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Susanna Manzin, Il destino del fuco,
D’Ettoris, Crotone 2014, pp. 120, € 9,90;
Come salmoni in un torrente,
D’Ettoris, Crotone 2016, pp. 152, € 12,90

13 Aprile 2017 - Autore: Chiara Mantovani

Chiara Mantovani, Cristianità n. 384 (2017)

 

Susanna Manzin, Il destino del fuco, D’Ettoris, Crotone 2014, pp. 120, € 9,90; Come salmoni in un torrente, D’Ettoris, Crotone 2016, pp. 152, € 12,90

 

Come ci si sente davanti alla prima pagina bianca del secondo libro che si vuol scrivere? Di sicuro con molte idee, altrimenti non s’immagina nemmeno di scrivere ancora. Forse qualcosa è già appuntato da qualche parte, accantonato come una provvista in dispensa, perché era già un’idea per il primo, ma non vi era posto in quella trama.

Susanna Manzin Araldi, milanese, laureata in giurisprudenza, sposata con un figlio, ha lavorato nel campo della formazione aziendale e manageriale e si occupa del coordinamento organizzativo di eventi, meeting, seminari e convegni. Cura un blog, Pane & Focolare, dedicato al tema dei valori familiari e sociali connessi al mondo della tavola.

Nei suoi due romanzi affronta la sfida di porgere domande e suscitare riflessioni su temi bioetici per chi non ha né tempo né voglia di leggere complessi e corposi manuali. È la vita nascente, per ora, che le sta a cuore, e con ragione. Sono nascoste tante insidie nella barbarie di procedure asettiche, tecnicamente all’avanguardia, per «fare» bambini; eppure sono offerte banalmente insieme alle gite all’estero (e pensare che pochi anni fa provavano appena a venderti una batteria di pentole, se facevi una gita in pullman), pure con prezzi scontati. Non lasciamoci ingannare, il cosiddetto turismo procreatico non è una maledizione causata dall’insipienza degli ottusi, è l’epife­no­meno del business del­l’idea «lo voglio, lo posso, lo faccio». Era il tema drammatico del primo libro della Manzin Il destino del fuco, la sceneggiatura di realtà inevitabili anche se volutamente ignorate. Chi dice ai «donatori» di sperma che saranno padri loro malgrado? Chi ricorda che non avere padre e madre certi e conosciuti causa una angoscia di fondo che si trascina per la vita e che talvolta sconvolge la mente? Chi ammette, nella giostra irresponsabile del «a ogni costo», che i costi umani superano abbondantemente quelli già vertiginosi dei denari in gioco? Eppure vi è una censura su tutto ciò, probabilmente anche per gli interessi enormi che coinvolgono l’ambito della procreazione artificiale. Ancora di più, l’inizio della vita umana oggi è sempre in bilico sul crinale della scelta individuale. Che si tratti di non volere un figlio, o che si decida di esigerlo come un diritto, vi è un fatto, che pure c’entra e ingombra pesantemente e di cui non si parla nemmeno più. Che si tratti di contraccezione (routinaria o di «emergenza») o che riguardi gli «scarti» di produzione dell’uomo, la maggiore, la ormai tacitata, l’innomi­na­bile tragedia è quella dell’aborto. Perfino la Giornata per la Vita, pensata e realizzata da ormai trentanove anni per tenere sveglia l’attenzione su questo dramma — e così aiutare chi dovesse trovarsi a prenderlo in considerazione —, è diventata una festa per i bambini. Quelli nati, però. E ben vengano. Ma gli altri?

Nell’agriturismo di Marianna, scenario anche di Come salmoni in un torrente, si ritrovano due coppie di ospiti, una madre single con una figlia e un padre divorziato con il figlio, e si scopre che entrambi i ragazzi sono nati attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa, da donatore anonimo. È un posto tranquillo, dove insieme ai dilemmi antropologici e alle questioni epocali trovano posto pagine di atmosfera, quasi a suggerire che un po’ di amore per il bello e il buono — in geografia e in culinaria — può aiutare a diminuire l’ansia, a schiarire la ragione, ad aumentare le buone volontà. È una casa, l’agriturismo. E una casa suggerisce l’esistenza di una famiglia. «Siamo ripiombati in una di quelle epoche che al filosofo non chiedono né di spiegare né di trasformare il mondo, ma unicamente di costruire rifugi contro l’inclemenza del tempo» (Nicolás Gómez Dávila [1913-1994], In margine a un testo implicito, trad. it., a cura di Franco Volpi [1952-2009], Adelphi, Milano 2001, p. 28). Una famiglia è un rifugio, dove si può aspettare che il tempo diventi più clemente. Anzi, ci si può impegnare di persona per renderlo clemente.

Normale dunque che anche il secondo atto della riflessione — lieve ma profonda — avvenga sempre lì, con alcuni personaggi che abbiamo iniziato a conoscere e che ritroviamo in Come salmoni in un torrente, che affronta altri temi delicati: la difficoltà dei rapporti all’interno della famiglia, le sfide dell’adolescenza, il dramma dell’aborto e della sindrome post-abortiva, le relazioni sentimentali complicate, fra desiderio di fuga e senso di responsabilità. Fare famiglia o lasciarsi convincere che è una convenzione superata? Soccombere alle tentazioni, quelle che ormai sono considerate «occasioni» innocue per esperienze gratificanti, o saperle riconoscere come ammalianti inganni che producono solo maggior dolore? Sfidare la corrente e risalirla fino alle sorgenti della propria vita o lasciarsi condurre dallo stereotipo che libertà è far quel che piace? Accettare di pagare qualche prezzo di sacrificio, umiliazione, persino di ingiustizia, pur di seguire la coscienza o lasciarsi indurire il cuore dall’alibi del «c’è una legge»?

Personalmente, amo i lieti fini. Confermano la verità, sorreggono la speranza, consolano la volontà. Senza nascondere la difficoltà, perché Militia est vita hominis super terram, et sicut dies mercenarii dies eius (Gb. 7, 1) e dimenticarselo può essere fonte di molti guai. Soprattutto, ricordano che vale sempre la pena di impegnarsi a dire il vero, a mostrare il bello, a realizzare concretamente la bontà.

Chiara Mantovani

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