A quasi tre anni dall’inizio del conflitto si comincia a parlare di fine della guerra in Ucraina. E’ bene ricordare allora come e perché è iniziato e cosa è avvenuto in questi drammatici mille giorni
di Don Stefano Caprio
Le premesse della guerra
L’invasione russa dell’Ucraina del 2022, più comunemente chiamata “Guerra in Ucraina”, è iniziata il 24 febbraio 2022, quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Si tratta della più grande guerra in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Nell’imminenza dell’inaugurazione della presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, che ha promesso di “risolvere la questione in ventiquattr’ore”, ci si chiede se sarà davvero possibile non andare oltre i tre anni di conflitto, che hanno già comportato un carico enorme di morti e feriti, di distruzioni e tragedie, gettando nello sconforto il mondo intero.
Per capire le ragioni della guerra bisogna risalire ad eventi di vasta portata, antichi e recenti. L’Ucraina è una repubblica indipendente solo dal 1991, dalla fine dell’Unione Sovietica di cui era una delle quindici repubbliche, ma i suoi territori sono oggetto di contesa fin dalle origini dell’intera storia russa. La Rus’ era stata fondata dai principi di Kiev nel 988, ma nel 1240 la capitale era stata distrutta dalle orde tartaro-mongole, con le quali si misero d’accordo i principi di Mosca, assumendo la guida della nuova Russia dopo essersi liberati dal giogo asiatico. I principati antichi si distinguevano comunque per le continue guerre fratricide, i meždousobnja brani per cui la liturgia ortodossa invoca continuamente il perdono divino.
Nel frattempo, le terre più occidentali sono rimaste sotto l’influsso dei regni di Lituania, Polonia, Ungheria, distaccandosi sempre più dalla Russia moscovita. Le guerre russo-polacche iniziarono nel Cinquecento, per giungere dopo infiniti scontri all’accordo della “pace eterna” del 1682, con il quale Mosca riprese il controllo di Kiev, persuadendo i polacchi a cederla non solo con le armi, ma anche con valanghe di soldi. L’accordo introdusse per la prima volta il termine ukraina, il “confine”, assegnando (guardando dall’alto) ai russi la riva sinistra del Dnepr (Levo-berežnaja ukraina) e ai polacchi quella destra (Pravo-berežnaja ukraina), esattamente il fronte attuale della guerra, nella regione del Donbass.
Alla fragilissima “pace eterna” è legato anche un importante dettaglio, che è diventato causa scatenante del conflitto attuale. Mosca ottenne allora da Costantinopoli la giurisdizione ecclesiastica sulle terre ucraine, assegnando al Patriarca di Mosca il diritto di nominare il metropolita di Kiev. Quando, dopo la fine dell’Urss, sono cominciate le discussioni sulla possibile autocefalia ecclesiastica di Kiev, le tensioni sono aumentate progressivamente, diventando devastanti quando il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo II (Archontonis), affermando che i diritti di Mosca erano “temporanei”, ha accettato nel 2018 di concedere a Kiev l’indipendenza, dopo un drammatico incontro a Istanbul con il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev), che da allora ha deciso di rompere le relazioni con il patriarcato ecumenico e con tutte le Chiese che riconoscono l’autocefalia degli ortodossi ucraini.
La guerra è quindi anche la conseguenza di un vero e proprio scisma ecclesiastico, che esprime le ragioni simboliche di un disaccordo ideologico e culturale risalente a secoli prima, alimentato dalle continue campagne di “russificazione” da parte degli zar russi nell’Ottocento e perfino dai capi sovietici. Stalin costrinse i greco-cattolici ucraini a riunirsi agli ortodossi moscoviti, con uno “pseudo-sinodo” organizzato nel 1947 a Leopoli dal segretario ucraino del partito, Nikita Khruščev, il quale, una volta diventato il suo successore, decise di “donare” alla repubblica sovietica dell’Ucraina la penisola di Crimea, allo scopo di aumentare il numero e l’influenza della popolazione russofona. Proprio la Crimea è uno dei territori cruciali della guerra attuale.
Dopo la fine dell’Urss
Nel trentennio post-sovietico, con questo enorme carico di divisioni del passato, in Ucraina si sono alternati governi filo-russi e altri di chiara tendenza nazionalista e filo-occidentale, con scandali e tensioni interne di ogni genere, fino al fatidico 2014, quando le due anime della “Rus-Ucraina” sono esplose una contro l’altra nella rivolta detta “Euromaidan” contro il governo di Viktor Janukovič, un fedele suddito di Putin, che sta ancora trascorrendo gli anni della sua pensione in periferia di Mosca, dove da poco è stato raggiunto da un altro illustre defenestrato, il siriano Bashir Assad. A portare la popolazione nella piazza del Maidan (il “mercato”) al centro della capitale ucraina è stato il rifiuto di aderire alle proposte di integrazione all’economia europea, con la prospettiva di diventare membro della Ue, la questione secolare del conflitto tra il Dnepr e il Don.
La fase della “guerra ibrida”
In quell’inverno del 2013-2014, quando esplose la contestazione a Kiev, Vladimir Putin pensava di avere ormai raggiunto il suo scopo nella politica mondiale, risollevando la Russia al ruolo di potenza universale, nella simbolica manifestazione delle Olimpiadi di Soči in cui il leader del Cremlino aveva investito miliardi e miliardi di rubli. Come dimostrazione della “pax putiniana” ormai consacrata dalle vittorie sportive (poi revocate per eccessi di doping), Putin aveva addirittura concesso la libertà al suo unico vero oppositore politico del primo decennio, l’oligarca Mikhail Khodorkovskij, esiliato tuttora in Germania, ma gli ucraini mandarono in frantumi l’ennesimo castello di illusioni della “grande Russia”, come troppe volte accaduto nel passato.
La guerra di Putin in Ucraina cominciò allora, anzitutto con la “pacifica invasione” della Crimea, rispondendo agli appelli presunti dei russofoni locali, chiamati a votare per un referendum di riunione alla Russia il 18 marzo 2014, dove oltre il 90% dei votanti decise di votare a favore, sotto lo sguardo vigile dei soldati russi che circondavano i seggi referendari. Il presidente della Russia scese allora nella piazza Rossa davanti al Cremlino, urlando davanti a una folla oceanica “La Crimea è nostra!”, Krym Naš!, grido che identifica l’ideologia putiniana come krymnašizm, “crimea-nostrismo”, la più pura espressione del russkij mir, il “mondo russo”: riprendere i “nostri territori” per conquistare il mondo intero.
L’importanza del 18 marzo
Da allora il 18 marzo è in Russia una data “sacra”, quella in cui si tengono i grandi appuntamenti elettorali, e in cui nel 2024 Putin è stato rieletto zar-presidente dopo un quarto di secolo al potere, proiettandosi verso i prossimi secoli. Subito dopo l’annessione “popolare” della Crimea, riconosciuta nel mondo soltanto dai regimi del Venezuela e della Corea del Nord, la guerra ha iniziato il suo corso “ibrido” e già violento negli altri territori-simbolo delle pretese russe sull’Ucraina, quelli tra i fiumi di Oriente e Occidente, le regioni di Donetsk e Lugansk della zona del Donbass, dove si sono svolte le battaglie con i tatari, gli svedesi, i polacchi, i turchi fino a quelle più tragiche con i nazisti, durante la Seconda guerra mondiale.
Il richiamo alla vittoria di Stalin su Hitler è quindi diventato il motivo esplicito della guerra attuale, che si propone la “de-nazificazione” dell’Ucraina. Tra il 2014 e il 2022 i combattimenti si sono svolti tra le compagnie di volontari russi, senza che il Cremlino se ne assumesse la responsabilità diretta, soprattutto la compagnia Wagner, detta dei “musicisti” per la passione per il compositore tedesco (osannato dai nazisti) da parte dei suoi fondatori, soprattutto il “cuoco di Putin” Evgenij Prigožin, fedelissimo servitore del capo e una delle figure più espressive di questa “riconversione bellica” della Russia, poi “evacuato” nella catastrofe del suo aereo, quando ormai non serviva più allo scopo e minacciava di volersi prendere il potere al posto dei generali dell’esercito russo. Ai “musicisti” si contrapponeva da parte ucraina la “compagnia Azov”, un’entità molto agguerrita e non priva di richiami ai simboli nazisti, ricordando il periodo in cui l’invasione hitleriana sembrava aver liberato gli ucraini dal totalitarismo sovietico. In questi scontri “ibridi” e ideologici, anche in queste zone si è voluta imitare la soluzione crimeana organizzando un referendum ancora più grottesco, da cui sono nate la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk, che proclamarono nel 2014 la loro indipendenza.
A questo punto anche il resto del mondo, cominciando dagli Stati europei, si è accorto che quanto stava succedendo su quelle terre non erano solo scaramucce interne alle periferiche regioni ucraine, e si è cercato di organizzare una trattativa per risolvere la questione, come si spera possa avvenire nel 2025. Così, nel 2014 è stato firmato un piano di pace per l’Ucraina orientale, chiamato “protocollo di Minsk” dal nome della capitale della Bielorussia dove si sono svolti gli incontri. Esso prevedeva un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l’impegno, da parte dell’Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Donetsk e Lugansk. Dato che i combattimenti sono invece proseguiti come se niente fosse stato deciso, nel 2015 i leader di Francia, Germania, Ucraina e Russia hanno concordato un nuovo cessate il fuoco e un pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk, il cosiddetto “Minsk II”, che non ha portato a significativi progressi. Lungo la linea di contatto si sono verificate continue violazioni del cessate il fuoco, il numero dei morti è salito a 13.000, il numero delle persone ferite a 30.000 persone, con 1,4 milioni di persone sfollate e 3,4 milioni in cerca di aiuti umanitari.
Per otto anni la “guerra del Donbass” si è trascinata senza trovare alcuna via d’uscita, rendendo sempre più drammatica la condizione degli abitanti della regione. A febbraio del 2016 il Patriarca di Mosca ha sorprendentemente accettato lo storico incontro con Papa Francesco nelle sale di stile sovietico all’aeroporto dell’Avana, e dal comunicato finale si è capito che, insieme all’afflato ecumenico dell’incontro, il moscovita Kirill doveva anche espletare una funzione politica, facendo firmare al Pontefice romano un appello agli ucraini per “risolvere i propri problemi interni attraverso il dialogo”, senza alcun accenno alle pressioni e alle azioni militari dei russi in territorio ucraino.
La dimensione religiosa del conflitto è poi diventata ancora più evidente qualche mese dopo, in occasione del Concilio Panortodosso convocato a Creta nel giugno 2016. La preparazione di questa assise risaliva a un secolo prima, quando poi era stata resa impossibile dalla dirigenza sovietica, e si sperava finalmente di giungere a celebrare il supremo atto conciliare di tutte le Chiese ortodosse, che si distinguono da quella cattolica proprio per il riconoscimento della superiorità del Concilio rispetto a quella del Papa o di qualunque patriarca, salvo il fatto che in oltre un millennio dalla divisione tra Roma e Costantinopoli nessun Concilio è mai stato convocato, tranne quelli locali. I russi hanno sostenuto fino all’ultimo la causa conciliare, essendo di gran lunga la Chiesa più importante e numerosa, che costituiva circa il 70% dell’intera popolazione ortodossa al mondo.
Il problema è che in questo grandioso gregge dei russi ortodossi si calcolavano anche gli ucraini, 40 milioni insieme agli 80 milioni dei russi, ma con molte più chiese e sacerdoti, e una frequenza alle liturgie di differenza clamorosa, il 30-40% degli ucraini rispetto al 2-3% dei russi, dopo settant’anni di ateismo comunista. La guerra rischiava di far regredire il patriarcato di Mosca a una condizione di minoranza, perdendo di fatto la sua influenza decisiva anche sul resto delle Chiese ortodosse greche, slave e mediorientali. Facendosi scudo dei rifiuti di georgiani e bulgari, i russi hanno a loro volta rinunciato a partecipare, per evitare che al Concilio si discutesse dell’autocefalia ucraina, relegando Mosca in un angolo e provocando un’ulteriore umiliazione dopo quella della fine dell’impero sovietico, per Putin “la più grande tragedia del XX secolo”.
Dopo che il Patriarca di Costantinopoli ha consegnato al Fanar (la residenza) il Tomos di autocefalia al metropolita ortodosso di Kiev Epifanyj (Dumenko), accompagnato dall’allora presidente ucraino Petro Porošenko, durante la liturgia natalizia del 7 gennaio 2019, la tensione ai confini dell’Ucraina ha continuato a crescere in modo esponenziale. Putin ha progressivamente schierato le sue truppe ai confini delle regioni del Donbass, per “difendere i propri connazionali” sottoposti a persecuzioni da parte degli “ucro-nazisti”. Nel 2020 era prevista una grande celebrazione del 75° anniversario della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica, e il presidente ha preparato una nuova costituzione che difendesse i “valori tradizionali russi” e mettesse anche il nome di Dio come Protettore della Santa Patria russa, ma la pandemia di Covid-19 ha nuovamente rovinato i piani del Cremlino, costringendo tutti all’isolamento e alla riduzione di ogni pubblica manifestazione. La “guerra dei vaccini” ha spinto i russi a vincere un’altra battaglia, presentando per primi il vaccino chiamato “Soyuz-5”, ricordando i primi voli dello spazio nella contesa con gli americani degli anni Sessanta, ma in tutta la Russia si è diffusa una delle più accese rivolte no-vax, no-mask, no-pass e via andare, accusando l’Occidente di aver creato un’arma per “cancellare l’immagine di Dio” dall’anima dei russi, riducendoli a zombie schiavizzati dai grandi poteri mondiali. La radicalizzazione suscitata dal Coronavirus ha certamente contribuito a rendere ancora più profonde le contrapposizioni dell’anima russa nei confronti del resto del mondo.
L’invasione dell’Ucraina
L’elemento scatenante finale è stato poi il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan nell’estate 2021, non certo una delle pagine migliori delle relazioni dell’America con il resto del mondo. La Russia ha inteso questa rinuncia al controllo della geopolitica da parte di Washington come un definitivo “via libera” alle proprie ambizioni di ridisegnare il mondo “multipolare”, liberando i popoli dal dominio dell’Occidente depravato. Le truppe raccolte ai confini dell’Ucraina, contro ogni previsione degli specialisti di questioni militari di tutto il mondo, e contro le aspettative della maggior parte dei russi stessi, invece di limitarsi al controllo e alla minaccia, si sono trasformate in una forza di invasione e devastazione.
Il piano iniziale di Putin prevedeva a questo punto un blitz di 2-3 giorni per prendere Kiev ed eliminare il presidente Zelenskyj. In questo modo l’Ucraina, senza alcun leader che coordinasse le operazioni militari, sarebbe stata molto più facile da occupare. L’Ucraina, invece, supportata dall’intelligence americana, si è dimostrata all’altezza della situazione, e ha saputo bloccare prontamente l’offensiva russa a Kiev. Metà dei 4 milioni di abitanti ha lasciato la capitale, e si calcola che tra militari e volontari si siano schierati in Ucraina oltre 200 mila combattenti pronti a difenderla. Fallita la “guerra lampo” di Putin, questi ha cambiato programma di guerra, concentrando le forze militari in altre aree come Kharkiv (la seconda città del Paese), Mariupol, Chernihiv e le cittadine minori del Donbass con lo scopo di minacciare Kiev.
Lanciando l’invasione il 24 febbraio, il Presidente russo Putin aveva detto al popolo che il suo obiettivo era la “smilitarizzazione e de-nazificazione dell’Ucraina”, per proteggere le persone soggette a quelli che ha definito otto anni di “oppressione e genocidio” da parte del governo ucraino. Il leader russo ha rifiutato di definirla un’invasione o una guerra, e chiunque non si attiene alla legge commette un reato penale, obbligando a usare il termine “operazione militare speciale” (Spetsialnaja Voennaia Operatsija, SVO), e l’ha definita una “causa nobile”. Per il leader russo l’alleanza militare difensiva di 30 membri dell’Occidente (la Nato) ha un solo obiettivo: dividere la Federazione Russa, e alla fine distruggerla. Secondo Putin, l’Occidente aveva promesso nel 1990 che la Nato si sarebbe allargata “non un centimetro a est”, ma ritiene che lo abbia fatto comunque, nonostante i consensi della Russia di Eltsin a queste decisioni e il tentativo di accordarsi per un accordo tra la Nato e la Russia, anzi con l’alleanza eurasiatica della Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto). Quindi Putin ha ritenuto un suo diritto puntare ad avere uno stato cuscinetto fra la Russia e l’area Nato, ottenendo in realtà soltanto l’allargamento della Nato ai suoi confini, con l’ingresso di Svezia e Finlandia.
Il conflitto si è quindi sviluppato come “guerra di posizione”, dopo che le truppe russe hanno compiuto stragi criminali, come a Buča a marzo 2022, dopo il tentativo fallito di accerchiare la capitale Kiev. I giornalisti che giunsero sul posto dopo il ritiro delle truppe occupanti s’imbatterono nei cadaveri di una ventina di persone barbaramente uccise e lasciate per strada, e si sono trovate circa 280 persone sepolte in una grotta comune. Il massacro di civili, famiglie e bambini, con segni di torture e mutilazioni, ricorda comportamenti analoghi da parte dei “macellai ceceni”, le truppe caucasiche che avevano già mostrato tali efferatezze nei combattimenti in Siria nelle zone del conflitto con l’Isis. Per questo e altri casi di evidenti crimini di guerra, come i missili sulla stazione ferroviaria di Kramatorsk ad aprile 2022 e altre stragi a Vinnitsa, Čaplin, Zaporižja, fino alla distruzione dell’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kiev nel luglio 2024, Putin si è meritato l’accusa del tribunale internazionale dell’Aja, che gli impedisce di visitare quasi tutti i Paesi che aderiscono ad esso, tranne quelli più “amichevoli”.
L’invasione si è articolata su quattro fronti di attacco, quello settentrionale passando dalla Bielorussia, Stato-satellite di Mosca, il fronte nord-orientale verso Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina che i russi intendono ridurre a “zona neutra” e che è stata completamente devastata, il fronte meridionale partendo dalla Crimea annessa e un fronte sud-orientale a partire da Lugansk e Donetsk. Gli scontri hanno creato una situazione di stallo permanente, con avanzamenti e arretramenti da una parte e dall’altra, ma a maggio 2022 è caduta nelle mani russe la città strategica sul mar Nero di Mariupol, sede principale della compagnia Azov, che a lungo si è difesa nei sotterranei delle locali acciaierie, per essere poi definitivamente sconfitta, con i suoi membri sopravvissuti ancora prigionieri dei russi, come pezzi pregiati da usare negli scambi. Anche Mariupol è stata teatro di stragi e devastazioni, rimanendo quasi completamente distrutta.
In estate le forze ucraine hanno lanciato la controffensiva, con lo scopo di ricacciare i russi da tutte le zone occupate, e a settembre 2022 Putin ha risposto con l’annessione formale delle quattro regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporižja e Kherson, accompagnata da una delle principali mobilitazioni alla guerra di 300 mila soldati, provocando ulteriori fughe dalla Russia dei giovani chiamati al servizio militare. Si calcola che oltre un milione di russi sia emigrata in varie direzioni, dall’Europa all’Asia centrale, formando la categoria dei relokanty, i “traditori esteri”. Gli ucraini sono riusciti infine a liberare la città di Kherson sulla foce del Dnepr l’11 novembre 2022, segnando le due rive del fiume come il nuovo confine della guerra tra Oriente e Occidente come ai tempi del Seicento, e come durante la Guerra fredda del Muro di Berlino. L’anno dell’invasione si è dunque concluso con l’entusiasmo degli ucraini e il senso di sconfitta dei russi, nonostante l’enfasi dei proclami ufficiali del Cremlino.
La prosecuzione della guerra
Nel 2023 gli scontri non hanno portato a un rovesciamento del fronte né da una parte né dall’altra, prolungando la “guerra di trincea” che si è concentrata per mesi intorno alla città di Bakhmut, dove gli ucraini hanno cercato di rilanciare la controffensiva, per poi giungere alla ripresa del territorio da parte dei russi nell’autunno 2023. La speranza ucraina della rivincita si è dunque esaurita, portando il capo di Stato maggiore dell’esercito di Kiev, il generale Valerij Zalužnyj, a suggerire una cessazione dello scontro armato, e la ricerca di un compromesso con i russi, rinunciando di fatto a riprendersi i territori occupati. L’8 febbraio 2024 Zalužnyj è stato rimosso e inviato dal presidente Zelenskyj nel Regno Unito come ambasciatore, dove si occupa anche della cura dell’addestramento dei soldati ucraini da parte delle forze armate britanniche. Al suo posto è stato nominato il generale Aleksandr Syrskij, un ucraino di provenienza russa con molti familiari residenti nella città di Vladimir, non lontano da Mosca.
Syrskij ha organizzato nel 2024 una tattica inaspettata di controffensiva, penetrando nella regione russa di Kursk, dove ora i russi cercano di respingerli con l’apporto del battaglione ceceno Akhmat comandato dal generale Apti Alaudinov, un uomo dal passato controverso e molto vicino al presidente della repubblica di Cecenia, Ramzan Kadyrov. Da ottobre 2024 nella regione sono stati inviati anche migliaia di soldati della Corea del Nord, in seguito a un accordo strategico concluso nella visita di Putin a Pyongyang, nel giugno 2024, riconoscendo nel dittatore Kim Yong-un il suo principale alleato insieme ai capi dell’Iran, che fornisce alla Russia missili a lunga gittata.
Reagendo al nuovo tentativo di controffensiva ucraina, Putin minaccia sempre più spesso di usare armi nucleari contro l’Ucraina e anche contro i suoi alleati della Nato, che a loro volta forniscono a Kiev missili in grado di colpire il territorio russo. Nel 2024 si è anche intensificato il conflitto ibrido informatico, con la serie di elezioni in Europa, Inghilterra, India e altri Paesi fino alla rielezione a novembre di Donald Trump, che da gennaio dovrebbe riaprire i giochi di equilibrio bellico e geopolitico.
Le possibili conclusioni
Per mettere fine alla guerra, come ha ribadito anche negli ultimi giorni il leader russo chiede il riconoscimento della Crimea come russa, il Donbass indipendente, la neutralità dell’Ucraina oltre che un cambio di governo più filorusso in Ucraina. Inoltre, chiede anche che Svezia e Finlandia non rimangano nella Nato, e propone come luogo delle trattative la Slovacchia guidata da Robert Fico, il leader europeo a lui più vicino dopo l’ungherese Viktor Orban. La Russia potrebbe cercare di “congelare” il conflitto per riprendere le forze, dopo le enormi spese militari che stanno mettendo in pericolo l’economia, con un crollo del rublo e una crescita vertiginosa dell’inflazione e dei prezzi a cui la Banca centrale di Mosca non riesce a mettere freni efficienti. Oppure, come ritengono diversi commentatori, potrebbe ritenere sufficiente l’attuale disposizione delle forze e dei territori, confidando nella possibilità di influire sulla vita interna dell’Ucraina attraverso i suoi strumenti di interferenza e di propaganda, come ha già compiuto in modo clamoroso in Georgia, in Moldavia e in Romania, con risultati ancora da definire negli sviluppi delle varie situazioni. L’Ucraina potrebbe così diventare un Paese satellite, anche se non al livello della Bielorussia o di quelli dell’Asia centrale, rimanendo nell’area ex-sovietica, o come diversi Paesi dell’Africa e dell’America latina.
Da parte ucraina, il presidente Zelenskyj ha già accettato il fatto che il suo Paese non sarà ammesso alla Nato, e comincia a riconoscere l’impossibilità di riconquistare i territori occupati, che potranno essere reclamati in futuro “per via diplomatica”. Ha chiesto comunque l’intervento della Nato in Ucraina e la no-fly zone, ma entrambe le sue richieste non sono state per ora accolte, in quanto lo stesso presidente statunitense Joe Biden, in carica ancora per pochi giorni, ha ammesso che ciò avrebbe portato a una terza guerra mondiale. Kiev ha dunque proposto che l’Ucraina diventi uno Stato “non in blocco (o non allineato) e non nucleare”, senza basi militari o contingenti stranieri sul suo territorio. In caso di guerra, per proteggere la neutralità ucraina, dovrebbero poter intervenire in sua difesa anche Regno Unito, Cina, Stati Uniti, Turchia, Francia, Canada, Italia, Polonia e Israele. L’Ucraina deve avere inoltre la possibilità di entrare nell’Unione Europea.
Gli Stati Uniti e i loro alleati europei stanno continuando a fornire equipaggiamento militare all’Ucraina e aggiungono sempre nuove sanzioni e altre misure per infliggere un danno economico alla Russia, al fine di placare il suo modo di agire aggressivo. La Banca centrale russa ha subito il congelamento dei suoi beni e spicca la misura finanziaria di esclusione dallo Swift, che è il più usato sistema internazionale per trasferire denaro. La Cina invece vorrebbe che questo conflitto si fermasse, ma allo stesso tempo ammette che si è arrivati a questa situazione anche a causa della Nato, proponendo a più riprese piani di pace assai poco realistici per entrambe le parti, come ha cercato di fare anche l’India. Uno dei mediatori più probabili può essere la Turchia di Erdogan, che aveva già ottenuto nel 2022 un temporaneo patto per il grano, un elemento cruciale per le economie dei Paesi più poveri. Ora tutto si rimette in gioco nel 2025, dove le logiche militari, politiche, ideologiche e religiose saranno sottoposte al vaglio delle iniziative dei singoli leader, e dalla resistenza o estenuazione dei popoli.
Sabato, 28 dicembre 2024