Marco Invernizzi, Cristianità n. 133 (1986)
Intervista con Zef Margjinaj
Testimonianza sull’Albania
Zef Margjinaj nasce nel 1921 a Bozhiq-Selita, nella Mirdizia, unica regione albanese rimasta interamente cattolica durante la dominazione ottomana. In seguito all’annessione dell’Albania al regno d’Italia si arruola nell’Arma dei Carabinieri e vi presta servizio fino all’8 settembre 1943. Dopo l’armistizio entra volontario nell’esercito delle forze nazionali albanesi e vi rimane fino al 29 novembre 1944, quando si instaura il regime comunista sotto la guida di Enver Hoxha. Pochi mesi dopo, di fronte alle violenze perpetrate dal nuovo regime, decide di unirsi ai combattenti anticomunisti che operano sulle montagne della sua regione d’origine. Vi rimarrà fino al 1952, quando riuscirà a riparare prima in Grecia e poi a Malta per partecipare a un corso di addestramento organizzato dai governi inglese e americano allo scopo di promuovere una missione destabilizzatrice in Albania: è la missione tradita da «Kim» Philby – una spia al servizio dell’unione Sovietica – e definitivamente accantonata dagli Stati promotori dopo l’inizio della guerra per il canale di Suez.
Sposato a Londra nel 1955 a una italiana, Zef Margjinaj riesce a raggiungere la famiglia in Italia da dove, ottenuta non senza difficoltà la cittadinanza, continua ad aiutare i profughi della sua patria e a diffondere informazioni autentiche sulla tragica situazione del popolo albanese oppresso da più di quarant’anni dal totalitarismo comunista. Ha raccolto le sue avventurose e drammatiche memorie in Marcia di un albanese verso la libertà. Autobiografia (La Nuova Base, Udine 1983).
D. Nel volume autobiografico, Lei accenna ad alcuni fra i principali episodi della storia albanese, che è assai poco conosciuta in Italia: per esempio, ricorda che, nel 1911, durante una rivolta contro gli occupanti ottomani, venne innalzata per la prima volta la bandiera rossa e nera con l’aquila bicipite, simbolo della nazione albanese.
R. Sì, accadde sul monte Deçiç durante una rivolta contro i turchi guidata dall’eroe nazionale Ded Gjon Luli. I turchi riusciranno a sedare questa prima sommossa, costringendo Gjon Luli e i suoi guerrieri a rifugiarsi nel vicino Montenegro, ma un anno dopo l’insurrezione si estenderà a tutta l’Albania fino a quando, il 28 novembre 1912, a Valona, verrà proclamata l’indipendenza della nazione dall’impero ottomano, sotto la guida di Ismail Qemali.
D. Questo episodio mi porta inevitabilmente a chiederle del maggior eroe albanese, Gjergj Kastrioti Skenderbeg, che combattè contro gli ottomani, nel secolo XV, a capo di tutti i principi albanesi, diventando simbolo dell’unità dell’Albania.
R. Gjergj Kastrioti era l’ultimo dei quattro figli del principe Gjon Kastrioti, di Kruja. Nel 1423 vennero tutti presi dai turchi e Gjergj fu l’unico a sopravvivere perché, data la sua giovane età, venne adottato ed educato da Mehemed Pasha, che pensava di riuscire a fargli dimenticare le sue origini cattoliche e albanesi. Gjergj Kastrioti diventò così un grande generale della cavalleria ottomana, ma nel 1443 – dopo la sconfitta patita dai turchi nella battaglia di Nish a opera dell’eroe ungherese Giovanni Hunyadi -, grazie ad alcuni connazionali, riscoprì le sue origini e allora decise di ritornare a Kruja, nella sua regione natale. Qui fonderà la Lega dei Popoli Albanesi, alla quale aderiranno i principali capi della nazione, con la cui collaborazione sconfiggerà ripetutamente i turchi fino alla morte, avvenuta a Lezh – Alessio – nel 1467, in seguito a una malattia. Grazie alle sue gesta, l’Albania conoscerà un periodo di unità e di solidarietà nazionale: da qui la venerazione che il popolo continua a riservargli.
D. Veniamo alla sua storia e a quella contemporanea della sua nazione. Dopo l’instaurazione del regime comunista, Lei ha combattuto nella clandestinità per circa otto anni, nelle file della Resistenza anticomunista: a tanto tempo di distanza, ritiene che, in un determinato momento, vi sia stata qualche possibilità di vittoria per la Resistenza?
R. Quando gli albanesi si resero conto che la loro nazione era caduta sotto un regime totalitario, allora cominciarono a ingrossare le file della Resistenza anticomunista, soprattutto nel Nord del paese; proprio nella Mirdizia si organizzò una forte Resistenza guidata da Mark Gjmarkaj, discendente della famiglia che aveva sempre retto il principato della Mirdizia, la regione rimasta interamente fedele alla Chiesa cattolica anche durante i secoli dell’occupazione ottomana. La resistenza anticomunista continuava in tutte le regioni dell’Albania settentrionale: ma in certe zone venne soffocata prima, mentre nella mia regione è continuata più a lungo e con maggiori perdite di vite umane. La Resistenza operò nella clandestinità, senza riuscire ad avere alcun rapporto con le nazioni occidentali, fino a quando cominciarono le missioni in Albania dei paracadutisti mandati dal governo inglese e da quello americano. Essa doveva combattere contro un esercito numeroso e molto organizzato, che poteva utilizzare le armi, le munizioni e l’equipaggiamento forniti dagli inglesi nel periodo della lotta partigiana contro l’esercito della Germania nazionalsocialista: voglio far notare che a quei tempi gli inglesi fornirono con abbondanza di mezzi i partigiani comunisti, mentre non fecero altrettanto con i combattenti dei due movimenti nazionalisti, che pure lottavano contro gli occupanti nazionalsocialisti, cioè il movimento monarchico Legaliteti e quello repubblicano di tendenze socialdemocratiche Balli Kombëtar.
I combattenti anticomunisti ricevettero dagli inglesi materiale inutilizzabile, armi di un calibro e munizioni di un altro, scarpe per il piede destro o soltanto per quello sinistro: in pratica, un sabotaggio totale.
Un altro motivo per cui la Resistenza anticomunista non riuscì a prevalere dopo la seconda guerra mondiale consiste nel massiccio e decisivo appoggio militare, politico e organizzativo che il governo comunista albanese ricevette dalla Jugoslavia di Tito e dall’unione Sovietica di Stalin.
Poi – dopo il fallimento delle missioni dei paracadutisti tradite dalla spia al servizio dei sovietici «Kim» Philby – l’Albania è stata dimenticata dall’Occidente. Se oggi si chiede a un giovane dove sia situato geograficamente il mio paese, forse rimarrà imbarazzato e difficilmente saprà rispondervi esattamente.
Ho qui davanti a me la fotocopia di una lettera inviata da un movimento di opinione, che riunisce gli anticomunisti albanesi di tutte le tendenze, al segretario generale delle Nazioni Unite, a tutti i governi e ai partiti non marxisti, alle organizzazioni sindacali e alla stampa: vi si descrive la violazione dei diritti e delle libertà fondamentali in Albania, e si chiede all’ONU di istituire una commissione di controllo che possa entrare nel paese, tenendo anche conto del fatto che il governo albanese è regolarmente rappresentato alle Nazioni Unite. Questa lettera – inviata il 30 ottobre 1985, in occasione dell’Assemblea Generale – non ha ricevuto nessuna risposta né ufficiale né ufficiosa; da parte sua la Croce Rossa – a cui pure era stata inviata – ha dichiarato di non poter intervenire, non essendovi un conflitto in corso.
D. Ha accennato al fatto che è stata la sua regione d’origine, la Mirdizia, a esprimere la maggiore resistenza contro il regime comunista. Per quali motivi?
R. Soprattutto perché la mia regione è sempre rimasta cattolica. Con questo non voglio diminuire il merito della Resistenza delle altre regioni, ma la più forte è sempre stata quella sostenuta dalla Chiesa e dai cattolici.
L’ultimo drammatico esempio della persecuzione anticattolica si è verificato nel 1973, in un campo di concentramento, quando il sacerdote don Stefano Kurti è stato fucilato per aver battezzato un bambino: le sue ultime parole, pronunciate durante il processo e riportate da alcuni profughi fuggiti dopo la sua esecuzione, sono state: «Ho fatto il mio dovere davanti a Dio, adesso fate la vostra parte».
Oggi, dopo che – con la Costituzione del 1976 – l’Albania è diventata il primo Stato ufficialmente ateo, ritengo che nella mia patria non sia rimasto nessun sacerdote cattolico.
Ma è stato affermato che la fede in Dio è più forte che mai ed è l’unica forza morale.
D. Quale importanza hanno la fede e la speranza in un combattente braccato per anni dalla polizia di un regime totalitario?
R. Hanno un’importanza fondamentale. Ho avuto modo di sperimentarlo molto spesso, come ho testimoniato nella mia autobiografia: un uomo senza fede è un morto che cammina!
D. La fuga dei fratelli Popa nell’ambasciata italiana di Tirana è un episodio isolato, oppure molti altri albanesi tentano di fuggire dal loro paese?
R. Per voi è stato un campanello d’allarme, ma oltre 30 mila persone sono fuggite dall’Albania da quando i comunisti sono andati al potere; e sono molte di più se si tiene conto dei 70 mila morti in carcere o sotto le torture, e degli attuali 150 mila detenuti, di cui 12 mila per motivi politici e d’opinione.
D. Attualmente esiste una Resistenza attiva all’interno del paese?
R. La Resistenza esiste, ma è muta perché il sistema marxista è spietato. La polizia segreta, la Sigurimi, usa il sistema della delazione e del controllo dei genitori da parte dei figli ancora giovanissimi, facendo credere a questi ultimi che il partito è la cosa più importante della vita, oppure facendo controllare i genitori fra loro, sempre all’insaputa l’uno dell’altro. Così lo Stato entra nella famiglia disintegrando la serenità dei rapporti.
D. Che effetto provoca su di Lei, sui profughi albanesi e, in genere, su coloro che combattono il totalitarismo comunista in Albania, un discorso come quello con cui recentemente il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan si è rivolto ai «combattenti per la libertà» di tutto il mondo, promettendo di aiutarli?
R. Magari fosse vero! In questo caso, gli Stati Uniti farebbero il proprio dovere di difensori della libertà nel mondo, e particolarmente nell’Albania dimenticata da tutti e calpestata da una tirannide spietata e crudele Mai conosciuta dall’uomo.
D. Qual è la situazione politica attuale e come vive la popolazione?
R. Il potere è tenuto da Ramiz Alja, il successore del defunto despota Enver Hoxha, ma i veri padroni del paese sono la vedova di Hoxha, Naxhmije, e i suoi due figli, l’ingegner Ilir – direttore dell’Istituto di Progettazione – e Sokol – direttore delle Poste e Telecomunicazioni -, che guidano direttamente la polizia segreta.
Gli uomini con meno di trentacinque anni sono tutti contrari al regime e al sistema ideologico marxista: gli studenti hanno cominciato a manifestare contro il regime dopo la morte di Enver Hoxha. Secondo informazioni attendibili, l’85 per cento della popolazione sarebbe contraria al regime totalitario. L’esercito sopporta faticosamente la disciplina molto dura e, inoltre, i militari lamentano la scarsità del vestiario e l’alimentazione insufficiente.
La nazione è economicamente allo sfascio in quanto cibi, abbigliamento e altri generi di prima necessità sono razionati, e molti di essi non si trovano addirittura.
La paga di un operaio dell’industria si aggira attorno ai 400 lek; si pensi che un paio di scarpe scadenti costa 90 lek e le migliori dai 210 ai 230 lek. Un abito maschile discreto costa dai 500 ai 600 lek, una camicia 80 e una bicicletta 900 lek. Per l’operaio agricolo della pianura la situazione è ancora peggiore. Una famiglia agricola composta da otto persone ha diritto soltanto a due chili e mezzo di carne ogni due mesi, mentre ogni cittadino può avere un chilo di formaggio stagionato al mese e soltanto tre chili di fagioli all’anno. Un operaio agricolo di montagna riceve un compenso pari a tre lek al giorno, ma anche questi soldi non ci sono sempre. perché le cooperative sono in deficit. Un ingegnere percepisce dai 700 agli 800 lek al mese, una retribuzione fra le più alte, ma insufficiente per comperare una bicicletta.
Insomma, il regime si regge sul terrore imposto dal partito e dalla polizia segreta, che – insieme – costituiscono dal 10 al 15 per cento della popolazione.
a cura di Marco Invernizzi