Come nel 1956, l’Ungheria resiste alle colonizzazioni ideologiche: spetta a noi non ripetere il medesimo errore di 65 anni fa
di Andrea Morigi
Tremila morti, 25mila prigionieri e decine di migliaia di persone che scelgono l’esilio. La repressione nel sangue della rivolta anticomunista ungherese, iniziata a Budapest il 23 ottobre 1956 e soffocata dai carri armati sovietici il 10 e l’11 novembre successivi, riporterà così al potere il Partito comunista (Ungheria 1956: cronaca dell’insurrezione popolare contro il regime comunista – Alleanza Cattolica). In un primo tempo, i ribelli erano riusciti a bloccare la prima invasione dall’Urss, ma l’Occidente li aveva lasciati soli, dal punto di vista politico, diplomatico e militare. Anzi, contemporaneamente in Italia il quotidiano del PCI L’Unità bollava gli operai e gli studenti insorti come teppisti, mentre esponenti comunisti di vertice come Giorgio Napolitano sostenevano che i massacri e la soppressione del tentativo di ristabilire la democrazia avevano «contribuito in misura decisiva», non solo a «impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione», ma perfino a “salvare la pace nel mondo”.
Lo stesso Napolitano, quindici anni fa, come presidente della Repubblica italiana si era poi recato sulla tomba di Imre Nagy (1896-1958), il primo ministro ungherese che fu deposto e incarcerato nel 1956 per essere impiccato due anni più tardi e infine sepolto fino agli anni ’80 in una località segreta, affinché non gli si potesse rendere omaggio. L’allora Capo dello Stato italiano, inoltre, aveva deposto una corona di fiori anche al monumento ai martiri motivando il gesto con «il dovere di compiere non solo un dovere di Stato, ma anche politico, morale e personale».
Da quel ripensamento, che si deve supporre sincero, non è scaturito tuttavia, nei partiti europei che si richiamano all’eredità socialista e popolare, un atteggiamento diverso nei confronti delle Nazioni che hanno riconquistato la propria libertà, ma devono fare i conti con le conseguenze umane, sociali ed economiche del fallimento del modello socialista.
Sessantacinque anni dopo quella rivolta, che fu il prodromo della caduta del Muro di Berlino (Il Muro di Berlino iniziò a vacillare in Ungheria – Alleanza Cattolica), un’altra invasione ma stavolta da Ovest, minaccia l’attuale governo magiaro, limitandone l’indipendenza e ponendo il Paese in una sorta di libertà condizionata. Lo testimoniano i ripetuti attacchi da parte delle istituzioni europee, che mirano a imporre il rispetto delle norme del cosiddetto “Stato di diritto”, ricattando Budapest sull’approvazione del piano ufficiale di ripresa e resilienza (Europa contro Ungheria su stato di diritto e Recovery fund – Tempi) nel tentativo di imporre un’agenda Lgbt.
Forse per questo motivo è necessario non isolare nuovamente la resistenza ungherese, ora che il processo rivoluzionario ha mutato forma e volto rispetto alla sua fase comunista, ma non ha abbandonato la sua natura disgregatrice.
Sabato, 23 ottobre 2021