Dunque, l’ex generale Michael T. Flynn, nominato Consigliere per la sicurezza nazionale dal presidente Donald J. Trump, si è dimesso lunedì 13 febbraio perché travolto dallo scandalo di certe sue conversazioni telefoniche con l’ambasciatore russo a Washington, Sergej I. Kisljak. Secondo quanto riferito da The Wall Steet Journal, da tempo era indagato dal controspionaggio.
I fatti risalgono al 29 dicembre, giorno in cui gli Stati Uniti, allora ancora governati dal presidente Barack Obama, annunciarono nuove sanzioni contro la Russia rea, disse Obama, di avere interferito con le elezioni che l’8 novembre avevano portato alla clamorosa vittoria di Trump e all’altrettanto clamorosa, e malissimo digerita, sconfitta di Hillary Clinton. Al di là del merito specifico del provvedimento, e quali che siano i rapporti fra Mosca e Occidente, difficile non giudicare inutile e dannosa quell’azione di Obama, compiuta in extremis e avventatamente, quasi con la volontà di lasciare un sigillo finale su una gestione diciamo particolare della politica estera statunitense. Quelle nuove sanzioni avevano infatti ben poco senso ed era evidente che di lì a poco la nuova Amministrazione avrebbe avuto la possibilità di disfare completamente quel provvedimento.
E proprio di questo pare abbiano parlato Flynn e Kisljak alla fine dell’anno scorso. Flynn era già stato nominato al vertice della Sicurezza nazionale, ma ovviamente non era ancora entrato in carica, cosa che avrebbe fatto il 20 gennaio, giorno dell’insediamento ufficiale del nuovo presidente Trump e di tutta la sua Amministrazione. Kisljak gli avrebbe chiesto di quelle sanzioni e lui avrebbe risposto di non preoccuparsi, allusione evidente al fatto che verso la Russia la nuova Amministrazione avrebbe certamente perseguito una politica differente.
Adesso che le conversazioni tra i due sono saltate fuori, è saltato anche Flynn. Non si capisce però cos’abbia fatto di tanto criminale.
Che l’atteggiamento di Trump verso la Russia sarebbe stato diverso da quello di Obama non è mai stato un segreto. Per molti è scandaloso, magari a ragione, ma mai è stato un segreto. Trump lo ha detto e ripetuto in campagna elettorale, qualcuno, magari lecitamente, se n’è scandalizzato, ma evidentemente milioni e milioni di americani hanno votato Trump anche per questo. L’orientamento diverso di Trump verso la Russia è poi risultato evidente da alcune nomine, soprattutto quella del segretario di Stato Rex Tillerson, da sempre in più che ottimi rapporti ‒ commerciali ‒ con Vladimir Putin. Ma è un reato?
Parlando al telefono con Kisljak, Flynn ha proseguito sulla linea annunciata dall’Amministrazione entrante, sostanzialmente dicendo ai russi di non preoccuparsi per le nuove sanzioni che poi ci si sarebbe messo mano. Dov’è l’errore? Se la premessa è che l’Amministrazione Trump avrebbe tenuto un atteggiamento diverso nei confronti della Russia putiniana rispetto a quello tenuto da Obama, la conseguenza è che la politica statunitense verso la Russia sarebbe certamente cambiata, per esempio sulle famose e assurde sanzioni decretate il 29 dicembre.
Forse l’errore è stato di opportunità, visto che Flynn non era ancora entrato in carica? Forse. Sì, Flynn avrebbe potuto attendere di prendere pieno possesso di tutti i propri poteri, ma allora il suo intervento è solo un peccato del tutto veniale. In pectore, Flynn era già Consigliere per la sicurezza nazionale, anzi qualcosa di più. Aspettava solo la formalizzazione dell’avvio della nuova Amministrazione.
Si dice che quelle conversazioni telefoniche indebolivano Flynn rendendolo ricattabile da Mosca. Ricattabile per cosa? Per avere detto cose che il suo presidente sta facendo?
Dove, dunque, ha sbagliato, Flynn? Parrebbe in nulla. Ma allora perché l’Amministrazione Trump non lo ha difeso? Perché Flynn ha commesso una sciocchezza. Ha mentito al vicepresidente Mike Pence sui contenuti delle sue conversazioni telefoniche con Kisljak. Ha detto che si trattava solo di convenevoli di rito. Se avesse detto la verità, Pence non sarebbe andato in televisione a dire il contrario, ovvero a pronunciare (pur inconsapevolmente) una menzogna. Se avesse detto la verità, l’Amministrazione Trump, Pence in testa, avrebbe potuto difenderne l’operato dicendo che l’argomento del colloquio con Kisljak rientrava in quanto detto e ripetuto da Trump sia in campagna elettorale sia nei mesi della transizione.
Hai invece fatto la differenza la menzogna detta a Pence, che ha trasformato profondamente la natura dell’affaire: non più un peccato al massimo veniale di Flynn, ma una questione di fiducia nella linea di comando. Il tutto si è cioè mutato in un contrasto Flynn-Pence. Trump ha fatto di tutto per difendere Flynn, ma se Flynn fosse rimasto al suo posto come nulla fosse dopo avere mentito a Pence e avere fatto sì che Pence mentisse (pur senza saperlo) in pubblico, il delegittimato (e proprio dal presidente che difendeva Flynn) sarebbe stato solo l’ottimo Pence.
Non potendo le istituzioni americane sopportare questo, Flynn è stato indotto alle dimissioni. In sostanza, se avesse detto la verità, Flynn sarebbe assai probabilmente ancora al proprio posto. Il che significa che dire la verità paga sempre, anche in politica.
Ciò detto, è verosimile che sul “dossier Russia” nell’Amministrazione Trump non tutti gli orientamenti siano omogenei. Appena fuori dall’Amministrazione Trump, poi, e non di molto, cioè lì accanto, nel Congresso a maggioranza Repubblicana eletto l’8 novembre assieme a Trump stesso, moltissimi non guardano Putin con trasporto, ma soprattutto non adorano la mancanza di libertà religiosa, economica e politica che si respira nella Russia attuale. Questo può rendere conto di screzi, anche forti, dentro l’Amministrazione americana in carica. Del resto, l’uscita pessima ‒ il Trump che parla a braccio è una mina vagante ‒ nell’intervista concessa il 5 febbraio a Bill O’Reilly di Fox News in cui il presidente americano ha messo sullo stesso piano gli errori degli Stati Uniti con gesti eversivi di Putin non è stata gradita soprattutto dalla Destra.
Ma a quanti colgono queste occasioni per definire “filorussa” la politica di Trump vanno però ricordate alcune cose. Se l’Amministrazione in carica fosse bovinamente filo-putiniana, addirittura ricattabile da Mosca come troppo spesso si è detto, Flynn sarebbe ancora in sella. Invece non c’è più, e questo significa che, nonostante l’atteggiamento diverso che Trump promette di avere (e in parte già ha) verso Putin, dire “filorusso” si fa presto, ma le cose stanno altrimenti. Come? Come Trump ha promesso e come la prudenza impone. Provocare la Russia inutilmente, come l’Amministrazione Obama è parsa fare ‒ forse per distrarre da altri scenari di politica estera imbarazzanti ‒, è proditorio e si sottopone al giudizio della storia. Cercare, laddove è possibile, di non irritare quella che comunque è una grande potenza mondiale è sempre cosa buona. L’importante è non svendere la verità, politica e morale, per blandire Putin.
Che l’Amministrane Trump stia cercando di parlare con Putin senza svendere la verità è reso evidente da due fatti, il secondo dei quali scordato rapidamente dalla stampa tutta impegnata a cercare di delegittimare Trump a prescindere.
Trump ha tolto alcune sanzioni imposte alla Russia dopo l’annessione della Crimea aprendo a possibili future svolte commerciali, ma ha pure condannato recisamente la politica di Mosca in Ucraina per bocca dell’ambasciatore statunitense all’ONU, l’ottima Nikki Haley. Bastone e carota? Se ottiene il ridimensionamento di Putin senza chiudergli preventivamente in faccia tutte le porte è una mossa intelligente.
Nel “dossier russo” c’è però ancora un’altra perla di cui nessuno gravemente e colpevolmente parla. Visto come sono andate le elezioni dell’8 novembre, tutto è stato zittito, ma quando Hillary Clinton era segretario di Stato, oltre a numerosi altri corrotti e ricchi affari su diversi quadranti internazionali, fece in modo di vendere per denaro, attraverso un gioco di “scatole cinesi” che partivano dal Canada e arrivavano a Mosca, ben il 20% di un asset strategico qual è l’uranio americano all’agenzia di Stato russa per l’energia atomica. Ben al di là delle effusioni telefoniche tra l’ambasciatore Kisljak e lo sciocco Flynn (sciocco per avere mentito al suo vicepresidente, fregandosi da solo), sono questi gli scandali su cui si dovrebbe indagare approfonditamente, mentre sembra che il cicaleccio sui presunti quanto illeciti aiuti di hacker russi alla vittoria elettorale di Trump servano proprio a distrarre le masse. Tra l’altro, visto che Trump ha ottenuto circa tre milioni di voti popolari in meno della Clinton, forse gli hacker di Putin non sono proprio bravissimi…
Marco Respinti