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“Una sentenza non può obbligare i medici a stravolgere i doveri della loro professione”

21 Settembre 2019 - Autore: Alleanza Cattolica

Da Avvenire del 21/09/2019. Foto redazionale

Fra tre giorni gli ospedali pubblici da luoghi di cura potrebbero avviarsi a diventare strutture abilitate per legge a dare la morte. Gli effetti dell’annunciata sentenza della Corte costituzionale sul fine vita, infatti, come hanno ammonito i giuristi intervenuti ieri a Roma al convegno promosso dal Centro Studi Rosario Livatino e dall’Associazione Scienza & Vita, fanno presagire scenari sottovalutati e neppure condivisi persino in Paesi come la Svizzera dove andò a darsi la morte dj Fabo. «In Svizzera si sono guardati bene dall’inserire l’eutanasia all’interno del sistema sanitario e fuori da qualsiasi forma assistenziale – spiega Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita – tant’è che il suicidio assistito è un reato salvo che non ci si trovi in condizioni che riecheggiano ciò che dice la nostra Corte ». L’aspetto preoccupante della possibile sentenza è che viene «indicato qualcosa di più dirompente: si parla di un suicidio medicalmente assistito e quindi si richiama anche la legge sul fine vita». In concreto, «si apre lo spiraglio alla morte procurata nel sistema italiano». Di conseguenza il rischio, come osserva Mauro Ronco, presidente del Centro Studi Rosario Livatino, è che «non solo il medico venga costretto a compiere atti contrari al suo dovere deontologico ma che addirittura venga stravolta la sua professione medica, rivolta alla cura, alla palliazione della sofferenza, all’assistenza del malato. Inoltre si violerebbe l’autonomia del medico, che non è al servizio passivo del paziente ma opera per il suo bene secondo la valutazione che in scienza e coscienza sa fare». D’altra parte, secondo quanto prevede la stessa legge 219 sulle Dat, «il medico non può essere costretto a fare prestazioni contrarie alla propria coscienza ». Ne deriverebbe una questione non da poco: «Prevale la legge deontologica o quella dello Stato?», visto che anche la prima è una norma «che ha valore primario». La via d’uscita non può essere solo il ricorso all’obiezione di coscienza del singolo medico perché, spiega Ronco, «quando la prestazione curativa diventa una prestazione per la morte si stravolge deontologia medica e la stessa struttura della professione».

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