Gonzague de Reynold (1880-1970), Cristianità n. 415 (2022)
Traduzione di L’Europe contre la fatalité, in Hommes et mondes. Revue mensuelle, anno VI, n. 56, marzo 1951, pp. 317-330, già apparsa in Cultura & Identità (anno XIV, nuova serie, n. 35, 12 aprile 2022, pp. 21-28).
Noi viviamo tutti nell’inquietudine. Questa condizione data da così a lungo che è diventata uno stato d’animo normale. Tuttavia, se invece di «agitarsi» si vuole «agire», bisogna sforzarsi di dominarla. E vi è solo un modo per farlo: applicare a questa inquietudine il metodo storico.
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Bisogna ricuperare la nozione tradizionale di storia e domandarle quello che tutti i grandi spiriti — da [Marco Tullio] Cicerone [106-43 a.C.] a Tommaso di Aquino [O.P., 1225-1274], da [mons. Jacques Bénigne] Bossuet [1627-1704] a [Jules] Michelet [1798-1874], fino allo scientismo e al determinismo del secolo XIX, fino all’abuso di erudizione e alla specializzazione a oltranza del secolo XX — le hanno domandato, e cioè di insegnare agli uomini a vivere in società. Bisogna tornare a vedere la storia come quella grande esperienza che deve servire a educare i popoli e i re, come si diceva una volta: questo ci vuole per la nostra inquietudine.
Noi vogliamo sapere dove stiamo andando. Ma, per saperlo, dobbiamo prima di tutto sapere da dove veniamo. Ora, come sapere da dove veniamo e dove stiamo andando se non siamo in grado di elevarci al di sopra degli eventi contemporanei, al di sopra della storia, fino al punto da dove si vedono emergere le grandi linee di forza che, scaturite dalle origini, spingono il passato sul presente e li trascinano entrambi, seguendo delle direzioni costanti, nell’avvenire? Ci è impossibile dire quale sarà questo avvenire; d’altro canto, però, ci è possibile illuminarne almeno i contorni. Non si tratta di giocare a fare i profeti, ma di appellarsi alla ragione. Poiché, dice san Tommaso, «[…] predire il futuro, e predirlo basandosi sia sulla conoscenza del presente sia sull’esperienza del passato, è proprietà della ragione» (1). Così si può dire della storia sintetica, a sua volta coronamento della storia analitica. Noi entriamo in un’epoca di ricostruzione. Tuttavia, nessuna ricostruzione, nell’ordine dei fatti, sarà salda e duratura, addirittura non sarà nemmeno possibile, se non si fonderà su una sintesi nell’ordine dello spirito.
E noi stessi che cosa guadagniamo moralmente nel fare queste sintesi? Esse sono per il nostro spirito, per le nostre anime, una «purificazione dei costumi», analoga a quella che gli antichi e i classici affidavano alla tragedia. Gli eventi che si sono succeduti dopo il 1914, la situazione che hanno creato, ci hanno posto fra tali contraddizioni e tali impossibilità — impossibilità del passato, impossibilità dell’avvenire — che potremmo disperare dell’uomo se non arrivassimo a immaginarci di essere in presenza di un grande fenomeno storico. Lo sforzo che esso esige da noi per dominarlo e per comprenderlo trova la sua ricompensa in una virtù il cui solo nome evoca la calma e la luce: la serenità.
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Il destino dell’Europa è per noi un problema impossibile da risolvere, ma siamo in grado di porlo adeguatamente. A una condizione, comunque: gli avvenimenti recenti non bastano a spiegare sé stessi e dobbiamo cercare la loro origine, la loro spiegazione, assai indietro nel tempo. E ciò m’imporrà semplificazioni e scorciatoie che, in anticipo, mi creano dei rimorsi. Tuttavia, pongo ugualmente il problema dell’Europa. Esso ha come presupposto cinque dati: a) lo sviluppo della storia europea, b) la situazione geografica dell’Europa nel mondo, c) il suo posto e il suo ruolo nella storia mondiale, d) l’andamento della civiltà, ed e) la minaccia della barbarie. Ciascuno di questi dati contiene una linea di forza, la cui curva traccerò brevemente. Dopodiché cercherò di concludere.
Dunque, il primo dato è lo sviluppo storico dell’Europa così come del mondo mediterraneo che l’ha preceduta, preparata e da cui è inseparabile, come possiamo vedere oggi.
Ed è uno sviluppo scandito da epoche. Un’epoca è una durata posta fra due cambiamenti, il primo l’apre, il secondo la chiude. Per designare questi due mutamenti, la porta d’ingresso e la porta di uscita, è naturale che scegliamo quegli eventi che li manifestano con la maggior evidenza, di cui sono i «precipitatori», quegli eventi che Bossuet, nel suo Discorso sulla storia universale,dice appunto che «fanno epoca» (2). Tale è la portata degli eventi di cui siamo stati, siamo e saremo testimoni.
Ma un’epoca è ancora la durata di una civiltà e, di conseguenza, della società che l’ha prodotta. Infine, ogni civiltà e ogni società hanno per motore una certa idea dell’uomo e del destino umano. Un’epoca non è per niente immobile. All’interno del suo sviluppo passa per trasformazioni successive: ha una giovinezza, una maturità, una vecchiaia con, alla fine, la morte. Le comunità umane vivono, per analogia, allo stesso modo dell’uomo, fra una culla e una tomba.
Ma di quale tomba si tratta?
Quando un’epoca ha esaurito il suo principio vitale, quando il suo durare non è più realmente vissuto, quando è già stata lavorata, disgregata dalla nuova epoca che si sta formando al suo interno e che le toglie sostanza, si produce una rivoluzione nel senso originario del termine, cioè un ritorno al punto di partenza, una chiusura del ciclo. L’epoca cade allora al fondo di un periodo vuoto, dove si dissolve. La società si disgrega, i popoli si sradicano e si rimettono in moto, la curva della civiltà si flette e riappare la barbarie.
Nel mentre, sebbene con grande incertezza e dolore e lentezza, con anticipi e arretramenti, con convalescenze e ricadute, dal periodo vuoto, alla fine, esce un’altra epoca. Non conosce ancora il suo nome: gli storici gliene daranno uno più tardi, e non sarà sempre quello giusto. Avrà gli occhi chiusi per molto tempo a venire. Ci vorranno diverse generazioni prima che finalmente esca dal cratere e dalla lava e prenda il suo ritmo. Ma, finché la nuova società non sarà in grado di formarsi e di stabilizzarsi, non saprà prodursi alcuna fioritura di una nuova forma di civiltà.
Per concretizzare ciò che vi è di è astratto, per animare ciò che vi è di schematico in questa mia esposizione, mi servirò di una immagine. Paragonerò lo sviluppo per epoche e periodi vuoti della storia europea a una lunga catena di montagne, una catena interrotta da depressioni ripide e profonde. E ogni segmento di questa cordigliera cade fra due di queste depressioni. Risale lentamente dall’uno per cadere nell’altro. Una sommità li domina, brillante come un ghiacciaio al sole: ma su una vetta vi è poco spazio e non vi si può restare a lungo.
La suddivisione dello sviluppo storico dell’Europa che adotto ha, come tutte le altre, l’inconveniente di essere arbitraria e relativa. Il corso della storia è uno e indivisibile. Ma, siccome è impossibile per noi coglierlo nella sua totalità, dobbiamo ridurci a condividerlo secondo una misura abbastanza elastica da adattarsi ai suoi meandri. Fatta questa osservazione, mi limiterò ora a fare emergere i caratteri dell’ultima epoca, quella che è precipitata in un periodo vuoto dal quale non siamo ancora usciti.
Tengo a precisarlo di nuovo: ogni epoca è la durata di una civiltà e, di conseguenza, della società che l’ha prodotta. Ma ogni società riposa su una certa idea dell’uomo e del destino umano. Ora, due epoche hanno avuto una idea chiara e ripetute volte formulata dell’uomo e della vita: la penultima e l’ultima, cioè la quarta e la quinta. La quarta, quella della cristianità, ne aveva, come indica il nome, una idea religiosa: l’uomo era legato a Dio e attraverso Dio a tutti gli altri uomini; la vita terrena era solo un passaggio dalla città degli uomini alla città di Dio; il mondo doveva essere ordinato in modo tale che tutto, direttamente o indirettamente, servisse alla salvezza delle anime. Vi si riconosceva la dottrina che sant’[Aurelio] Agostino [d’Ippona, 354-430] aveva lasciato in eredità nel Medioevo e di cui Carlo Magno [742-814] si era nutrito.
Ma l’epoca successiva, nella sua crescente opposizione a quella della cristianità, fece dell’uomo stesso il proprio fine e la ragione di tutte le cose: significava tornare ai sofisti greci, a Protagora [490-415/411] e al suo individualismo. E subito il dramma ha avuto inizio.
Esiste una tipologia di europeo: il suo carattere essenziale è di essere una persona. La Grecia lo aveva già liberato dalla massa anonima, il che voleva dire liberarlo dall’Asia. La Grecia fece di lui l’uomo della città e i barbari l’uomo della tribù, trasmettendogli così, attraverso due vie parallele, la coscienza di una libertà che non era affatto una rivendicazione rivoluzionaria, bensì uno statuto politico e sociale: Aristotele [384/383-322 a.C.] non scrisse forse che questa coscienza era il legame che avvicinava gli elleni ai barbari e li contrapponeva entrambi agli asiatici (3)? Il cristianesimo finì di scolpire la figura dell’europeo conferendo al suo tipo umano un valore universale. La persona umana, secondo la dottrina cristiana, è quindi tanto libera quanto legata; in quanto liberamente legata a Dio, lo è anche agli altri uomini, in quei gruppi sempre più estesi, che formano intorno a essa la famiglia, la città, la nazione e, infine, la cristianità. Ma allora la cristianità era l’Europa e vi fu una Europa solo fintantoché vi fu una cristianità.
Ora, all’ingresso nell’epoca dell’uomo, l’europeo ha cominciato a prendere questi legami religiosi, naturali e storici come altrettante catene e a infrangerli. Non vedeva, non poteva ancora vedere che questi legami erano degli ammortizzatori fra lui e la collettività più assorbente e assoluta: lo Stato. Eppure, è suonata un’ora in cui l’uomo si è reso conto che la sua libertà era solo un isolamento, che invece di essere una persona non era altro che un individuo, una semplice e povera unità, tutta sola davanti allo Stato come un granello di polvere davanti a un aspiratore. Il mondo contemporaneo ci fa assistere, in effetti, a questo duplice fenomeno: la crescita dello Stato e la diminuzione dell’uomo. Perché lo Stato, francamente o ipocritamente, è sempre totalitario. È perfino costretto a esserlo: quando una società è scomparsa, lo Stato cerca di sostituirla con un’organizzazione che deriva da esso e a esso rimanda. Quindi all’uomo non resta che suicidarsi nel collettivo, nella massa, con l’illusione, già perduta, di scambiare libertà con sicurezza. E ora dobbiamo per forza cominciare da capo quello che avevano fatto i greci e quello che aveva realizzato il cristianesimo: liberare l’uomo dalla massa. A questa condizione avremo ancora di nuovo un europeo e una società europea.
Dopo aver mostrato come l’europeo si è perduto, vorrei mostrare come l’Europa stessa si è perduta.
I caratteri storici dell’epoca dell’uomo sono solo le manifestazioni esterne della sua crisi interna. Inserita fra la rivoluzione religiosa che apre il secolo XVIe la rivoluzione politico-sociale che conclude il XVIII, l’epoca dell’uomo ci appare come una continua rivoluzione. Infatti, se prendiamo la storia dell’Europa, e non solo quella della Francia, possiamo provare che gli ultimi sconvolgimenti causati dalla rottura dell’unità religiosa si legano, tra la fine del secolo XVIIe l’inizio del XVIII, agli sconvolgimenti che precorrono la rivoluzione politica e sociale. Ma se l’epoca dell’uomo è una rivoluzione protratta, è anche una guerra continua. Il secoloXVI non ha contato un solo anno di pace; il XVIII,nonostante i suoi sforzi per umanizzare la guerra, dal 1700 al 1800 non ne ha contato nemmeno venti. Non sorprende quindi che dalle guerre di religione agli eventi attuali constatiamo una crescente accelerazione della storia. Essa aveva già colpito Michelet e Daniel Halévy [1872-1962] ne ha fatto oggetto di un libro su cui meditare. Finalmente, a partire dal secolo XVIII, non vi è più Europa, vi sono solo delle nazioni, come diceva Albert Sorel [1842-1906].
Quale conclusione possiamo trarre dal primo dato, lo sviluppo della storia europea? Questo sviluppo per epoche e periodi vuoti ci permette di fissare sulle grandi linee di forza della storia gli eventi a cui assistiamo. La quinta epoca, quella dell’uomo, sta per concludersi. Noi siamo nel periodo vuoto che la separa da un’altra epoca di cui non si saprebbe dire senza imprudenza storica quale sarà. Quanto all’Europa, la nostra missione è ricostruirla nel suo quadro geografico, con tutte le sue parti essenziali. Questa ricostruzione sarà la culla della nuova epoca. E ciò significa riconoscere che l’Europa si trova ancora una volta di fronte al suo destino.
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Il secondo dato del problema è la posizione geografica dell’Europa nel mondo. Questa situazione rivela punti di forza e punti di debolezza.
Innanzitutto, i punti di forza. Grazie al suo carattere marittimo, alla penetrazione dell’oceano e del Mediterraneo all’interno della terra, alla cooperazione della montagna e del mare, finalmente grazie al suo clima, l’Europa è la terra dell’uomo, l’ambiente più favorevole alla vita umana e, di conseguenza, allo sbocciare di una civiltà superiore, l’unica che, grazie questa volta all’idea cristiana, si sia dimostrata capace di universalità. Poiché è la terra dell’uomo, l’Europa è il luogo della storia e ha prodotto questa civiltà che è il luogo dello spirito. Fisicamente, l’Europa, l’unica parte del mondo che possiamo definire articolata, sembra già un’opera dell’intelligenza piuttosto che della natura. Il geografo Auguste Himly [1823-1906] non vedeva forse in lei «il capolavoro artistico della creazione»? (4). Sul planisfero che evoco davanti ai vostri occhi, la nostra piccola Europa, fatta di nervi piuttosto che di muscoli, sembra vivere e muoversi, mentre gli altri continenti hanno un aspetto pesante e immobile: sono masse, mentre l’Europa è un corpo. Gli antichi geografi, che erano degli artisti, degli immaginativi, ne ebbero l’intuizione quando dettero all’Europa una forma umana: quella della Vergine, la Vergine cristiana che ha concepito dallo spirito. Aveva la Spagna per testa, la Francia per cuore, la Gran Bretagna e l’Italia per braccia e mani, il Reno per cintura, la Germania come gonna e i suoi piedi, nascosti da un lungo strascico dalle pieghe ondeggianti, schiacciavano un enorme drago, minaccioso e raccolto su di sé: l’Asia.
Dopo i punti di forza, le debolezze.
L’Europa, che non è altro che una penisola, si trova stretta fra masse continentali che minacciano ininterrottamente di schiacciarla. La più pesante che grava su di essa è l’Asia ed è stato proprio il suo peso a costringerla a uscire da sé stessa fino a esaurirsi.
L’Europa è la parte del mondo che unisce e rinserra in uno spazio assai ristretto un gran numero di popoli diversi. E questo la condanna alla guerra e all’emigrazione. Fin dall’inizio l’Europa ha dovuto lottare per la vita con un’intensità che non si registra da nessun’altra parte, ma che è un’ulteriore causa di esaurimento. Una delle costanti del genio europeo è il duello dell’uomo contro il destino, cioè l’opposto della fatalità orientale. L’europeo è il guerriero, il cavaliere che si batte sino alla fine. Se si arrende, si accorge che l’Europa è piccola, che è solo una penisola dell’Asia.
Pertanto, la conclusione da trarre da questo secondo dato è positiva: se l’Europa ha perso l’unità politica, essa possiede l’unità geografica. È ricca di privilegi naturali che non possono esserle tolti: se il terreno è ancora lì, allora è possibile riedificarvi la casa.
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Quali sono ora il posto e il ruolo dell’Europa nella storia del mondo? È questo il terzo dato del problema.
Ricominciamo dalla geografia, da questa natura delle cose, come dice Ferdinand Lot [1866-1952]: «Di tutte le parti in cui è diviso il mondo, l’Europa è dunque la più marittima, quella che possiede, in proporzione, il maggior sviluppo costiero. La nostra penisola si divide in due zone: quella oceanica e quella mediterranea. Essa si prolunga altresì fra due mari, uno aperto, l’altro chiuso. Ora, qualsiasi mare chiuso è un ambiente di relazioni e scambi, un bacino fertile di civiltà. Ciò che è peculiare dell’Europa è che le acque penetrano così profondamente nella terra che nessun luogo si trova a essere lontano da esse. Questo carattere marittimo è l’origine naturale di due costanti europee. La prima è lo sforzo che questa penisola asiatica dall’inizio della sua storia non ha mai smesso di fare per sfuggire all’Asia, alla quale oppone la difesa delle montagne e l’offensiva dei mari. Il secondo è la necessità per l’Europa di proiettarsi sul globo attraverso gli oceani. Là sta l’origine naturale della linea di forza che un po’ alla volta ha trasformato la storia europea in storia mondiale».
Prima di essere mondiale, la storia fu quella del Mondo Antico. Le tre parti che lo compongono, Europa, Asia e Africa, sono unite attorno al Mediterraneo, questo primo ambiente di relazioni e scambi. Ma l’Asia è grande da sola quanto l’Africa e l’Europa messe insieme; l’Egitto e il Nord Africa si limitano a prolungarla. La storia del Mondo Antico è quindi quella dei rapporti fra l’Europa e l’Asia: scambi e conflitti, spinte asiatiche sull’Europa, contro-spinte europee sull’Asia.
Ma una distinzione s’impone. Dal punto di vista geografico l’Europa è, lo ripeto, solo una delle penisole, uno dei comparti dell’Asia. Con quelle dell’Asia anteriore, delle Indie e dell’Estremo Oriente, forma una zona di civilizzazione, le cui componenti, nell’XIe nel XIIsecolo, hanno raggiunto insieme un livello superiore. Ma a nord, schiacciando quest’area di civilizzazione con la sua massa, si estende l’area della barbarie: l’Asia centrale e l’Asia settentrionale. Questi due comparti, uniti fra loro, possiedono in comune la via della steppa che dalla Mongolia porta in Europa. Contro questa Asia l’Europa ha sempre dovuto difendere sé stessa e, nello stesso tempo, l’intera zona della civiltà. La zona della barbarie è infatti solo una immensa prigione fra montagne e ghiacci, senza alcuna apertura verso i mari liberi e caldi. Da qui sono nati gli sforzi che essa periodicamente tenta per sfuggire e che la gettano a volte in Persia, a volte in Estremo Oriente, a volte su di noi. Questo concatenamento di spinte è stato una linea di forza della nostra storia fin dalle guerre persiane.
Le crociate insegnano come le spinte asiatiche hanno respinto gli europei verso l’oceano e hanno fatto di noi gli scopritori del Nuovo Mondo. Anch’esse erano state un tentativo dei popoli cristiani di prendere respiro verso est e di riprendere il controllo del Mediterraneo, garantendosi il possesso della sua sponda orientale. Alla fine, esse hanno fallito. Nacque allora l’idea di prendere l’Asia alle spalle seguendo una rotta nuova: quella delle Indie. Quando i portoghesi la intrapresero, non obbedivano solo a una necessità economica, ma a una missione religiosa, un «Dio lo vuole»: riconquistare il Santo Sepolcro giungendovi dalla parte opposta. Lo rivelano la vita di Enrico [il Navigatore, Infante del Portogallo, 1394-1460] il Santo, il trascinatore dei portoghesi, e quella di Cristoforo Colombo [1451-1506] il quasi santo, il trascinatore degli spagnoli.
Il Nuovo Mondo è il contrappeso di cui l’Europa aveva bisogno per non precipitare sull’Asia e di cui ha bisogno più che mai al giorno d’oggi. Quando l’Europa venne ad aggiungere al suo sistema di relazioni con il Mondo Antico un sistema di relazioni con il Nuovo, la storia, pur conservando sempre il suo centro generatore nella nostra penisola, cominciò a diventare mondiale. Ma la data in cui la è diventata effettivamente è assai recente. L’anno 1917 ha visto per la prima volta gli Stati Uniti, che già erano una grande potenza, intervenire in un conflitto europeo, cambiandone la natura. Fino allo sbarco degli americani in Francia si era parlato solo di guerra europea: a partire da questo sbarco si parlerà solo di guerra mondiale.
In conclusione, la missione dell’Europa è stata di creare il sistema delle relazioni mondiali. Questa missione è al giorno d’oggi compiuta. Da questo punto di vista, il destino dell’Europa è chiaro: essa non dipende più solo da sé stessa.
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Questa conclusione relativa al terzo dato del problema ci conduce al quarto dato: il cammino della civiltà.
Partendo dall’epoca e dai luoghi in cui per la prima volta una civiltà s’invera, la storia del mondo si è svolta a cerchi concentrici fino a coprire l’intero planisfero. Civiltà: questa parola, ancora recente nel francese, poiché compare solo alla fine del secolo XVIII, possiedeuna etimologia: viene da «città». A sua volta, la città evoca una società stabile, un governo organizzato e un’arte monumentale, l’arte della pietra. Ma la civiltà, ricondotta a queste tre immagini, la società, lo Stato, l’architettura, è relativamente recente. Se si ammette che l’uomo è presente sulla terra da qualche centinaio di migliaia di anni, forse un milione, la civiltà ha appena poco più di sei-settemila anni. Sarebbe dunque un’apparizione isolata che i suoi progressi scientifici potrebbero distruggere? In questo caso ricomincerebbe la preistoria.
Il cammino della civiltà e l’estensione della storia vanno da est a ovest. Eccone le grandi tappe: dall’Asia anteriore alla Grecia, dalla Grecia all’impero romano, dall’impero romano all’Europa, dall’Europa all’America. È un percorso che ha per direzione il mare. L’Asia anteriore si anima e ci regala la prima visione di un mondo articolato, fondato su una idea universale solo dal momento in cui essa si installa sul Mediterraneo orientale e sul Mar Egeo. La Grecia, nazione di navigatori e di colonizzatori, costruisce l’unità economica del Mediterraneo. L’impero romano ne edifica l’unità politica, insediandosi sulla sponda oceanica d’Europa, che inizia a sviluppare. Il mondo nordico, i germani di mare, sono i primi a tentare la via dell’oceano con gli scali creati in Islanda e in Groenlandia e a scendere fino lungo la costa americana. Infine, toccherà all’Europa dominare gli oceani e imporre la sua egemonia al globo.
Ciò che rende possibile questo cammino della civiltà è la trasmissione delle eredità. La civiltà dell’Asia anteriore ebbe come erede la Grecia, la civiltà greca l’impero romano. La civiltà greco-latinache l’imperium aveva propagato nell’Europa centrale e occidentale e la cultura del mondo nordico ebbero come erede l’Europa cristiana. Qui nasce la domanda: oggi, l’erede dell’Europa sarebbe l’America? Qualunque cosa accada, è certo che la civiltà si fermerebbe il giorno in cui non ci fosse più un popolo abbastanza fresco, abbastanza vigoroso, abbastanza virile da riprenderla sulle spalle e portarla oltre. La conclusione è che, se è vero che l’Europa ha perso la direzione della storia e deve rinunciare a esercitare la sua egemonia sul globo, la sua missione educatrice e civilizzatrice rimane. Così come essa è ancora la terra dell’uomo, è ancora il luogo dello spirito.
Ogni civiltà va incontro a due rischi: per eccesso, quello della decadenza e, per difetto, quello della barbarie. La minaccia della barbarie è dunque il quinto e il più importante dato del problema.
La barbarie è una condizione sociale che si colloca al di sotto della civiltà, ma, comunque, al di sopra della selvaticità e della primitività. Il barbaro può ben essere il civilizzato di ieri così come il civilizzato di domani. Ogni civiltà racchiude potenzialmente in sé la barbarie. Il pericolo delle decadenze, per quanto raffinate possano essere, è quello di unire al loro punto di caduta la barbarie. In ogni decadenza, infatti, troviamo una stanchezza dell’intelligenza, il disgusto di una civiltà troppo ricca e troppo vecchia insieme. Questa stanchezza e questo disgusto si manifestano nella nostalgia per ciò che è barbaro, selvaggio, primitivo: per esempio, il culto del buon selvaggio nel secolo XVIII,per evitare ogni riferimento ainostri contemporanei. In questo gioco, nelle arti si perdono il mestiere e la tecnica, nel pensiero il buon senso e la ragione. Si cade nell’irrazionale, nell’emotivo e nell’intuitivo. Così, e per altre cause ancora, fra i civilizzati si forma dal di dentro una barbarie che tende a unirsi alla barbarie esterna. Perché il barbaro esterno mostra evidenti superiorità sul troppo vecchio civilizzato: la forza militare, la capacità di organizzazione e di lavoro, il genio dell’invenzione pratica, lo spirito di offensiva e di conquista. Non appena la barbarie interna e quella esterna si uniscono fra loro, allora siamo alla fine di una civiltà, di un’epoca: è la caduta nel periodo vuoto, la minaccia del regresso, poiché decadenza più barbarie equivalgono a regresso.
E quanto detto si verifica con la storia, in particolare con quella del Basso Impero. In questo momento di grandi migrazioni non erano presenti solo due mondi, il mondo barbaro, cioè quello nordico, e l’antico mondo mediterraneo, bensì tre. Il terzo, quello dei nomadi asiatici, spingeva sul secondo e lo respingeva verso il primo. Alla fine, l’unione del mondo barbaro e del mondo antico si impose contro il nemico comune e da questa unione nacque l’Europa. Ora, ogni volta che l’Europa si divide e s’indebolisce, il terzo mondo ricomincia a premere su di essa. Ma esso è privo di forza a meno che non trovi grandi capi per organizzarlo, metterlo in moto, assegnargli per meta l’impero. Questi grandi capi non sono esclusivamente mongoli o tartari: possono anche essere europei.
La conclusione di questo quinto e ultimo dato è così evidente che potrei risparmiarmi la fatica di formularla.
Da secoli, che ci riportano al di qua dell’era cristiana, una terza invasione — l’unica che merita di essere chiamata tale — si preparava fuori dalla storia, in questa parte dimenticata dell’Asia, ma che, proprio in quanto dimenticata, aveva educato razze di governo, selezionato trascinatori. Gengis Khan [1155/1167-1227] aveva preparato la conquista del mondo, il suo successore, Ögödei [1186-1241], aveva ordinato di attuarla.
Più tardi, un monaco ortodosso lo aveva promesso a Mosca, terza Roma — e non ve ne sarebbe stata una quarta. Non è una novità che a questa data l’Europa sia stata minacciata di essere travolta dall’Asia e di tornare alla barbarie. D’altro canto, è la prima volta che questa minaccia ha assunto una tale entità, una tale immediatezza. Ciò, in verità, ha posto l’Europa di fronte al suo destino.
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Questo destino è espresso dal dilemma: o essere assorbiti nell’Oriente o ricristallizzarsi nell’Occidente.
Qual è la situazione attuale? Essa ci mette in presenza delle stesse forze del passato e del passato remoto e questo testimonia la permanenza della storia. Sono solo cambiate l’ampiezza e la disposizione di queste forze.
Vi è sempre un Occidente di fronte a un Oriente, una civiltà di fronte alla barbarie; per la civiltà vi è sempre un mare interno, un mare nostrum.
Il mare nostrum non è più il Mediterraneo, ridotto alle dimensioni di un golfo, di un porto, bensì l’Atlantico. L’Occidente non è più solo l’Europa, ma la metà occidentale dell’Europa (5) più le due Americhe. L’Europa occidentale è solo una testa di ponte: il corpo dell’Occidente è, ancora una volta (6), costituito dalle due Americhe. Per la precisione: i nostri rapporti con il doppio continente non sono quelli di un mondo con un altro mondo, ma di un mondo con altri due mondi. A cui va aggiunta la Gran Bretagna con il suo Commonwealth, che gioca il ruolo di una grande copertura. Il sistema occidentale è dunque organico. Ha dalla sua un vantaggio, fino ad ora rivelatosi decisivo: domina i mari e controlla i loro punti di accesso.
Da parte sua l’Oriente, per la prima volta nella storia, ha cessato di essere una semplice nozione geografica per raggiungere l’unità politica e sociale. Quello che non erano riusciti a fare né Attila [m. 453], né Gengis Khan, né Tamerlano [1336 ca.-1405], la Russia di Lenin [1870-1924] e di Stalin [1878-1953], preparata dalla sua storia e favorita dalla sua posizione geografica, è ora sul punto di compiere. L’unità dell’Oriente richiedeva la cooperazione dei due imperi, il russo e il cinese. Questa cooperazione sta per inaugurarsi sotto l’abbraccio del comunismo. Non esiste, credo, un evento più significativo di questo nella storia dopo la scoperta dell’America.
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In questo grande quadro dobbiamo collocare l’Europa di oggi. Che cosa essa non può più fare? Che cosa può ancora fare? Che cosa deve fare?
Per prima cosa, prendere coscienza della situazione e accettarla. Niente è più pericoloso della discordia fra situazione e opinione. Se vi è conflitto fra loro, l’opinione, al termine di una lotta estenuante e sterile, verrà schiacciata. Tutto lo sforzo, tutta la cospirazione dei buoni spiriti deve tendere a mettere l’opinione in sintonia con la situazione. La difficoltà è che l’opinione rimane nazionale, mentre la situazione è mondiale.
In secondo luogo, prendere coscienza di questa realtà: non c’è più l’Europa, vi è solo la sua parte occidentale. Ma queste due parti, quella orientale e quella occidentale, sono complementari e non possono prescindere l’una dall’altra. Il sistema delle relazioni europee forma un insieme così ben organizzato — ma, è vero, così fragile — che l’Europa non sarebbe sostenibile se non riuscisse più a ricostituirsi interamente, con tutte le sue parti.
Terzo, prendere coscienza di questa evidenza: l’era dell’Europa è chiusa, il mondo non si ordina più all’Europa, è l’Europa che deve ordinarsi al mondo.
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Non sono né un datore di ricette, né undistributore di programmi. Posso solo appellarmi un’ultima volta all’esperienza storica. Essa insegna che ci vuole un pericolo comune perché i popoli si uniscano fra loro. Mai, piccoli o grandi, i popoli si sono uniti fra loro per amore o per idealismo. Raramente l’hanno fatto senza un trascinatore egemonico. Ma, quando è capitato di unirsi, è stato per non lasciarsi unificare da un conquistatore al quale ciascuno di essi era incapace di resistere da solo. La virtù della difesa comune è quella di rendere necessaria tutta una serie di accordi e di coordinamenti, non solo militari, ma economici, giuridici e politici. A poco a poco, fra i popoli abituati a convivere secondo regole accettate da tutti nascerà il sentimento di una comune appartenenza. Il pericolo è un potente federatore. La sicurezza non ha questa virtù. Dunque, è urgente partire dalla difesa comune (7).
Un federatore porta alla federazione. Questo termine, mi sembra, ha un grande bisogno di essere precisato. Quando si tratta di Stati, e per evitare ogni confusione con le federazioni di tipo sociale o professionale, sarebbe preferibile utilizzare il termine «confederazione». Esso esprime meglio di «federazione», il suo quasi sinonimo, l’idea di permanenza. Quando degli Stati particolari si impegnano ad avere nel loro insieme una sola politica generale, come se formassero in questo campo un unico Stato collettivo, allora vi è una confederazione. Infine, «confederazione» esprime meglio di «federazione» l’idea di un impegno basato sulla fiducia reciproca e sull’onore: ed è quello che si definisce legame federale.
Perché vi sia una confederazione è necessario che gli Stati membri siano disposti a fare dei sacrifici della propria sovranità, al fine di istituire insieme un potere centrale, permanente e supremo. Qui, è necessario dissipare una ulteriore confusione. Non si tratta, per gli Stati membri, di sacrificare la propria sovranità, ma di conservarne l’essenziale, nella disposizione a sacrifici accessori per il bene dell’insieme. Non ci si federa mai per farsi assorbire in un tutto più grande e decadere al rango di una provincia, nemmeno per difendere e mantenere la propria casa. Se il potere centrale — che deve la sua esistenza agli Stati membri — rovesciasse l’ordine federativo e lo sostituisse con l’unificazione, esso stesso uscirebbe dalla legalità.
Come si vede, la confederazione europea viene a collocarsi fra il sistema delle alleanze e lo Stato europeo. Il primo è troppo debole ed è in ritardo rispetto ai tempi; il secondo è troppo forte ed è in anticipo sui tempi, così in anticipo che, per l’ora che segna il nostro orologio, è ancora solo un’utopia. Chi di noi vorrebbe abdicare al suo patriottismo e ammainare la propria bandiera? La confederazione europea non è una nuova bandiera, ma un fascio di bandiere, con questo vecchio motto inciso su ciò che le lega: «Ciò che è unito è forte, ciò che è disperso è fragile». Si sarà capito che cosa significa questa similitudine. Attraverso il prolungamento dei sentimenti naturali dobbiamo conseguire il sentimento dell’Europa. Sarebbe un errore procedere per smentite e rotture, scambiare le nostre patrie naturali e storiche contro un’Europa artificiale e astratta, di cui la comunanza di qualche idea politica e sociale sarebbe l’unico legame.
Resta il fatto che la difesa europea è urgente e la confederazione europea necessaria. Ancora una volta, quella farà questa, ma questa non vi sarà mai senza quella. Se, purtroppo, fossimo presi fra la necessità di fondare l’Europa e l’impossibilità di fondarla, tutto sarebbe andato perduto mentre avremmo potuto ancora salvare tutto.
In definitiva, nelle mani degli europei, nelle nostre mani, riposa il destino dell’Europa. Che essa sia ancora stanca, anemica, mutilata, indebolita, lo spiegano le catastrofi di questo mezzo secolo e la caduta nel periodo vuoto. Ciò che sarebbe grave, forse irreparabile, non è dell’ordine fisico e materiale, ma dell’ordine intellettuale e morale. Il vero problema non è se la guerra sia inevitabile o meno: è sapere se l’Europa vuole esistere o no. Forse gli europei si rassegnerebbero, si arrenderebbero? Avrebbero forse la nausea per tutto ciò che ha fatto la grandezza della nostra storia e lo splendore della nostra civiltà? Avrebbero perso la fiducia nel loro passato, nel loro avvenire e in sé stessi? Se così fosse, questo stato morboso significherebbe che gli europei non sono altro che delle foglie morte agitate dal vento, a volte in una direzione, a volte in un’altra, attorno a un albero sradicato; significherebbe che l’Europa ha perso la sua ragion d’essere e che il suo tipo fondamentale si è esaurito. E questo, mi rifiuto di crederlo.
Il quadro che ho disegnato, le conclusioni che ho tratto, rischiano di risvegliare nei miei lettori il pensiero che l’Europa è perduta, che ha concluso il suo destino. Ma ho sempre avuto per massima che bisogna essere pessimisti nella concezione per essere ottimisti nell’azione.
A due riprese, fra i secoli VII e X, la cristianità è stata sull’orlo della scomparsa. Si vedeva costretta in dimensioni ancora più ridotte di quelle di oggi: a nord, a est e a sud schiacciata, come in una tenaglia, da una coalizione di barbari pagani e distruttori. I sassoni, poi i normanni, gli slavi, che avanzavano come uno smottamento del terreno, e i cavalieri dell’Asia nomade, gli àvari e gli ungari che lanciavano le loro orde fino al cuore della Francia: tutti la pressavano, la invadevano, vi penetravano via terra e dalle acque, per i valichi montani e per il corso di fiumi. Da parte loro, i saraceni risalivano dalla Spagna fino alla Loira e dai loro covi di pirati sulle coste del Mediterraneo penetravano fino alle Alpi svizzere; comparivano davanti a Roma, vi entravano, saccheggiavano e profanavano la Basilica di San Pietro.
Che cosa sarebbe successo se la giovane Europa, con la sua ancora fragile civiltà, non avesse trovato capi e apostoli, teste e braccia? In men che non si dica sarebbe stata riportata indietro, alla steppa e alla foresta. Gli europei, i cristiani, avrebbero avuto come ultimi rifugi solo le caverne delle loro città in rovina o le cripte delle loro chiese distrutte. Allora, attraverso le tre penisole: balcanica, italica e iberica, l’islam sarebbe avanzato verso nord e, siccome i barbari pagani non avrebbero saputo resistergli, avremmo finito per vedere in esso un salvatore. I contemporanei erano disperati: aspettavano la fine del mondo, ne scoprivano i segni ovunque, addirittura la desideravano affinché mettesse fine alle loro angosce e ai loro mali. Sospettavano che l’Europa era alla vigilia della sua epoca più grande, che stava per coprirsi di cattedrali e di città libere, di officine e di scuole? Sospettavano che questa Europa agonizzante avrebbe preso il suo letto e camminato vittoriosamente verso il suo glorioso futuro?
Gonzague de Reynold
Note:
1) [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 47 a. 1 co.]
2) [Cfr. [Mons.] Jacques Bénigne Bossuet, Discorso sopra la storia universale. Disegno generale dell’opera, trad. it., Baglioni, Venezia 1742, p. 7.]
3) [Cfr. Aristotele, Politica, VII, 7, 1327b 23-33, trad. it., Rizzoli, Milano 2002, pp. 565-567.]
4) [Auguste Himly, Histoire de la formation territoriale des États de l’Europe centrale, 2a ed., 2 voll., Hachette, Parigi 1894, vol. I, p. 2].
5) Nel 1951 esiste già la Cortina di Ferro (ndr).
6) Come dal tempo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) (ndr).
7) Allora era sul tappeto il problema della costituzione di una forza militare comune fra gli Stati europei (ndr).