La crisi sudanese fa emergere uno dei principali nodi irrisolti dei sistemi politici di una parte del mondo arabo: il ruolo dell’esercito
di Silvia Scaranari
Distratti dai regali e dai festeggiamenti, ma speriamo anche coinvolti in qualche seria riflessione su Dio che nasce per la salvezza dell’uomo, è sfuggito ai più che il Sudan ha vissuto un Natale di manifestazioni, contestazioni, feriti e purtroppo anche di morti.
Parliamo qui dell’islamica Repubblica del Sudan – distinta dal nuovissimo stato del Sud Sudan, nato nel 2011 a maggioranza cristiana -, che da decenni non trova pace. Posto fra Egitto, Mar Rosso, Etiopia, Kenya, Uganda, Congo, Repubblica Centroafricana, Ciad e Libia, è il più esteso Paese del continente, con 35 milioni di abitanti e una densità di popolazione di 13 ab per kmq (in Italia 197 per avere un termine di paragone). La popolazione vede primeggiare l’etnia araba, ma seguono, con una significativa rilevanza, i Dinka, i Nuba, i Beja, i Nuer, gli Azande, i Bari, i Fur e altre minori. Alla tradizionale tensione tra questi diversi gruppi si sono aggiunte, dall’indipendenza in poi (1956), contenziosi fra le regioni del Sud (oggi riconosciute come Stato indipendente), il Darfur e il Nord. Inoltre, oggi il Paese è diventato strategico per la sua posizione e rientra negli interessi geopolitici soprattutto di Russia, Cina, Turchia. È infatti snodo di transito delle rotte migratorie che dall’Africa orientale spingono verso la Libia e il Mediterraneo, possiede parte del corso del Nilo, bacino idrico di straordinario interesse non solo per Etiopia e Egitto, ma anche per potenze straniere, prime fra tutte la Cina, e soprattutto si affaccia sul Mar Rosso, area di connessione delle principali rotte commerciali tra Mediterraneo e Oceano Indiano.
La Cina considera il porto di Haidob (interamente costruito dalla China Harbour Engineering) hub della Belt and Road Initiative. Mosca è invece interessata alla creazione di un punto logistico a Port Sudan, che rinforzi la propria proiezione militare tra Cirenaica, Sahel e Mar Rosso. Lo scorso agosto il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha firmato con il presidente del Consiglio supremo sudanese, Abdel Fattah Al-Burhan, protocolli d’intesa nei settori energetico, finanziario e militare. Il timore che la grande diga del Nilo Azzurro, voluta dall’Etiopia, possa ridurre le riserve idriche ha spinto l’Egitto ad accordi importanti proprio con il Sudan, accordi che coinvolgono anche dispute di confine.
La rivoluzione dello scorso 25 ottobre ha rimesso in gioco le carte, davvero o solo per finta? Per cercare di capire facciamo un passo indietro e ricostruiamo il quadro. Nel 1956, ottenuta l’indipendenza dalla Gran Bretagna, si aprirono lotte interne fra le forze governative del Nord e le forze Anya-Nya, che chiedevano l’autonomia del Sud del paese. Varata nel 1957 una costituzione che dichiarava l’islam religione di Stato e l’arabo lingua ufficiale, lo scontro fra il Sud (prevalentemente cristiano) e il Nord musulmano divenne fenomeno endemico. Nel ’64 venne sancita l’espulsione dei missionari stranieri e, così, iniziò una latente guerra civile, fino al colpo di stato del 1969, detto “rivoluzione di maggio”, ad opera di Ja’far al- Nimeyri, appoggiato dai comunisti locali e dall’URSS.
Nel 1983, su spinta di istanze conservatrici islamiche, il governo decise la divisione del Sud in tre regioni e l’introduzione della shari’a nel codice penale provocando, la nascita dell’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan.
Una forte carestia e il conseguente l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità portarono nel 1985 ad un altro colpo di stato, realizzato dal generale ‘Abd al-Rahman Suwwar al-Dhahab, che depose Nimeyri e restaurò un governo civile di breve durata. Il 30 giugno 1989 un nuovo colpo di stato, guidato dal generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir, sostenuto dal Fronte Nazionale islamico (NIF) di Hasan al-Turabi. La legge islamica, riconfermata nel 1991, la presenza di forti gruppi di islam radicale, la tensione economica fra il Nord, con la capitale e il governo, e il Sud, detentore del 70% dei pozzi petroliferi e cristiano, gli interessi di USA e di Cina, la caduta dell’URSS, riaggravarono le tensioni e fecero riaccendere la guerra civile.
Nel 1999, il 12 dicembre, il presidente Bashir sciolsee l’Assemblea Nazionale, dichiarò lo stato di emergenza e allontanò il vecchio compagno politico, capo del FIN, leader dell’islam ultra-conservatore, Hasan al-Turabi, facendo sperare finalmente in una normalizzazione del potere. Ma passarono mesi, anni e nulla cambiò in concreto, sotto il perdurare di un grave conflitto con il Sud, in aperta ribellione armata, che si concluse nel 2011 con la proclamazione dell’indipendenza e la nascita di un nuovo Stato, il Sud Sudan.
Bashir restò al potere riconfermato anche nel 2010, ma gli oppositori crebbero. Proteste iniziate nel 2018 per l’aumento dei prezzi e la crisi economica diventarono aperta richiesta di dimissioni del presidente, che rispose, invece, dichiarando lo Stato di emergenza.
L’11 aprile 2019 l’esercito dichiarò decaduto Bashir e arrestò molti ministri e parlamentari, facendo irruzione a Khartoum negli uffici del Movimento Islamico, la principale ala ideologica del Congresso Nazionale. Venne nominato nuovo capo di stato il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Con il nuovo corso di governo si progettò una nuova costituzione e, nel 2020, il nuovo governo di Abdallah Hamdok diede il via a significative novità: abolita la pena di morte per omosessualità e apostasia, vietate le mutilazioni genitali femminili, la fustigazione pubblica e l’obbligo del velo per le donne, consentito il consumo di alcool per i non musulmani. Di fatto venne abolita la shari’a e si dichiarò di voler aprire la strada ad una reale democrazia. Le prossime mosse avrebbero dovuto garantire l’allontanamento delle forze armate dal governo. Al contrario, il 25 ottobre 2021 un nuovo golpe da parte dell’esercito portò all’arresto di Hamdok e di diversi ministri. Manovre confuse, senza un progetto chiaro, tanto che il 25 novembre un accordo tra le forze armate riportò Abdallah Hamdok alla carica di Primo ministro. Questa situazione denuncia un’unica realtà: le forze armate sono state negli ultimi 50 anni le protagoniste indiscusse della vita politica sudanese e non hanno nessuna intenzione di abbandonare il loro posto di controllo.
La parvenza di democrazia degli ultimi anni non va confusa per una cessione di potere da parte dell’esercito, che non c’è stata e non ci sarà, data l’importanza geopolitica dello Stato. Oltre al suo legame con Egitto ed Etiopia, importantissima è la sua costa sul Mar Rosso, come già detto, perché questo mare collega il Mare Nostrum all’Oceano Indiano e all’area asiatica, avendo come dirimpettaio l’Arabia Saudita, oggi in una difficile opera di transizione politica. Deposto Bashir e assunta una parvenza di democrazia, il Sudan ha goduto di un’apertura di credito verso gli Stati Uniti, che lo hanno rimosso dalla lista nera dei Paesi sponsor del terrorismo, hanno ridotto le sanzioni e gli hanno permesso di accedere ai fondamentali finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale. Corollario del riavvicinamento a Washington, il Sudan ha siglato gli “accordi di Abramo” per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele. Ora, la rivolta del 25 ottobre ha rimesso in discussione i precari equilibri. Gli USA hanno rialzato la guardia e subito bloccato gli aiuti umanitari della Banca Mondiale.
Mentre i potenti giocano le loro carte sul Sudan, la popolazione sta manifestando. La povertà è a livelli spaventosi, il 30% è disoccupato, milioni sono sotto la soglia della sopravvivenza, la cappa militare ha esasperato i più, milioni sono i profughi e i gruppi islamisti radicali-jihadisti proliferano nelle zone di confine.
Dal 19 dicembre le piazze sono piene di manifestanti. Solo nella giornata del 30 dicembre sono morte 4 persone, mentre il 31 le stesse autorità di polizia hanno confermato il bilancio delle vittime e hanno aggiunto che altri 297 manifestanti e 49 agenti di polizia sarebbero rimasti feriti. A questi dobbiamo aggiungere i 300 del 19 dicembre. I manifestanti chiedono che i militari non svolgano alcun ruolo nell’esecutivo di transizione che dovrebbe portare il Paese verso libere elezioni.
La crisi sudanese fa emergere uno dei principali nodi irrisolti dei sistemi politici di una parte del mondo arabo: il ruolo dell’esercito. Il problema è ben più profondo della semplice mancanza di un controllo civile sull’esercito e tocca gli stessi presupposti fondativi dello Stato. I militari non si limitano a svolgere il ruolo di garanti ultimi della sicurezza, ma hanno cementato la propria centralità politica ed economica all’interno dello Stato, pur non rinunciando a rappresentarsi quale istituzione super partes. In verità i militari “comandano ma non governano”, controllano la situazione civile e soprattutto economica, senza doversi sottomettere al controllo popolare e alla faticosa rincorsa del consenso elettorale. Tanti benefici e pochi incomodi. Può continuare questa situazione in un mondo che vuole sempre più globalizzarsi e trattare alla pari con le potenze occidentali? Il mondo occidentale può permettere ad uno Stato di essere in perenne “rivoluzione” e per di più allevare al suo interno gruppi armati jihadisti, che guardano al mondo occidentale come al proprio peggior nemico?
Mercoledì, 5 gennaio 2022