Massimo Introvigne, Cristianità n. 9 (1975)
La dissoluzione del costume, la negazione corrosiva di ogni tipo di morale, che è il tratto più caratteristico e più doloroso dell’avanzata rivoluzionaria, continua a suscitare in molti giovani i fermenti di una sana reazione. La gioventù migliore è affamata di principi, è affamata di tradizione: spesso non riceve, in interessata elemosina, che qualche moneta falsa. Tra le molte ricette offerte per una possibile salvezza di fronte all’odierno sfacelo si fa sempre più insistente la proposta di un “nuovo stoicismo”, inteso come una riaffermazione dell’antica morale stoica, che vorrebbe insieme appropriarsi dei presunti elementi positivi delle peggiori espressioni del mondo moderno: l’idealismo, il surrealismo, la psicoanalisi (1). Di che si tratta? Quale tipo d’uomo il neostoicismo intende proporre? Quali sono le caratteristiche fondamentali di questa “nuova” filosofia? A questi interrogativi cercherò, brevemente, di rispondere.
- L’ARBITRIO DEI FINI
L’”individuo di sesso stoico” è essenzialmente l’uomo che agisce in piena autonomia da ogni norma naturale o divina: egli ha il diritto di creare radicalmente la sua essenza, affermando senza limiti la propria libertà. Per il “saggio” non esiste legge, egli è legge a sé medesimo: se la filosofia classica ammoniva: “Divieni ciò che sei”, il neostoicismo risponde orgogliosamente: “Sii ciò che divieni”. Si tratta di ergersi come piramide immobile nel fluire del tempo, di vivere la propria irripetibile esistenza come titanica e stellare affermazione di sé. Ma perché? Quale è la meta di questo anelito, l’oggetto di questo “eroico furore“? A questa domanda si cercherebbe invano una risposta: non esiste meta, non esiste fine se non quello che l’arbitrio del soggetto fissa di volta in volta. Si vuole con forza, si cerca con veemenza … nulla! Si consiglia infatti al nuovo “saggio” di non preoccuparsi troppo del fondamento delle indicazioni esistenziali neostoiche: la tecnica brutale del “divieto di fare domande” di cui parla Eric Voegelin (2), così tipica del marxismo, qui si presenta trasposta nel suadente invito a una beatificante “rinuncia ai perché”.
Si arriva così all’ideale dell’”autopraghìa“: il “saggio”, novello superuomo, compirà azioni che si giustificano per sé stesse, senza bisogno di nessuna spiegazione. L’uomo non è che uno schiavo, se è vincolato a un senso da dare al suo operare; “se ne svincola invece il momento in cui riesce a far sua la meravigliosa idea espressa da Proust nel Tempo ritrovato: “Un’azione che contenga delle teorie è come un oggetto su cui si sia lasciato il cartellino del prezzo”. L’avventura, intesa alla maniera stoica, è invece un’azione a cui l’uomo è riuscito, prima di compierla, a strappare il cartellino del prezzo” (3). Ci si può chiedere se questo primato del movimento sul fine, per questa esaltazione della libertà assoluta e prometeica dell’individuo occorreva risalire agli stoici: “Il fine è nulla, il movimento è tutto” era uno slogan bolscevico, e il laureando Karl Marx aveva inneggiato a Prometeo nella sua tesi del 1841 a Jena. Evidentemente, però, una triste filosofia come quella dell’antica Stoa, dove erano assenti l’immortalità dell’anima e una chiara nozione di Dio, non era – anch’essa – in grado di giustificare l’agire umano: e l’invocata dignità dell’uomo rimaneva una costruzione verbale priva di vero fondamento (4). “Con un Dio corporeo e un’anima materiale, senza libertà né vita futura, [gli stoici] – scriveva Balmes – volevano fondare una severa morale: è più facile innalzare una piramide come quelle d’Egitto sopra un mucchio di sabbia” (5). Il neostoicismo se ne avvede, ed è costretto a negare anche l’ultima, vaga meta: la dignità dell’uomo, sostituita dal primato dell’azione pura, “senza perché“. Ma allora, accanto all’arbitrio dei fini, si deve postulare l’arbitrio dei mezzi: “non dare un senso alle tue azioni” viene così a significare “compi le azioni che preferisci”. Dopo le fondamenta, si demolisce l’edificio: alla distruzione delle basi dell’etica segue la distruzione dei contenuti.
- L’ARBITRIO DELLE SINGOLE AZIONI
Se il fine è arbitrario, le azioni sono proporzionate a chi le compie: esse acquistano un segno positivo o negativo a prescindere dalla loro oggettività, nella misura in cui l’uomo è padrone e creatore di sé stesso. Le azioni dello stoico sono buone non in quanto conformi a una bontà oggettiva, ma in quanto dello stoico: il “saggio” può fare ciò che vuole, perché la “saggezza” lo ha reso impeccabile. Nella pratica, poi, si privilegeranno come momenti forti della vita il “sogno“, inteso in senso surrealistico come affermazione (anche se “intermittente”) della propria spontaneità, senza il controllo della volontà e dell’intelletto; l’”avventura“, come manifestazione della “virilità“, che è “capacità di essere autonomi“; il “quotidiano“, accettato e vinto in tutta la sua ambiguità (e – si sarebbe tentati di dire – cavalcato come la tigre). In questo accogliere dentro di sé e dominare – quasi trasformandoli alchemicamente in farmaci – i mille veleni quotidiani che il mondo moderno offre, ogni tipo di morale neopagana mostra il suo volto più profondamente immorale: la proclamata possibilità del patto col Male, che conduce fatalmente a credere che la menzogna possa essere il veicolo, o – forse – la veste exoterica, della verità custodita nel segreto in sé stessi.
Nel che, tra l’altro, sta l’essenza non di una tradizione “olimpica”, ma del peggiore marranismo. Si tratta, però, di conseguenze necessarie della tesi: se la personalità dell’agente determina il valore delle azioni, ogni atto, per sordido e ripugnante che sia, può diventare buono, purché a compierlo sia un individuo “realizzato” secondo i canoni stoici.
L’errore, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, è molto meno ricco della verità: in ogni proposta menzognera si nascondono vecchi inganni, di cui la Chiesa già ha trionfato. Così la costituzione Ad nostrum qui, promulgata nel 1312 al termine del Concilio Ecumenico di Vienne, condannava tra l’altro i seguenti errori delle sette eretiche dei begardi e delle beghine: ” 1) Che l’uomo nella vita presente può acquistare un grado di perfezione così grande che lo renderebbe pressoché impeccabile […] 2) Che dopo aver conseguito un tale grado di perfezione non serve che l’uomo digiuni o preghi, perché in questo caso la sensualità è soggetta allo spirito e alla ragione in modo così perfetto che l’uomo può liberamente concedere al corpo tutto ciò che gli piaccia […]” (6). Come si vede, l’impeccabilità del sapiente neostoico non è né nuova né soltanto stoica. Quanto a quel “libere corpori concedere quidquid placet“, sarà naturalmente praticato anch’esso dall’”individuo di sesso stoico” che, dominando perfettamente le sue passioni, potrà compiere anche in campo sessuale azioni “autonome, libere dalla libidine del reprimere o dell’essere repressi” (7).
Educato da queste massime, come farà il giovane neostoico a sfuggire alla palude del trionfante pansessualismo? La titanica affermazione di sé non rischia forse di condurlo, ancora una volta, all’umiliante autodegradazione dell’immoralismo contemporaneo?
- PREMESSE E FINI DELL’OPERAZIONE CULTURALE NEOSTOICA
Dopo avere brevemente analizzato il “modo di vivere” proposto dal neostoicismo, sembra opportuno domandare a chi se ne fa corifeo, senza pretendere un albero genealogico completo, “chi fur li maggior sui“, a quali linee di pensiero vorrebbe o potrebbe ricollegarsi. Si tratta di una manifestazione contraria o almeno estranea al mondo moderno e alla Rivoluzione? Si tratta di una dottrina in qualche modo “tradizionale”? La risposta a tali domande non può che essere negativa. La radice di ogni etica individualistica è infatti l’affermazione della capacità dell’uomo di essere il fondamento di sé stesso, il principio costitutivo del suo agire e quindi, in ultima analisi, del suo essere. È la tesi umanistica dell’uomo “plastes et fictor suae ipsius fortunae”, che segue tutte le tappe del processo rivoluzionario fino alla piena esplicazione di sé nella libido dominandi da una parte dell’io individuale in Nietzsche, dall’altra dell’io collettivo in Marx.
È questa, senza dubbio, la linea di cui il neostoicismo fa parte, avendone accettata l’iniziale premessa: l’arbitrio dell’uomo come unica norma della sua azione, a prescindere da ogni regola extra- e sovra-umana (8).
E del resto, a riprova della appartenenza alla grande famiglia soggettivista, uno sguardo più completo all’opera dei vari autori “neostoici” mostrerebbe come il loro retroterra filosofico consista nelle vecchie tesi del soggettivismo idealista, si chiami pure questo idealismo “reazionario”, magari, “magico”. Si vorrà forse spacciare per “tradizionali”, grazie all’etichetta “stoica”, i più tipici frutti delle filosofie moderne? Non bisogna lasciarsi fuorviare dal suono ingannevole del richiamo a una dottrina molto antica come lo stoicismo. Nella misura in cui la parola Rivoluzione non sta soltanto a indicare un’epoca, ma anche una categoria, la categoria di Rivoluzione può applicarsi ai fermenti dissolutivi di ogni società tradizionale, anche se è chiaro che essa si manifesta nel suo senso più proprio nella rivolta contro l’unica società tradizionale fondata sulla pienezza della Verità, cioè la società cristiana, la Cristianità. Da questo punto di vista si può affermare che anche la tradizione classica ha conosciuto un’”antitradizione” rivoluzionaria, presentatasi sotto forma di empietà. Di contro alla grande linea, veramente pre-cristiana, che culmina in Platone e in Aristotele, troviamo così tutto un sottobosco pseudofilosofico che muove dai primi cinici e, attraverso stoici, epicurei e scettici, ritorna alle sue origini con il neocinismo dell’età imperiale, sotto le cui bandiere squallidi personaggi (come il sinistro Crescente, il feroce accusatore nel processo che portò alla condanna e al martirio di san Giustino), luridi, con barbe incolte e lunghi capelli, si aggiravano per città e villaggi, veri hippies dell’antichità. Il carattere inconfondibile di tutte queste dottrine è una concezione ambigua dell’esistenza, di Dio, spesso un esplicito ateismo, quasi sempre accompagnato dalla negazione dell’immortalità dell’anima. È, in sostanza, l’antica empietà quella che viene oggi riproposta all’orgoglio degli uomini.
Ci sono due modi di rifiutare la tradizione classica che, rettamente interpretata, conduce alla conversione al cristianesimo: l’uno, che si presenta come “greco”, è quello neostoico e neopagano, indipendente dal cristianesimo e già presente nel mondo antico come empietà; l’altro, in tesi “antigreco” ma in realtà direttamente e profondamente anticristiano, consiste nel separare il cristianesimo dalla tradizione filosofica greca, e quindi nel costruire un’improbabile “giudeo-cristianesimo” che vorrebbe togliere alla dottrina della Chiesa gli elementi che ne permettono la fondazione razionale, riducendola a un vago profetismo. Quest’ultima posizione è quella del vecchio modernismo (in particolare del Laberthonnière) e del dilagante neomodernismo attuale; ma dovrebbe essere oggetto di riflessione il fatto che progressismo “cattolico” e pseudo-tradizionalismo anticattolico convergano sul piano etico in una identica proposta: una morale atea, senza Dio (9), poco importa se giustapposta o meno a una teologia fideista, fondata sull’accettazione come dato positivo della “secolarizzazione” e della conseguente “de-moralizzazione” (Demoralisierung), cioè della piena esplicazione della Rivoluzione nel mondo moderno.
A che serve il neostoicismo? Resta, dopo avere analizzato le tesi neostoiche, da rispondere a questa domanda, prescindendo ovviamente dalle intenzioni esplicite o implicite dei personaggi che se ne fanno propagatori. Sarà un tentativo di catturare e trascinare a sinistra giovani ingenuamente “a destra”, di arruolare nuovi militi per le truppe regolari della Rivoluzione? Forse: ma l’operazione, per forza di cose, riuscirà solo in parte, con quei pochi che sapranno trarre con rigore le ultime conseguenze della loro scelta “neostoica”. Gli altri, i più, della Rivoluzione saranno soltanto le vittime migliori, nella misura in cui la morale neopagana prepara il tipo d’uomo più facilmente sterminabile dall’avversario: non ha più forza per combattere, perché non ha meta, non ha più un motivo che gli consenta di resistere, dopo aver strappato e gettato via il vilipeso “cartellino del prezzo” del significato da dare alle sue azioni. Soprattutto, corrotto da una dottrina fondata sull’orgoglio, si lascerà distruggere dalla sensualità: la Rivoluzione, prima di imporglisi esternamente, lo sconfiggerà nell’intimo.
Nella battaglia, quest’uomo senza Dio vagherà disorientato e triste. Dissoltosi l’ultimo inganno, la pretesa hegeliana di “riconoscere la ragione come la rosa nella croce del presente“, di vedere almeno in ogni frangente una superiore razionalità, egli porterà sì la sua croce ma dovrà, come dice con la giusta durezza san Luigi Maria Grignion de Montfort, “bere fino alla feccia l’amarissimo calice senza consolazioni di grazia, e portare l’intero peso della croce senza alcun valido aiuto del Cristo. Bisognerà portare il fatale peso che il demonio aggiungerà alla vostra croce per l’impazienza a cui vi spingerà, fino a che, dopo essere stati infelici sulla terra assieme al cattivo ladrone, lo andrete a trovare fra le fiamme” (10).
MASSIMO INTROVIGNE
Note:
(1) Cfr. A. PLEBE, A che serve la filosofia?, Flaccovio, Palermo 1974.
(2) Cfr. E. VOEGELIN, Il mito del mondo nuovo, tr. it., Rusconi, Milano 1970.
(3) A. PLEBE, op. cit., p. 107.
(4) In questo senso è bene precisare che la pretesa origine stoica della dottrina del diritto naturale esposta da san Paolo nella Lettera ai Romani è stata alquanto ridimensionata dagli esegeti: comunque, la tesi stoica sul diritto naturale (peraltro sintomaticamente dimenticata dal neostoicismo) è soltanto uno spunto embrionale che il cristianesimo trasformerà profondamente sia nei fondamenti che nel significato.
(5) J. BALMES, Filosofia elemental-Historia, in Obras completas, ed. BAC, Madrid 1963, vol. III, p. 402.
(6) DENZINGER-SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum, n. 891-2.
(7) A. PLEBE, op. cit., p. 86. Si noti la terminologia inequivocabilmente freudiana.
(8) Tale premessa, in termini filosofici, dovrebbe essere definita come la progressiva scoperta di un volo come nucleo portante del cosiddetto “principio di immanenza” espresso nella formula cartesiana “cogito ergo sum“, che si presenta così radicalmente come un “volo cogitare“. Chiuso l’essere nel cerchio dell’io, non resta più spazio per leggi ulteriori all’uomo, che si costruisce così soggettivisticamente secondo la sua volontà.
(9) Si pensi all’idea di una morale valida “etsi Deus non daretur” dell’ultimo Bonhoeffer, ripresa oggi da innumerevoli teologi cattolici: tanto che l’ideale proposto da Bayle di una possibile “società di atei onesti” è attualmente difeso dal gesuita Karl Rahner.
(10) SAN LUIGI MARIA GRIGNION DE MONTFORT, Lettera circolare agli amici della Croce, tr. it., Centro Mariano Monfortano, Roma 1972, p. 30.