Il problema è profondamente politico, nasce dall’incapacità dei governi locali di controllare il territorio e dall’assenza delle istituzioni internazionali che non sanno, o non vogliono vedere quanto l’area centrafricana sia una bomba a orologeria per tutta l’area mediterranea e non solo. Quanto dolore e morte dovrà ancora costare questa situazione di stallo?
di Silvia Scaranari
Mons. Moses Chikwe, pastore dell’arcidiocesi di Owerri (Nigeria), rapito a fine 2020, trattenuto per alcuni giorni e poi rilasciato; padre Valentine Ezeagu, sacerdote della Congregazione dei Figli di Maria Madre della Misericordia, rapito il 15 dicembre e rilasciato 36 ore dopo; suor Gloria Cecilia Narvaez, rapita in Mali e detenuta da 4 anni, sono solo la punta di un iceberg.
Mentre giustamente cerchiamo di ottenere i vaccini anti-covid e di pensare alla crisi di governo ed economica di casa nostra, rischiamo di dimenticare l’esistenza di un’altra parte di mondo, ove quotidianamente si ripetono violenze, distruzioni, rapimenti, nella maggior parte dei casi a carico di cristiani.
Come è noto, il jihadismo ha spostato da tempo i suoi interessi in Africa. Soprattutto dopo il crollo dell’autoproclamato Stato islamico in Medio Oriente, la ricerca di nuovi territori e nuove basi ha portato gli islamisti a trovare facile sponda nella turbolenta area centro-africana, oltre che in altrettante aree del sud-est asiatico. Negli ultimi 2-3 anni il problema si è esteso a macchia d’olio toccando progressivamente la Nigeria e, lungo le sponde del Lago Ciad, la Repubblica del Ciad, il Sudan, la Repubblica democratica del Congo, l’Uganda, il Kenia, la Somalia, l’Etiopia settentrionale e il Mozambico meridionale. Verso ovest non sono certo immuni dal problema il Mali, la Mauritania, in perenne stato di guerriglia, il sud dell’Algeria e il Burkina Faso.
Questa fascia di territorio vede un graduale, ma inesorabile espandersi delle forze armate di stampo jihadista, che trovano terreno fertile nel grande gioco di lotte tribali, povertà, mancanza di presenza delle istituzioni statali, delusioni e amarezze (soprattutto nei giovani, che crescono senza speranze per il futuro) e in una significativa presenza di organizzazioni criminali, che commerciano esseri umani, droga e armi. In questo amalgama, la propaganda jihadista ha una facile presa e si diffonde a macchia d’olio, aggravando la già difficile situazione delle popolazioni locali.
Secondo i reports della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), nella Repubblica Democratica del Congo solo nel 2020 sono state uccise circa 1000 persone, e nel 2021 ci sono già registrate altre 40 vittime, nel completo silenzio dei mass media locali e internazionali.
Mons. Melchisédech Sikuli Paluku, vescovo di Butembo-Beni nel Congo orientale, quasi ai confini con l’Uganda, denuncia il ripetersi di massacri da circa 10 anni, evidenziando però che dal 2014 si sono nettamente intensificati. Il Governo non cerca di porre un limite a questi episodi, tanto da far dire al presule che «da tanti anni siamo sulla Via Dolorosa, ci sentiamo abbandonati» anche se i responsabili di simili crimini sono ben noti alle autorità, trattandosi dei miliziani delle Allied Democratic Forces (ADF). L’ADF nasce ufficialmente nel 1995 in Uganda come gruppo armato islamista, ad opera di Jamil Mukulu (oggi detenuto in carcere), ed è considerata un’organizzazione terrorista dal governo ugandese. Le sue basi principali sono poste nelle zone montuose sui confini che intercorrono tra Uganda e Repubblica Democratica del Congo, ma nell’ultimo decennio l’ADF ha intensificato gli sconfinamenti e compie, indisturbata, razzie e violenze di ogni genere, non escluso il reclutamento forzato di giovani e bambini. Nel 2013 e nel 2015 avevano attaccato operatori ONU, e questo aveva costretto le autorità ad affrontare il problema, riuscendo a catturare il leader, il succitato Jamil Mukulu. Quando l’attenzione delle organizzazioni internazionali è scemata, sono diminuiti anche i controlli, e i miliziani hanno ricominciato ad operare indisturbati.
In Nigeria la strategia islamista non si limita ai massacri indiscriminati, ma affianca i rapimenti “comuni” come forma di autofinanziamento. La violenza gratuita serve a intimorire, spaventare, sottomettere popolazioni locali, costrette alla collaborazione o a rifornire i miliziani dei beni di prima necessità. Dimostrare di poter controllare l’area genera ammirazione, desiderio di emulazione, e garantisce nuove possibilità di reclutamento. I rapimenti richiedono, invece, una strategia più raffinata, una programmazione più meticolosa, ma sono ugualmente numerosi e si stanno intensificando perché le organizzazioni jihadiste hanno disperato bisogno di finanziamenti. L’unione di rapimenti e di massacri crea una situazione devastante nel nord-ovest del Paese. La Nigeria registra il triste primato mondiale per numero di uccisioni e rapimenti: oltre 3.500 cristiani uccisi e poco meno di un migliaio (990) rapiti dal 1° ottobre 2019 al 30 settembre 2020, secondo il rapporto di Open Doors World Watch List 2021. Tra le persone sequestrate di recente, oltre ai già citati mons. Moses Chikwe, e padre Valentine Ezeagu, bisogna ricordare don John Gbakaan, sacerdote della diocesi di Minna, rapito il 14 gennaio 2021 insieme a suo fratello e ucciso il giorno dopo per dimostrare la serietà delle intenzioni jihadiste: il fratello è ancora prigioniero, in attesa di un riscatto. Va menzionato anche don Matthew Dajo, dell’arcidiocesi di Abuja, sequestrato nel mese di novembre e liberato dopo dieci giorni di prigionia.
Molte persone comuni vengono quotidianamente rapite da bande rivali fra loro, ma gli islamisti sanno benissimo che rapire un sacerdote cattolico fa più notizia e muove il governo a rivolgere loro maggiore attenzione.
Mons. Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Abuja, capitale della Nigeria, in un’intervista concessa ad ACS definisce questa situazione «un morbo che si sta diffondendo senza che venga fatto alcuno sforzo significativo per arginarlo». Per questo, dopo l’ennesimo rapimento, i vescovi della Conferenza Episcopale Nigeriana hanno concordato «all’unanimità di non pagare più riscatti», al fine di non incentivare questo criminale modus operandi. Contemporaneamente il vescovo invita con forza il Governo a prendere provvedimenti, perché la situazione non può essere tollerata oltre: «C’è urgente bisogno che il governo nigeriano affronti la situazione addestrando gli agenti di sicurezza ad agire in modo più efficace».
A fronte di questa situazione, suona un po’ ironica l’offerta fatta dal ministro degli Esteri di Abuja, Geoffrey Onyeama, in visita ufficiale in Mozambico, di mettere a disposizione l’esperienza acquisita nella lotta contro Boko Haram per combattere le milizie armate affiliate al gruppo dello Stato islamico (Isis) che hanno preso il controllo del porto di Macimboa da Praia, dal quale conducono incursioni nel nord del Paese e anche oltre confine, in Tanzania.
Un altro scenario drammatico è quanto avviene in Etiopia, come riferisce Regina Lynch, project manager della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS): «Centinaia di cittadini vengono uccisi nel conflitto in corso nella regione del Tigrai. Nessuno conosce il numero esatto dei morti, ma ci è stato riferito che ci sono sacerdoti e leader ecclesiastici fra di loro. Negozi, scuole, chiese e conventi sono stati rapinati e distrutti. Migliaia di persone hanno abbandonato le loro case. Molti hanno attraversato il confine con il Sudan, ma altri hanno cercato rifugio in aree remote, nelle montagne, senza acqua né accesso al cibo».
Il problema è profondamente politico, nasce dall’incapacità dei governi locali di controllare il territorio e dall’assenza delle istituzioni internazionali che non sanno, o non vogliono vedere quanto l’area centrafricana sia una bomba a orologeria per tutta l’area mediterranea e non solo. Quanto dolore e morte dovrà ancora costare questa situazione di stallo?
Mercoledì, 10 febbraio 2021