di Silvia Scaranari
La Repubblica del Sud Sudan – con capitale Juba – è il Paese più giovane del pianeta, riconosciuto dall’ONU nel 2011 come il 193° del mondo e il 54° africano, nato dopo un interminabile conflitto che lo ha visto contrapporsi al Sudan, di cui era la regione meridionale.
E’ una regione complessa, dominata da un’economia agricola in larga parte di sussistenza, integrata negli ultimi decenni dalla scoperta di importanti giacimenti petroliferi e minerari (ferro, cromo, zinco, tungsteno, mica, argento e oro), con una disarmante carenza di infrastrutture che ne impediscono un adeguato sviluppo.
L’indipendenza, raggiunta dopo decenni di conflitti, ha evidenziato che il nuovo Stato è costruito sul niente o quanto meno sul poco. I mass media hanno trasmesso l’immagine della vittoria della democrazia e dell’autodeterminazione di un popolo, ma si è scoperto molto presto che non era proprio così.
Paese dominato da una significativa pluralità etnica (gli antichi gruppi nilotici dei dinka, nuer, shilluk, le penetrazioni del XVI sec. di asandè e avungara, a cui si aggiunsero nel XVII sec. gli arabi), Stato con il maggior numero di lingue parlate (circa 60) dopo l’Indonesia, ha una storia che si dipana fra un silenzio durato secoli (pochissime le testimonianze prima dell’Ottocento) e tentativi di penetrazione araba respinti fino al 1870, quando Isma’il Pascià lo sottomise all’Egitto. Spodestato dopo neanche due decenni dall’arrivo degli inglesi, fu unificato con il Sudan del nord.
Al momento dell’indipendenza, nel 1947, la Conferenza di Juba decise la formazione di un unico Sudan, che sussistette fino al 1964, quando iniziarono le rivendicazioni indipendentiste, conseguenza dell’imposizione di leggi discriminatorie nei confronti dei non musulmani, con tanto di introduzione della shari’a per tutti e un’arbitraria divisione del territorio in tre distretti da parte del governo di Khartoum.
La nascita del Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan (Splm) ha dato vita a decenni di guerra civile segnata, negli ultimi anni, non solo dalla faglia Nord/Sud (musulmani-cristiani), ma anche da quella tra componenti interne al Movimento stesso (Presidente Kiir e suo vice Machar).
Il lungo periodo bellico ha causato non solo milioni di profughi e centinaia di migliaia di morti, ma ha anche impedito lo sviluppo di infrastrutture. Se l’80% dei pozzi petroliferi sudanesi si trova al Sud, le raffinerie sono invece al Nord. Al Sud non resta che esportare greggio, cadendo nelle mani di multinazionali che sfruttano la situazione. Molti ritengono che le intenzioni degli investitori (in primo luogo la Cina, che ha costruito il collegamento dai pozzi petroliferi al Port Sudan, sul Mar Rosso), che hanno acquistato quasi un decimo della terra della nuova nazione siano esclusivamente speculative e finalizzate a depauperare le risorse della regione.
Morto il fondatore e leader dell’indipendenza John Garang, nel 2005, il Paese è rimasto senza riferimenti. Il suo naturale successore, Salva Kiir, di etnia dinka, si è scontrato con il suo vicepresidente RiechMachar,di etnia nuer, creando nel 2014 un conflitto etnico con circa 50.000 morti.
Nel 2019 il Santo Padre Francesco si è fatto promotore di un processo di pacificazione, che ha portato i due leader a Roma e alla firma di un reciproco impegno alla pace interna, riconfermato nel 2021, quando la capitale Juba si è vista al centro di importanti trattative con il governo etiope ed egiziano sulla secolare disputa per la ripartizione delle acque del Nilo.
Mentre i governi cercano incontri e accordi, si rivela sempre più debole la loro capacità di contenere la crescita del jihadismo islamico in tutta l’Africa centro-orientale. Il Sud Sudan è stato evangelizzato da missionari cattolici (soprattutto comboniani) e anglicani nel XIX secolo, ma permane una percentuale molto alta di religioni tradizionali e una parte musulmana.
Secondo le stime della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, i cristiani sarebbero il 61,7% della popolazione. Nel 2013 la Santa Sede ha istituito un Nunzio apostolico per il nuovo Stato, carica oggi ricoperta da Mons. Hubertus Matheus Maria van Megen, che risiede a Nairobi ricoprendo anche la funzione di Nunzio per il Kenya. A sua volta il Sud Sudan ha aperto le relazioni diplomatiche istituendo un ambasciatore presso la Santa Sede. Il presidente Kiir (cattolico, ma con figlio musulmano) ha più volte detto che la libertà religiosa è garantita, ma non sembrano pensarla così i gruppi di frontiera che si rifanno all’islam radicale. Permangono episodi molto sospetti di giovani donne ospiti dei campi profughi sparite nel nulla dopo incursioni di jihadisti. Eco sui mass media internazionali ha avuto l’attentato a padre Christian Carlassare, missionario comboniano, gambizzato e lasciato in una pozza di sangue nella notte fra il 25-26 aprile scorso, poco dopo aver ricevuto la nomina a nuovo vescovo di Rumbek, diocesi della zona centrale del Paese. Secondo Aiuto alla Chiesa che Soffre è un attacco volto a intimorire la Chiesa che «si è dimostrata intraprendente nel costruire ponti fra gruppi etnici, nel promuovere lo sviluppo socio-economico e nel fornire assistenza umanitaria alla popolazione sofferente». La radicalizzazione dell’islam nell’area africana gioca proprio sulle situazioni critiche (povertà, insicurezza, rabbia antigovernativa, delusione, corruzione) per reclutare i giovani, oltre a causare il rapimento di sacerdoti e civili come fonte di autofinanziamento con i riscatti. L’intensificarsi della pressione jihadista ai confini del Sud-Sudan, amplificata dalle criticità socio-economico-tribali, è un segnale che non si può trascurare. L’ultimo decennio ha visto un gigantesco processo di trasferimento delle basi jihadiste dal Medio Oriente all’Africa. Una “lunga marcia” che dal Sahara è scesa nel Sahel, e dal Bacino del Niger ha raggiunto quello del Nilo e ora ha scavalcato l’Equatore su entrambi i fianchi del continente. Le violenze di oggi, non solo nel Sud Sudan ma anche in Kenya, Mozambico, Congo, Angola, ricordano paurosamente quelle di pochi anni fa in Nigeria, Burkina Faso, Camerun, Somalia: terre con vaste comunità cristiane che l’indifferenza internazionale ha trasformato in abissi di martirio.
Lunedì, 17 gennaio 2021