Da La Stampa del 29/11/2018. Foto da articolo
I taiwanesi hanno detto no ai matrimoni gay. Ai referendum celebrati il 24 novembre, in concomitanza con le elezioni amministrative, una valanga di voti – il 67,26% dei votanti, secondo i risultati ufficiali diffusi dalla Commissione elettorale – ha sbarrato almeno temporaneamente il cammino alla legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Mentre la proposta di limitare la definizione di matrimonio all’unione tra un uomo e una donna, sottoposta a approvazione attraverso un altro dei dieci quesiti referendari su cui si sono espressi i taiwanesi, ha raccolto addirittura il consenso del 72,48% dei votanti.
L’attuale governo taiwanese, guidato dalla presidente Tsai Ing-wen e dal Partito Progressista Democratico (PPD), si era sbilanciato a favore della legalizzazione del matrimonio omosessuale. Già durante la campagna elettorale, prima di arrivare al potere nel gennaio 2016, la candidata presidente aveva scritto sul suo account facebook che «davanti all’amore siamo tutti uguali», mentre il quartier generale del suo staff pullulava bandiere arcobaleno. Il primo disegno di legge per la legalizzazione dei matrimoni omosessuali aveva preso forma nel dicembre 2016. Per questo lo stop inflitto via referendum ai matrimoni gay rappresenta una parte non irrilevante della debacle politica incassata dal governo sabato scorso, quando le elezioni amministrative abbinate ai referendum hanno fatto registrare un forte arretramento dei candidati governativi e l’affermazione del Kuomintang, il Partito nazionalista antagonista dei Progressisti Democratici.
Debacle progressista
Sugli scenari internazionali, l’attuale leadership politica taiwanese aveva scommesso sulla immagine di Taiwan come apripista della modernità occidentale nell’Estremo Oriente asiatico, sintonizzata con gli standard delle democrazie occidentali sia sul terreno della libertà religiosa che su quello delle libertà individuali, compresi i cosiddetti diritti Lgbt. Sui media Usa, la frontiera dei diritti Lgbt veniva presentata da alcuni commentatori come il terreno su cui «Taiwan può competere» con i cinesi della Repubblica Popolare, confermando la propria immagine di «faro della libertà e della democrazia in Asia». Nel maggio 2017 una sentenza della Corte costituzionale della Repubblica di Cina sembrava aver aperto le porte alla piena legalizzazione dei matrimoni tra coppie dello stesso sesso: i giudici dell’Alta Corte avevano definito il divieto ai matrimoni gay come una violazione del «diritto delle persone all’uguaglianza», concedendo ai parlamentari due anni per legiferare in materia. Passati i due anni, sarebbe scattata l’equiparazione giuridica tra matrimoni omo ed eterosessuali, che a detta dei sondaggi godeva dell’appoggio dell’80% dei giovani. Mentre la Chiesa cattolica e le comunità religiose contrarie al riconoscimento dei matrimoni omosessuali venivano descritte sui media come entità oscurantiste, attardate in battaglie di retroguardia.
In campo anche il rappresentante vaticano
I risultati usciti dalle urne hanno travolto le campagne mediatiche pilotate. I pronunciamenti popolari espressi attraverso referendum consultivi non hanno forza vincolante, ma adesso il governo è tenuto a formulare entro maggio 2019 un progetto di legge o proporre misure in linea con il risultato delle consultazioni referendarie (come, ad esempio, configurare come unione civile lo status giuridico per tutelare i diritti delle convivenze stabili tra persone dello stesso sesso, senza equipararlo al matrimonio tra uomo e donna).
Le organizzazioni contrarie al riconoscimento dei matrimoni tra omosessuali avevano presentato ben tre quesiti referendari su questioni attinenti alla stessa materia: un quesito chiedeva di riservare in via esclusiva all’unione tra un uomo e una donna la definizione di matrimonio del codice civile; mentre un altro puntava ad impedire che i corsi di educazione sessuale nelle scuole siano «infiltrati» da nozioni influenzate dalla cosiddetta «teoria del gender».
Il risultato del referendum è stato accolto con soddisfazione dall’Alleanza per la felicità della prossima generazione, cartello che riunisce gruppi religiosi cristiani e buddisti. Prima del referendum, anche esponenti autorevoli della Chiesa cattolica, come l’arcivescovo di Taipei John Hung Shan-chuan, avevano ripetuto che la Dottrina cattolica rispetta gli omosessuali così come sono, ma non può contraddire il disegno di Dio sul matrimonio come unione tra uomo e donna. Lo stesso monsignor Sladan Cosic, incaricato d’affari della Nunziatura apostolica a Taiwan, era intervenuto pubblicamente per chiedere ai cattolici di «rispettare l’insegnamento della Chiesa, mostrare la propria lealtà alla legge canonica e rispettare fedelmente tale legge».
Avviso di sfratto per il governo indipendentista?
Alle elezioni amministrative abbinate ai referendum, che coinvolgevano 19 milioni di elettori, i candidati del Partito Progressista Democratico sono stati travolti dalla “valanga blu” dei voti andati ai rivali del Kuomintang, il Partito nazionalista, oggi all’opposizione. Il PPD ha perso 6 dei 13 centri urbani principali che prima amministrava, compresa Kaoshiung, sua roccaforte storica.
I risultati delle elezioni amministrative rappresentano un termometro degli spostamenti dell’elettorato taiwanese, in vista delle elezioni presidenziali del 2020. La pesante sconfitta ha spinto la presidente Tsai Ing-wen a dimettersi dalla guida del PPD. E può essere letta come un avviso di sfratto per la linea “indipendentista” dell’attuale governo taiwanese, in una stagione politica che ha fatto registrare il ritorno ad una fase di guerra fredda nei rapporti con Pechino. I risultati elettorali potrebbero avere ripercussioni anche nei rapporti tra Taipei e Washington, dopo che l’amministrazione Trump aveva mostrato di voler utilizzare anche la “carta taiwanese” nel braccio di ferro politico-economico in atto tra Usa e Repubblica popolare cinese.
Il pressing sul Vaticano
L’attuale leadership politica taiwanese, oltre a essersi sbilanciata a favore del riconoscimento dei matrimoni omosessuali, si è anche resa protagonista di un insistito e inusuale “pressing” sul Vaticano, prima e dopo l’accordo sulle future nomine dei vescovi cinesi sottoscritto tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese lo scorso 22 settembre. Tale accordo, di ordine pastorale, è stato interpretato dalla dirigenza taiwanese come un passo sulla via dell’avvicinamento diplomatico tra Pechino e Santa Sede, e quindi come un segnale di pericolo per le relazioni diplomatiche che il Vaticano ancora intrattiene con Taipei.
Già lo scorso maggio, anche i vescovi taiwanesi in visita ad limina apostolorum si erano fatti portavoce delle istanze del governo taiwanese nei loro incontri nel palazzi d’Oltetevere . «Ho provato a dire al Papa: Lei può stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, ma non può ferire Taiwan, deve proteggere Taiwan», perché «Taiwan è la parte debole, si può considerare come un orfano nello scenario internazionale» aveva raccontato l’arcivescovo John Hung Shan-chuan in un’intervista rilasciata dopo le visite ad limina a Radio Free Asia, la corporation di trasmissioni radio creata negli anni Cinquanta dagli Usa per realizzare programmi di sensibilizzazione anti-comunista e sostenere la politica statunitense in Asia orientale. Più di recente, l’attivismo taiwanese nei confronti del Vaticano ha avuto come protagonista il vicepresidente Chen Chien-jen, che durante la campagna elettorale aveva attirato l’attenzione dei media anche per la sua appartenenza alla Chiesa cattolica, e che poi ha mantenuto un silenzio prudente rispetto alla linea presidenziale pro-matrimoni gay.
Dopo l’accordo Pechino-Santa Sede sulle future nomine dei vescovi cinesi, Chen è venuto a Roma in occasione della cerimonia di canonizzazione di Paolo VI, di Oscar Arnulfo Romero e di altri cinque Beati (14 ottobre), dopo aver preannunciato sui media taiwanesi la sua trasferta romana presentandola come una missione per rinsadare i legami tra Taiwan e il Vaticano e per invitare Papa Francesco a Taiwan. Dopo la visita, una dichiarazione del direttore della Sala Stampa vaticana Greg Burke ha fatto sapere che «non è allo studio» alcuna visita del Papa a Taiwan . «Alla Cappella papale per la canonizzazione di Papa Paolo VI e di altri sei Beati» ha spiegato Greg Burke «erano presenti diverse delegazioni, tra le quali una di Taiwan, guidata dal vicepresidente, S.E. il Sig. Chen Chien-jen. Prima della Santa Messa, c’è stato un breve saluto di cortesia a Papa Francesco da parte dei capi delle delegazioni, come previsto dal protocollo per simili occasioni. In tale contesto, prettamente religioso, il vicepresidente Chen ha rinnovato al Papa l’invito a visitare Taiwan. Al riguardo, sono in grado di precisare che una tale visita del Santo Padre non è allo studio».
Giovanni Valente