Marco Invernizzi, Cristianità n. 138 (1986)
I giorni della ribellione magiara contro l’imperialismo sovietico e i suoi mandatari «nazionali»: i motivi, i fatti, le speranze e la sanguinosa «normalizzazione» imposta dall’Armata Rossa.
Nel trentesimo anniversario
Ungheria 1956: cronaca dell’insurrezione popolare contro il regime comunista
La rivolta ungherese del 1956 è stata per certo spontanea, come dimostra ampiamente la cronaca delle giornate dell’insurrezione, dal 23 ottobre al 4 novembre, e come confermano le dichiarazioni dei profughi. Non è stata però una rivolta improvvisa, ma il frutto di una profonda avversione contro il regime comunista maturata progressivamente nel cuore del popolo ungherese. Il terrore imposto dal comunista Béla Kun nel 1919, durante i centotrentatrè giorni in cui detenne il potere, la bestiale violenza che caratterizza la presenza dell’Armata Rossa dopo la seconda guerra mondiale e l’oppressione quotidiana esercitata dall’AVO, la polizia politica, rimangono e fermentano nella memoria della popolazione. Le stesse elezioni politiche generali tenute dopo la guerra, il 4 novembre 1945 e il 3 1 agosto 1947, rivelano inequivocabilmente la scarsa popolarità del partito comunista, che ottiene rispettivamente il 17% e il 2 1,5% dei voti, nonostante le intimidazioni che caratterizzano le corrispondenti campagne elettorali.
Il partito comunista riesce a conquistare il potere soltanto attraverso la costituzione di una governo di coalizione, la soppressione dei partiti di opposizione e l’attribuzione a propri uomini dei ministeri più importanti, soprattutto del ministero degli Interni, da cui dipende appunto la polizia politica. E ministro degli Interni, dopo la guerra, è proprio Imre Nagy, che avrà un ruolo importante nel futuro del paese e in occasione della stessa insurrezione.
La rivolta ungherese scoppia in un periodo di particolare difficoltà per il comunismo internazionale e per il partito comunista ungherese in particolare. Dopo le rivelazioni di Nikita S. Kruscev sui massacri ordinati da Stalin, in occasione del XX congresso del partito comunista sovietico, la «destalinizzazione» investe nello stesso anno la Polonia e l’Ungheria. Si tratta, evidentemente, di una dialettizzazione interna al mondo comunista, che non ha assolutamente lo scopo di rinunciare ai fini dell’ideologia marxista-leninista ma, piuttosto, quello di rilanciare la sua immagine internazionale nella prospettiva della politica di distensione nei confronti dell’Occidente e di prevenire rivolte antisovietiche nei paesi satelliti dell’URSS, guidandoli a mutamenti che non mettano in discussione i principi comunisti.
Così, in Ungheria vengono riabilitati i «nazionalcomunisti» fatti assassinare oppure imprigionare dallo «stalinista» Mátyás Rákosi, segretario generale del partito dal 1944 al 1956 e primo ministro dal 1947 al 1953: essi — in concomitanza con il riavvicinamento dell’URSS alla Jugoslavia di Tito, che fa cadere l’accusa di «titoismo» con cui erano state attaccate le posizioni «nazionalcomuniste» — riprendono progressivamente potere all’interno del partito stesso.
Tutto questo apre brecce significative nel monolitismo comunista creando spazi tino a quel momento inimmaginabili; e in questo contesto ha origine e si sviluppa la rivolta ungherese.
23 ottobre: dalla protesta alla rivolta
Il 22 ottobre, a Budapest, si era riunita un’assemblea di diecimila studenti del Politecnico e ne era nato un documento storico contenente rivendicazioni di tipo politico come, per esempio, la costituzione di un nuovo governo guidato da Imre Nagy — l’oppositore della linea «stalinista» all’interno del partito — e la richiesta del ritiro delle truppe sovietiche dal paese. Era stata anche indetta una manifestazione per il giorno 23, alle ore 15, allo scopo di esprimere solidarietà con il popolo polacco sceso nelle strade a reclamare la propria indipendenza dall’Unione Sovietica. A tale manifestazione aderiscono anche i professori, poi gli studenti liceali: vietata in un primo momento, viene successivamente permessa dalle autorità di polizia.
Quando gli studenti escono dall’università per recarsi al monumento del generale polacco Józef Bem, si comincia a cogliere la portata dell’iniziativa: gli impiegati abbandonano gli uffici e si uniscono al corteo; gli operai lo faranno poche ore dopo. Quella notte davanti al parlamento saranno almeno in duecentomila. I manifestanti abbandonano progressivamente gli slogan interni al giro mentale comunista e passano a esprimere con sempre maggiore chiarezza la loro radicale opposizione al regime e alla sua ideologia. I sostenitori di Imre Nagy, presenti nel corteo, gli descrivono questo mutare degli animi, sì che egli comincia a fiutare il pericolo e se ne sta in disparte, rinchiuso a casa sua.
I primi scontri avverranno nella stessa notte, davanti alla sede della radio, dove si erano rifiutati di mandare in onda «tutte» le richieste degli studenti. I poliziotti dell’AVO, improvvisamente e forse senza ordini precisi, cominciano a sparare sulla folla. I manifestanti rispondono, prima con sassi, poi con le armi di cui si vengono impadronendo, offerte loro da reparti dell’esercito nazionale oppure prese direttamente nelle fabbriche e nei posti di polizia. E quella che era nata come una manifestazione di protesta si trasforma in una insurrezione.
Gli insorti cominciano a intonare canti tradizionali ungheresi, mentre scompaiono dalle bandiere nazionali i simboli del partito comunista. La folla riunita davanti al parlamento invoca a gran voce Imre Nagy, ma il vecchio uomo politico è recalcitrante e non risponde all’appello: quando lo farà, nella stessa notte, convinto dai suoi sostenitori, verrà sonoramente fischiato fin dalla prima parola rivolta alla folla, il classico «compagni», che ormai gli ungheresi non accettano più e non vogliono più sentire.
Sempre nella stessa notte le truppe sovietiche di stanza a Budapest entrano in azione contro gli insorti. La mattina del 24 ottobre Imre Nagy viene nominato primo ministro, ma immediatamente firma il decreto che istituisce la legge marziale e poi viene chiesto alle truppe sovietiche di intervenire per riportare l’ordine nel paese: «Non vogliamo più avere niente a che fare con lui» è il grido di collera che si può udire dopo questo annuncio, che lascia stupefatta la popolazione (1).
25 ottobre: la ribellione dilaga
A Budapest si verificano scene incredibili: alcuni. reparti dell’Armata Rossa fraternizzano con gli insorti, mentre gli emissari sovietici Mikhail Suslov e Anastas Mikoyan prendono parte a una riunione ad alto livello nella stessa capitale ungherese. Il segretario del partito comunista, lo «stalinista» Ernö Gerö, viene sostituito con János Kádár, ancora oggi al potere in Ungheria. Imre Nagy, alla radio, continua pateticamente a insistere perché gli insorti consegnino le armi e pongano fine all’insurrezione. A questo scopo giunge a promettere un’amnistia, ma la debolezza del governo è rivelata dal continuo procrastinare l’ultimatum ai combattenti per la libertà.
Intanto la rivolta dilaga in tutto il paese, da Györ e da Magyaróvár — una cittadina a quindici chilometri dalla frontiera austriaca, dove l’AVO apre il fuoco con le mitragliatrici uccidendo cinquantotto insorti — a Szeged, Pécs, Szolnok, Miskolc, Szombathely e Hatvan.
Nascono o rinascono giornali non comunisti: Honvéd, «Soldato», Forradalmi Ifjusag, «Gioventù rivoluzionaria», Igazság, «Verità», oltre al vecchio giornale dei socialdemocratici Népszava, «La voce del popolo». Anche la «rossa» Csepel — l’isola industriale a sud di Budapest — cade nelle mani degli insorti. Si segnalano numerose defezioni nell’esercito sovietico, alcune reali, come a Cegléd, altre strumentali, per guadagnare tempo e per sottrarre i carri armati agli inesorabili attacchi dei rivoltosi che utilizzano bombe molotov. Come scrive David Irving «a far crollare una situazione altrimenti non impossibile da controllare fu il fatto che, la notte del 23 ottobre 1956, i dimostranti entrarono improvvisamente e inaspettatamente in possesso di armi e munizioni — prese dagli arsenali o cedute dalle truppe ribelli» (2).
Scontri con il governo di Imre Nagy
Comincia a prendere corpo la frattura fra gli insorti e il nuovo governo guidato da Imre Nagy: «gli insorti lo identificavano ormai apertamente come il responsabile delle misure repressive della settimana precedente: l’uso di carri armati sovietici e di obici semoventi contro i giovani e i lavoratori che combattevano per la libertà ungherese, le sparatorie da parte dell’AVH contro la gente a piazza del Parlamento» (3).
La partenza per Mosca dei principali dirigenti «stalinisti» e la presenza nel nuovo governo di esponenti non comunisti non sono sufficienti a placare le richieste dei vari comitati insurrezionali, che nascono ormai in tutta l’Ungheria: Imre Nagy è costretto a fare ulteriori concessioni.Ma la prospettiva dei principali esponenti della rivolta rimane quella socialista: «soprattutto non crediate che noi non siamo socialisti, perché lo siamo», dichiarerà Pál Maléter, colonnello dell’esercito ungherese, ministro nel governo di Imre Nagy e capo della delegazione che tratterà con i sovietici il ritiro delle loro truppe dall’Ungheria (4).
Mentre emergono in tutto il paese capi che meglio rappresentano il volto autenticamente anticomunista della sollevazione popolare — ma che riusciranno solamente a condizionare il governo —, fra gli insorti si diffonde l’aspettativa — o, forse, una sorta di speranza funzionale alla continuazione della lotta — di un intervento delle nazioni occidentali. L’incaricato d’affari della legazione americana a Budaperst, Spencer Barnes, afferma, in un telex inviato negli Stati Uniti il 29 ottobre, che «per assicurare agli ungheresi una posizione più forte nelle discussioni e un migliore potenziale di lotta» (5) la Resistenza aveva immediato bisogno di un aiuto militare da parte dell’Occidente e di un sostegno morale ad alto livello. Ma il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti non sembra ansioso di intervenire, nonostante i reiterati inviti della sua legazione in Ungheria.
30 ottobre: la liberazione del cardinale József Mindszenty
Il cardinale primate József Mindszenty — forse la più importante vittima del regime e certamente la figura più amata dalla popolazione — viene liberato dalla prigione nella quale languiva dal 26 dicembre 1948 (6).
Cadono le ultime roccaforti della struttura comunista, fra cui la sede del partito stesso, in piazza della Repubblica, a Budapest, conquistata dai rivoltosi dopo una violenta battaglia; e gli eccessi compiuti dagli insorti durante questo assalto serviranno soltanto a regalare «martiri» ai comunisti.
A questo punto l’Unione Sovietica si rende pienamente conto dell’ampiezza dell’insurrezione e i dirigenti del Cremlino cominciano a studiare le modalità per soffocarla. Anzitutto si ripresentano a Budapest Mikhail Suslov e Anastas Mikoyan, con una dichiarazione ufficiale in cui vengono rivisti i rapporti fra i paesi socialisti nella prospettiva di una maggiore autonomia. Viene poi dato ordine alle truppe sovietiche di ritirarsi dalla capitale. Lo scopo è di far cessare i combattimenti e di convincere la popolazione a deporre le armi. Nel frattempo il governo recentemente insediato sotto la guida di Imre Nagy scioglie ufficialmente la polizia politica e costituisce una guardia nazionale: così gli Insorti cominciano a smobilitare, consegnano le armi e si lasciano prendere da una euforia che sostituisce la tensione dei giorni precedenti.
Soprattutto, i sovietici attendono qualche accadimento che distolga l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dagli avvenimenti d’Ungheria per poter intervenire e, quindi, risolvere il problema.
Il 29 ottobre 1956 Israele attacca l’Egitto e scoppia la guerra di Suez, che raffredda le relazioni fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e divide l’Occidente: per quattro giorni il mondo non si sarebbe interessato delle vicende ungheresi. Nikita S. Kruscev dirà tre giorni più tardi che l’ultimatum anglo-francese all’Egitto aveva creato «un clima favorevole» a un intervento sovietico in Ungheria (7). Qualcuno avanzerà perfino l’ipotesi che la crisi di Suez sia stata fatta scoppiare appositamente in quei giorni per coprire l’azione dell’URSS.
I dirigenti sovietici, comunque, non aspettavano altro: mentre l’Armata Rossa abbandona Budapest, nuove divisioni corazzate entrano in Ungheria dai confini orientali. Alla protesta del governo ungherese l’ambasciatore sovietico nel paese,Yuri Andropov, risponde proponendo incontri tra due commissioni militari al fine di concordare il ritiro delle truppe sovietiche, mentre i nuovi ingressi vengono giustificati con lo scopo di evacuare la popolazione civile sovietica presente in Ungheria: chiaramente un pretesto per prendere tempo.
1° novembre: la denuncia del Patto di Varsavia
Mentre truppe sovietiche continuano a entrare nel paese, il governo guidato da Imre Nagy viene tempestato da richieste di spiegazioni da parte dei comitati di insorti della provincia, che vedono il pericoloso ammassarsi delle forze nemiche.
In questa data viene fatta la storica dichiarazione che proclama la neutralità dello Stato ungherese:un paese comunista esce dal Patto di Varsavia! La notizia giunge all’ONU alle 12.30 e da questo momento la salvezza del popolo magiaro e della sua libertà è nelle mani delle Nazioni Unite.
Dal trionfo al tradimento
Il cardinale primate lancia dalla radio di Budapest un appello ripreso in tutto il mondo (8). In apparenza l’insurrezione sembra trionfare. Tutte le libertà sono ripristinate. La popolazione cattolica, che ha assistito al ritorno del più emblematico avversario del regime comunista, ascolta ora le sue parole, pronunciate in piena libertà, nonostante l’esistenza di vecchi contrasti con gli attuali governanti, che nella maggior parte sono stati comunisti, li sono ancora o almeno hanno collaborato con i comunisti. L’uscita dal Patto di Varsavia sembra garantire la protezione dell’ONU.
Tuttavia, vi sono già sul suolo ungherese quattromilacinquecento carri armati sovietici e altri stanno arrivando: così, la grande menzogna può essere svelata. La «commissione mista» incaricata di trattare il problema relativo al ritiro delle truppe dell’Armata Rossa si riunisce per l’ultima volta nella base aerea sovietica in Ungheria, a Tököl, e Pál Maléter é i membri della delegazione magiara vengono tratti in arresto nella notte del 3 novembre.
4 novembre: la repressione sovietica
Alle 4.25 del mattino i carri armati sovietici aprono il fuoco a Budapest. Inizia una battaglia senza storia, in cui la disparità delle forze è aggravata dalla avvenuta smobilitazione dei gruppi organizzati di insorti, dall’impreparazione delle truppe ungheresi consegnate nelle caserme e prive di ordini precisi: soltanto l’eroismo dei combattenti per la libertà la farà protrarre per giorni, settimane, mesi, prima sotto forma di scontro frontale, poi di guerriglia e di sciopero generale.
Prima che le linee di comunicazione vengano interrotte il governo magiaro chiede ufficialmente aiuto agli Stati Uniti. Mentre gli aerei sovietici sorvolano la capitale a bassa quota, dalla sede della legazione americana a Budapest il professor István Bibó — segretario di Stato del governo di Imre Nagy per un solo giorno! — lancia un ultimo appello al presidente Dwight D. Eisenhower: «Ciò di cui abbiamo bisogno più urgentemente, in questo momento è un aiuto politico, non militare». E aggiunge: «È venuto il momento per il presidente Eisenhower e il segretario di stato Dulles di ricordare i loro discorsi quando dicevano che era solo rischiando una guerra mondiale che si sarebbe potuto trovare l’unico mezzo sicuro per impedire una nuova guerra mondiale» (9).
Non verrà né l’aiuto politico né quello militare; non sarà usata neppure la minaccia come estremo tentativo di difendere il popolo ungherese.
Il cardinale Jozsef Mindszenty trova rifugio nell’ambasciata americana, che sarà — di fatto — la sua prigione nei successivi quindici anni.
Mentre la popolazione combatte casa per casa e gli operai decretanolo sciopero generale, il nuovo proconsole di Mosca, János Kádár, fa deportare in Romania i membri del governo di Imre Nagy. Saranno processati e condannati a morte, all’ergastolo o a pene minori durante la primavera del 1958 (10).
Nel corso dei combattimenti muoiono e rimangono feriti migliaia di ungheresi; duecentomila saranno i profughi che troveranno rifugio in Occidente. A queste vittime bisogna aggiungere i deportati, sia nell’Unione Sovietica che nella stessa Ungheria, dove sono stati prontamente riattivati i campi di internamento, e i condannati dai tribunali popolari. Viene ripristinata l’odiata polizia politica, mentre scompare di nuovo la libertà di stampa, che aveva permesso, nei giorni dell’insurrezione, la presenza di giornali non comunisti nelle edicole: comincia l’era di János Kádár, che ancora oggi domina, per conto della centrale sovietica del comunismo internazionale, la nazione magiara; e che, quando si sentirà sufficientemente forte per aver eliminato ogni possibile classe dirigente alternativa, farà dell’Ungheria il paese più «sazio» e «liberale» dell’immenso GULag comunista. Così, si cercherà di cancellare la rivolta del 1956 dalla memoria storica dello stesso popolo che ne è stato protagonista, grazie all’azione combinata del materialismo teorico e di quello pratico.
La rivolta ungherese ha profondamente commosso l’opinione pubblica del mondo libero, anche se non altrettanto si può dire dei governi occidentali. Ed è un episodio che continua a sollevare numerose domande, particolarmente importanti per chi oggi, trent’anni dopo, non cessa di desiderare la liberazione delle nazioni soggiogate dal totalitarismo comunista.
Fu una rivolta eccessivamente esigente nelle richieste e radicale nelle modalità operative, tenendo conto del fatto che l’Ungheria faceva parte di un «blocco», quello sovietico, in cui si può tragicamente entrare, ma da cui non si deve assolutamente uscire? Oppure il valore simbolico che ha assunto supera i problemi relativi alla sua efficacia storica?
Fu una rivolta ingenua, ingannata dalla infondata speranza di un intervento diplomatico, politico o perfino militare da parte delle nazioni occidentali?
I combattenti per la libertà avrebbero fatto meglio — come accadde in Polonia negli stessi mesi — ad accettare una sorta di «liberalizzazione» del regime comunista, per cercare di guadagnare spazi nella prospettiva di un’azione di resistenza culturale e civile all’interno di un sistema da cui, senza interventi esterni, non avrebbero comunque potuto uscire?
Oppure, più semplicemente, fu soltanto la dimostrazione che un regime comunista provoca reazioni che esplodono alla prima occasione, in quanto contrario alle esigenze fondamentali della natura umana?
Accanto a questi quesiti — importantissimi da meditare — la rivolta ungherese lascia anche una significativa eredità di certezze, cioè di dati non problematici, ugualmente degni di essere fatti oggetto di riflessione. Anzitutto merita di essere indicata la mancanza di sintonia — riscontrabile negli stessi mesi anche in Polonia — tra il popolo che insorge e i gruppi che si offrono a orientare la reazione popolare, in quanto composti principalmente — se non esclusivamente — da uomini legati agli schemi ideologici comunisti e la cui prospettiva non andava oltre il rifiuto dei metodi «stalinisti» e della sudditanza all’Unione Sovietica. La cronaca della rivolta mostra — in più di un’occasione — un popolo che cerca qualcuno che affermi tutta la verità, senza peraltro che questo qualcuno, se esiste, riesca a manifestarsi.
L’altra certezza che emerge con assoluta evidenza dalla rivolta ungherese è relativa al fatto che i governi occidentali non hanno mai neppure immaginato l’eventualità — nonostante le dichiarazioni elettorali dei rispettivi componenti — di sacrificare la coesistenza con i paesi a regime comunista per aiutare efficacemente i popoli che la logica di Yalta ha affidato alla pesante tutela sovietica.
Come si vede, si tratta di domande che non tollerano né facili né ovvie risposte; e, d’altro canto, di certezze che non risolvono il problema relativo a quale sia la via migliore — o semplicemente possibile — per sottrarsi al dominio comunista per chi vi si trova soggiogato: domande e certezze, comunque, nel frattempo divenute tragicamente attuali per un numero sempre maggiore di popoli e che, senza importanti mutamenti, sembrano inscriversi verosimilmente nel futuro di tutti.
Marco Invernizzi
Note:
Cfr. DAVID IRVING, Ungheria 1956. La rivolta di Budapest, trad. it, Mondadori, Milano 1982, p. 216.
(2) Ibid., p. 11.
(3) Ibid., p. 267. La sigla che indica la polizia politica è mutata nel 1949 da AVO in AVH, in seguito a una diversa collocazione gerarchica del corpo (cfr. NOEL BARBER, 7 giorni di libertà. L’insurrezione ungherese del ’56, trad. it., Città Nuova, Roma 1978, p, 20, nota l), ma la prima ha ancora ampio corso.
(4) D. IRVING, op.cit., p. 284.
(5) Ibid., p. 276.
(6) Cfr. CARD. JOZSEF MINDSZENTY, Memorie, trad. it., 5a ed., Rusconi, Milano 1975, pp. 302 ss.
(7) D. IRVING, op. cit., p. 335.
(8) Cfr. CARD. J. MINDSZENTY, op. cit., pp. 323-327.
(9) D. IRVING, op. cit., p. 383.
(10) Il processo si apre il 6 febbraio 1958 e le condanne a morte vengono eseguite il 16 giugno dello stesso anno. Un supplemento di inchiesta durato quattro mesi — dal 9 febbraio al 9 giugno — sembra sia stato dovuto anche a «una richiesta di Togliatti, preoccupato per le conseguenze che la condanna di Nagy poteva avere sulle elezioni politiche italiane del maggio 1958» (FEDERIGO ARGENTIERI e LORENZO GIANOTTI, L’ottobre ungherese, Levi, Roma 1986, p. 177).