesa, il secolo XIV, al cui confronto le attuali tempeste che la Sposa di Cristo soffre appaiono ridimensionate. In quel periodo, un po’ tutto era in decadenza: la teologia si era insabbiata nel nominalismo e in logomachie noiosissime; la vita consacrata, da sempre polmone di rigenerazione spirituale, languiva negli abusi e nei disordini; l’istruzione religiosa del popolo era talmente scaduta che la superstizione assumeva le sembianze di un regresso nel paganesimo; la vita morale cedeva a ogni turpitudine e la stessa Caterina denunciava il «peccato contro natura» del clero che, a suo avviso, schifava anche i demoni (5). L’Europa era insanguinata da guerre a non finire, calamità naturali ed epidemie decimavano la popolazione, e l’islam avanzava e sembrava pronto a conquistare i Paesi di antica tradizione cristiana. Come «ciliegina sulla torta», il Papato si era ridotto ad un ruolo subalterno rispetto ai potenti del tempo, nel nostro caso la monarchia francese, al punto che il Pontefice non risiedeva neppure a Roma, ma ad Avignone, in Francia, per l’appunto.
Oggi i potenti si identificano, come sappiamo, più nelle ideologie che nelle organizzazioni statuali. E la Chiesa è fortemente insidiata e occupata dalle ideologie. Ed ecco Caterina con la sua santità travolgente e sorprendente: una giovane donna che, nonostante le remore della famiglia, i sospetti delle autorità ecclesiastiche, le calunnie degli iniqui e delle inique, cambia la storia della Chiesa. Dio agisce così nella sua Provvidenza. Suscita i santi che provochino — essi sì — processi di cambiamento, ossia di rinnovamento nella vita dello spirito, conversione e santificazione. È interessante che il capolavoro di Caterina contenga un trattato sulla Divina Provvidenza che agisce sia nella vita personale delle anime, quelle più tiepide e fervorose, sia nella storia dei popoli. Ci fa tanto bene accostarci all’agiografia perché la testimonianza di Caterina è riprodotta, mutatis mutandis, nella vita dei santi tout court. Oggi, più che mai, ci fa tanto bene coltivare la memoria fidei, attingendo anche agli insegnamenti del vostro fondatore Giovanni Cantoni (1938-2020), che aveva il dono dell’umorismo perché — come sapeva fare lui, con capacità analitica capillare — guardava le «hominum et clericorum res»sub specie aeternitatis. Don Giovanni Bosco (1815-1888), santo contro-rivoluzionario, «navigò in un mare di guai», recitava un’antica «filmina» che ha accompagnato la vita dei collegiali e degli oratoriani per molti decenni. Visse in quelli che egli definiva «tempi difficili» — come non definir tale il secolo XIX, quando ai mali delle fasi precedenti della Rivoluzione si cumularono quelli della Rivoluzione industriale, del positivismo, della massoneria, del socialismo, dell’anticlericalismo — e perciò diffuse la devozione a Maria Aiuto dei Cristiani, superando le ostilità degli avversari intra ed extra Ecclesiam, deleteri gli uni, perniciosi gli altri. E i santi, salva reverentia, mossi dalla carità, hanno saputo parlare con parrhesía evangelica, quando era prudenzialmente richiesto pro bono Ecclesiae et salute animarum. «Poiché Dio ti ha dato questa autorità e tu l’hai ricevuta —scriveva Caterina a Papa Gregorio XI (1370-1378) —, allora devi usare il tuo potere e la tua facoltà; e se non la volessi usare, sarebbe meglio che ti dimettessi da questo ufficio: sarebbe maggior gloria di Dio e meglio per la salvezza della tua anima.
«[…] Fai bene attenzione, per quanto hai cara la tua vita, a non cadere nella negligenza: non prenderti gioco delle opere dello Spirito Santo, che sono richieste a te che le puoi fare. Potresti ottenere la pace, buttando fuori le perverse pompe e i piaceri mondani, e conservando unicamente il dare gloria a Dio e ciò che dobbiamo alla santa Chiesa» (6).
Pressoché contemporanea di Caterina fu santa Giuliana di Norwich (1342-1416). Papa Benedetto XVI le dedicò una catechesi nel ciclo dedicato alla presentazione di mistiche del Medioevo (7). Quando si prega è inevitabile che fiorisca la mistica. Di lei ci è pervenuto il Libro delle rivelazioni,dove commenta in modo magistrale come si possa intendere il felix culpa del Preconio pasquale. San Paolo esprime questo concetto affermando: «laddove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia» (Rm 5,20). La nostra cara Giuliana, la cui teologia è animata da un’aura di dolcezza e di sereno ottimismo «cantoniano», ha meditato a lungo su questo punto, che, a pensarci bene, è di fondamentale importanza, perché tutti ci poniamo la domanda che ha sfidato la teodicea di tutti i tempi: si Deus est, si Deus est et bonus est, unde malum?
Racconta santa Giuliana di aver detto nella sua mente «[…] a nostro Signore con grande spavento: “Ah, buon Signore, come può tutto essere bene nonostante il gran danno che il peccato ha causato alle tue creature?”. E qui — prosegue — io desideravo con audacia di avere una qualche spiegazione più chiara che avrebbe alleviato questa mia angustia. E a questa domanda il nostro Signore benedetto rispose con grande dolcezza e mostrandomi un volto amabilissimo, e mi rivelò che il peccato di Adamo era il peggior danno che fosse mai stato fatto o che potrebbe essere fatto sino alla fine del mondo. […] Inoltre mi insegnò a contemplare la gloriosa riparazione da lui fatta, poiché questa riparazione è incomparabilmente più gradita alla beata divinità e più gloriosa per la salvezza dell’uomo di quanto non sia stato dannoso il peccato di Adamo. Questo è dunque il pensiero di nostro Signore, e noi dovremmo in tale insegnamento fare attenzione particolarmente a questo: “Dal momento che ho trasformato in bene il danno più grande, voglio che tu sappia dedurre da ciò che trasformerò in bene qualsiasi altro male, che di quello è più piccolo”» (8).
Mi congedo con queste parole di Giuliana di Norwich «and all shall be well», «tutto sarà bene» (9), cui fanno da pendant quelle del nostro Alessandro Manzoni (1785-1873): Dio «[…] non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande» (10).
Note:
1) Voce Sub specie aeternitatis, in Vocabolario Treccani, nel sito web <https://www.treccani.it/vocabolario/sub-specie-aeternitatis>, consultato il 4-3-2024.
2) «Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l’opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni» (Cit. in Pier Giusto Jaeger (1936-2008), Francesco II di Borbone. L’ultimo Re di Napoli, Mondadori, Milano 1988, p. 211).
3) Giovanni Damasceno, Esposizione della fede. De fide orthodoxa, introduzione, commento filosofico, trad. it., a cura di Matteo Andolfo, Edizioni San Clemente-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2013, 2,29.
4) Cfr. Henri-Irénée Marrou, Decadenza romana o tarda antichità? III-VI secolo, trad. it., Jaca Book, Milano 1979.
5) «Non che lo’ dispiaccia el male perché lo’ piaccia alcuno bene, ma perché la natura loro fu natura angelica, e però la natura loro schifa di vedere o di stare a vedere commectere quello enorme peccato actualmente» (Caterina da Siena, Libro della divina dottrina volgarmente detto Dialogo della divina provvidenza, a cura di Matilde Fiorilli, Laterza, Bari 1912, cap. CXXIV, p. 183).
6) Le lettere di Santa Caterina da Siena, versione in italiano corrente, ESD. Edizioni Studio Domenicano, 2 voll., Bologna 1996, vol. II, Lettera 255, pp. 64-65 (pp. 64-65).
7) Cfr. Benedetto XVI, Udienza generale del 1°-12-2010, ora in Idem, Sante e beate. Figure femminili del Medioevo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 111-117.
8) Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, trad. it., Àncora, Milano 1984, p. 169.
9) Ibid., p. 165.
10) Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, Einaudi-Mondadori, Torino-Milano 1985, cap. VIII, p. 150.