William Lai è il nuovo presidente di Taiwan. Vuole l’indipendenza definitiva dalla Cina. Chi lo difenderà dal comunismo cinese? La “guerra mondiale a pezzi” è sempre più una tragica realtà
di Marco Invernizzi
Il candidato indipendentista ha vinto le elezioni presidenziali a Taiwan, l’isola bella (Formosa) dove nel 1949 si rifugiarono i nazionalisti sconfitti nella guerra civile dalle truppe di Mao.
L’aggettivo indipendentista è fondamentale, perché significa che il suo partito ritiene che l’isola abbia ormai acquisito una propria fisionomia culturale, che la rende qualcosa di diverso dalla Cina e indipendente anche dal punto di vista politico. Al contrario, i nazionalisti del Kuomintang sostengono che Taiwan e la Cina continentale sono un’unica nazione, che deve essere riunificata.
Il Kuomintang auspica una riunificazione nazionalista, mentre i cinesi del continente la vogliono sotto il controllo del partito comunista. Quest’ultimo, purtroppo, è stato l’esito della città di Hong Kong, che ha perso la libertà e oggi si trova sotto ilcontrollo totale della Cina di Xi Jinping.
Tutto questo può sembrare strano. Un partito di sinistra, che si chiama progressista-democratico, è in realtà più anticomunista dell’altro partito, erede dei nazionalisti sconfitti 70 anni fa. La Cina comunista, che preferisce questi ultimi, è un altro passaggio complicato da spiegare, ma così è la realtà.
Che cosa avverrà in futuro?
I nazionalisti hanno il problema di comprendere che a Taiwan non vivono soltanto gli eredi degli sconfitti del 1949 e soprattutto che nel corso di 70 anni è cresciuta una cultura indipendente non soltanto dal comunismo (ovviamente), ma anche dal sentirsi cinesi. Lo spiega in un bel libro Danilo Taino (La guerra promessa. La contesa di Taiwan e il Grande Gioco dell’Indo-Pacifico, Solferino, 2024).
Se anche il Kuomintang si convincerà dell’ipotesi Taiwan indipendente, allora l’isola bella marcerà verso un futuro da Stato indipendente, senza incertezze. Così la Cina sarà costretta a scegliere se invadere o accettare. Peraltro, Xi Jinping ha messo la propria faccia sulla riunificazione e difficilmente rinuncerà al progetto, anche se pure lui non è eterno.
L’altra grande incognita è rappresentata dalla politica estera degli Stati Uniti, soprattutto nel caso di una elezione di Trump: confermeranno l’appoggio a Taiwan? Fino a che punto saranno disposti a esporsi per difendere la libertà dell’isola?
Attorno a tutto questo ragionamento c’è l’ipotesi di una guerra per Taiwan. Sono state avanzate diverse ipotesi militari in caso di un conflitto e questo preoccupa perché, quando si fanno queste previsioni, significa che la guerra è entrata nell’immaginario collettivo come una soluzione possibile, se non probabile.
E in effetti è così. Si parla molto di guerra, sulla scia dell’espressione del Santo Padre di una guerra mondiale combattuta a pezzi. La guerra in Ucraina, quella di Gaza dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, la difesa angloamericana del diritto marittimo contro i ribelli Houti filo-iraniani e tante, troppe altre guerre di cui ci siamo dimenticati.
La guerra è sempre una sconfitta e una tragedia, soprattutto per i più deboli. Ma bisogna anche stare attenti al pacifismo, che non è la soluzione ma il permesso accordato ai più potenti di fare quel che vogliono dei più deboli. L’America ha una responsabilità cui non può sottrarsi in nome dell’egoismo, anche se viene chiamato isolazionismo. E l’ipotesi di una soluzione tramite il conflitto armato diventa sempre più realistica, se nessuno vuole fare rispettare lo ius gentium, cioè il diritto internazionale.
Pio XII diceva il 24 agosto 1939, di fronte al pericolo dell’inizio della seconda guerra mondiale, che poi tragicamente scoppiò: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra».Ripetiamolo anche noi e preghiamo perché non accada un’altra volta.
Lunedì, 15 gennaio 2024