Il 29 marzo il Professor Enrico Giovannini, presidente della Commissione sull’economia sommersa, in audizione presso la Bicamerale di Vigilanza sull’Anagrafe Tributaria, ha comunicato che il tax gap (imposte evase) complessivo (considerando anche i contributi) è risultato in media di 110 miliardi di euro nell’arco temporale 2012-2014. L’evasione d’imposta avrebbe superato, nel 2014, i 111 miliardi e dipenderebbe in primo luogo dall’evasione fiscale dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori, seguiti dalle società di capitali.
I dati di Enrico Giovannini sono stati però contestati dall’Associazione degli Artigiani e delle Piccole Imprese di Mestre (CGIA) che ha rilevato contraddizioni per bocca del coordinatore dell’Ufficio Studi Paolo Zabeo. Infatti, secondo le ultime dichiarazioni dei redditi, i soggetti sottoposti agli studi di settore (autonomi e piccole imprese) sarebbero risultati per il 76% congrui e coerenti e avrebbero dichiarato mediamente 42.000 euro di reddito annuo. Se la loro evasione ammontasse, come si desumerebbe dalla relazione di Giovannini, al 59 per cento dell’evasione totale, autonomi e imprenditori avrebbero guadagnato mediamente più del doppio. Questa situazione, rileva Zabeo, è pressoché impossibile, viste le difficoltà del nostro paese, e aggiunge che, se l’evasione degli autonomi fosse così elevata come sostiene il MEF, non si giustificherebbero i dati dell’Istat sulla povertà delle famiglie degli stessi lavoratori autonomi (http://www.cgiamestre.com/articoli/25055 – 2 aprile 2017).
Il problema è dei più complessi e merita approfondimenti, tuttavia le contestazioni della CGIA di Mestre richiamano alla mente dubbi e interrogativi che economisti ed esperti di finanza pubblica già si ponevano molti anni fa.
Scriveva Antonio Martino nel 1987(!): «Non basta dirsi più ricchi» (La Stampa, 17 febbraio 1987), intendendo affermare che le stime della sommersione economica vengono preferite ai veri rimedi per curare il malessere economico del paese. Infatti «una robusta rivalutazione del reddito nazionale consente di gestire con minore affanno la politica di bilancio. Non solo diventa possibile porsi l’obiettivo di accrescere di qualche punto il prelievo fiscale, ma diventa anche più facile contenere la spesa» (Antonio Pedone, Il tesoro nascosto, in il Mondo, 16 febbraio 1987).
A ciò si deve aggiungere che le stime del sommerso sono da sempre tutt’altro che esatte. Il problema dell’aleatorietà e della possibile arbitrarietà delle stime del PIL sommerso è assai annoso, come già evidenziavano Antonio Martino, nella primavera 1981 (Measuring Italy’s Underground Economy, in Policy Review, 1981, pp. 87-106) e Mario Deaglio nel 1985 (Economia sommersa e analisi economica, Giappichelli, Torino 1985, p. 114), recensito in Quaderni di Cristianità (anno II, n. 4, 1986, pp. 83-88).
Da allora molta letteratura si è aggiunta ma il problema dell’aleatorietà della stima non pare risolto.
Una cosa però è certa: la complessità dei problemi posti dalla finanza pubblica e dalla fiscalità non si risolve con l’alibi del tesoro fiscale sommerso, ma partendo dalla realtà, illuminata dalla dottrina sociale della Chiesa, la quale, tra l’altro, ricorda il requisito della non eccessività della pretesa, affinché la pressione fiscale non sia essa stessa fonte di evasione.
Ma su questo si dovrà ritornare.
Ferdinando Leotta