Enzo Peserico, Cristianità n. 193-194 (1991)
Un attacco scomposto e violento da parte del sistema d’informazione italiano ha accompagnato l’uscita dell’ultimo lavoro di Vittorio Messori, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, dopo la presentazione del libro, avvenuta il 30 agosto 1990, durante l’undicesima edizione del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli svoltosi a Rimini.
Ma l’oggetto della querelle non è stato il testo presentato nell’occasione — che nessun maître à penser della cultura e della politica intervenuto nel “dibattito” aveva probabilmente neppure sfogliato — quanto il periodo della storia d’Italia che va sotto il nome di Risorgimento: infatti, il volume di Vittorio Messori, oltre a illustrare la vita e l’opera del beato Francesco Faà di Bruno, ricostruisce alcuni tratti dell’unificazione forzata dell’Italia sotto il dominio del Regno di Sardegna.
Di conseguenza, i destinatari dell’attacco, più che Vittorio Messori — peraltro bersaglio di invettive da stadio coralmente lanciate dai notabili di tutta la classe politica nazionale — risultavano subito essere i cattolici integralisti, secondo il Partito Repubblicano Italiano violenta genìa di “mestatori fanatici” (Corriere della Sera, 31-8-1990) che, con “le volgarità e le insolenze di Rimini”, vogliono rimettere in discussione “l’intero equilibrio tra laici e cattolici”, minacciando addirittura — ad avviso del sen. Giovanni Spadolini, presidente del Senato della Repubblica — l’Europa federata (cfr. ibid., 1-9-1990).
Non è difficile immaginare che il meno turbato dalla gazzarra laicista sarebbe stato proprio lui, il beato Francesco Faà di Bruno, che per tutta la vita dovette sperimentare di persona l’altra faccia della “tolleranza” liberale, quella della persecuzione culturale, condotta utilizzando mezzi e in vista di obbiettivi non dissimili da quelli odierni, cioè perseguendo la demonizzazione dell’avversario attraverso l’uso reiterato di slogan e di parole-talismano, quale appunto “integralista”.
Vittorio Messori nasce a Sassuolo, in provincia di Modena, nel 1941; studia a Torino, dove si laurea in scienze politiche, quindi — giornalista professionista — lavora a lungo nei quotidiani del gruppo de La Stampa; passa poi a Milano, e attualmente è collaboratore fisso del mensile Jesus e del quotidiano Avvenire. Noto soprattutto attraverso la seguitissima rubrica trisettimanale Vivaio, pubblicata appunto su Avvenire, è autore di due saggi di larga diffusione internazionale, Ipotesi su Gesù (1a ed., SEI, Torino 1976) e Scommessa sulla morte (1a ed., SEI, Torino 1982). Inoltre, ha pubblicato Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1985; cfr. recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XIII, n. 122-123, giugno-luglio 1985), che ha avuto vasta risonanza negli ambienti laici ed ecclesiastici del mondo cattolico per la coraggiosa analisi della situazione della Chiesa svolta dall’autorevole Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un quarto libro di Vittorio Messori, Inchiesta sul cristianesimo (SEI, Torino 1987), raccoglie una serie di interviste a personaggi della cultura e della politica attorno ai rapporti tra fede cristiana, libertà e politica.
Com’è nello stile dell’autore, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno si presenta come un itinerario alla scoperta del personaggio, nato nel 1825 ad Alessandria e morto nel 1888 a Torino, nel quale egli si imbatte quasi senza volerlo, come narra il primo capitolo del volume, Un “santo di quartiere” (pp. 9-61). L’incontro inizia nella giovinezza di Vittorio Messori a Torino, trascorsa all’ombra del campanile della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, realizzata in base a un ardito progetto di Francesco Faà di Bruno, e che svetta tuttora sulla città, a essa mostrando l’arcangelo Michele che, ad ali spiegate, chiama con la tromba i morti a giudizio, in simbolica antitesi alla Mole Antonelliana, sulla cui sommità fu posto originariamente un “genio alato” del Progresso umano, poi crollato.
L’itinerario prosegue con l’incontro di una suora Minima del Suffragio, la congregazione fondata dal beato, e si approfondisce grazie a una conversazione con il card. Pietro Palazzini, al tempo prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Dal card. Pietro Palazzini — che ha dedicato al venerabile Francesco Faà di Bruno un’“opera monumentale, praticamente definitiva” (p. 49), e quindi non casualmente a fianco di Vittorio Messori durante la conversazione al Meeting di Rimini — viene la conferma dell’eccezionalità della figura incontrata: aristocratico che, pur mantenendo sempre alto il senso della propria dignità, sa rinunciare ai privilegi del suo ceto; ufficiale, decorato al valor militare, che rinuncia a una prestigiosa carriera; scienziato e professore universitario di fama mondiale, eppure ostacolato nell’insegnamento dal potere massonico; inventore, ingegnere, musicista e giornalista; educatore e fondatore laico di una congregazione femminile; quindi, in età matura, sacerdote zelantissimo.
Infine, per Vittorio Messori l’incontro con questa figura eccezionale diventa personale e sorprendente: il beato Francesco, attraverso la “consolante certezza della fattiva solidarietà tra vivi e morti”, interviene come “fratello caritatevole” nel bisogno dell’autore (p. 54).
Grazie a questo itinerario, l’incontro con Francesco Faà di Bruno fa nascere un “affetto solidale” (p. 9) ed è punto di partenza per una riflessione sulla santità, sul rapporto fra fede e scienza, fede e politica, cattolicesimo e unità italiana.
Nel secondo capitolo — Le tappe di un’avventura (pp. 63-82) — Vittorio Messori fornisce “le coordinate biografiche precise ed intere” della vita e delle opere del beato piemontese (p. 63) — su cui cfr. anche Massimo Introvigne, Il ven. Francesco Faà di Bruno, in Cristianità, anno VII, n. 48, aprile 1979 —, quindi passa — nel terzo capitolo, Il segreto del cristiano (pp. 83-100) — a studiarne la santità: “Come tutto nel cristianesimo, quel cristiano “ben riuscito” che è il santo è il frutto dell’iniziativa divina e della collaborazione dell’uomo” (p. 89). La santità di Francesco Faà di Bruno muove da “un temperamento non certo languido, snervato, carente di ormoni” (p. 90) e si caratterizza attraverso l’impegno di tutta una vita “[…] da vivere con serietà in ogni aspetto, perché occasione irripetibile di guadagno dell’eternità” (p. 94). Perciò egli poteva così sintetizzare le sue aspirazioni e i suoi progetti: “Per me, ora, l’unico affare, se Dio mi sostiene, è di vivere da santo e di meritare di fare una buona morte. Tutto il resto è veramente inutile e non sono che giochi da ragazzi” (p. 88). Giochi, appunto, come la carriera: “Fu quel suo cattolicesimo intransigente, a viso aperto — e quello soltanto — che gli bloccò prima la carriera militare, poi quella politica, infine quella scientifica” (p. 90).
Fu questo stile di vita, caratterizzato dall’amore per Cristo e per il prossimo, a guidare tutta la sua esistenza, sia che “[…] si levasse ogni notte, sottraendo altre ore al già scarso riposo, per mettersi in preghiera davanti allo spioncino che aveva fatto apprestare per vedere l’altare della chiesa e il tabernacolo” (p. 96); sia che con profonda umiltà si dedicasse alla enorme mole di opere sociali da lui fondate e organizzate. Egli orienta il suo apostolato — che lo affianca agli eccezionali santi fondatori della Torino dell’Italia reale, cioè cristiana, dell’Ottocento, fra i quali san Giovanni Bosco e san Leonardo Murialdo — soprattutto verso le donne e le ragazze del nuovo proletariato urbano. Alla descrizione di queste opere sono dedicati i capitoli quinto, sesto e settimo, Una benefica “alienazione” (pp. 123-149), Un aiuto concreto (pp. 151-168) e Non di solo pane (pp. 169-179): nel 1859 istituisce la Pia Opera di Santa Zita, “grazie al suo patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed elemosinando alla porta delle chiese”, “per il ricovero, l’istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane o appena inurbate” (p. 72), affinché esse fossero — sono sue parole — “strumento di pace e di concordia all’interno delle famiglie in cui lavorano” (p. 128).
Si tratta di una vera e propria “città delle donne” a servizio della quale nel 1868 costruisce la chiesa di Nostra Signora del Suffragio e nel 1869 istituisce una congregazione di suore, le Minime di Nostra Signora del Suffragio. A queste seguiranno una serie impressionante di opere a favore del proletariato urbano, prodotto e insieme rifiuto del nascente potere liberal-massonico, preoccupato di rispondere alla carità cristiana con la retorica ideologica degli “uomini finti” — la retorica che caratterizza Cuore, di Edmondo De Amicis —, ma che sempre lesinò nel contribuire ad alleviare la miseria delle masse urbane diseredate.
In mezzo a tutte queste attività apostoliche, Francesco Faà di Bruno — come viene descritto nel capitolo quarto, Fede e scienza: insieme (pp. 101-121) — non tralascia gli studi scientifici che lo rendono noto in tutta Europa e negli Stati Uniti. Quale migliore risposta allo scientismo positivista dell’Ottocento, se non “il “prodigio” di riuscire a unire in sé quelli che erano creduti degli opposti” (p. 117), cioè la “[…] mentalità più moderna, più aperta al vero progresso, con la fedeltà alla Tradizione cattolica più classica”? (pp. 116-117).
Proprio il campanile della chiesa da lui progettata costituisce, nell’accordo fra scienza e fede, “una dichiarazione di fede cattolica fatta, volutamente, con lo stesso linguaggio della ragione con cui l’Ottocento pensava di liquidare quella fede medesima. È il paradosso — che si compone, a sorpresa, in superiore armonia — dell’arcangelo biblico che suona la tromba della chiamata degli uomini al tribunale del Cristo, poggiando però sul piedestallo costruito dall’ardimento e dalle conoscenze moderne” (pp. 110-111).
L’ultimo capitolo del libro — Il cattolico e il cittadino (pp. 181-211) —, come ho già accennato, introduce una riflessione salutare sul Risorgimento, probabilmente scomoda e demitizzante anche per molto cattolicesimo sedicente democratico, ma ben lontana dal risultare — come ha invece sostenuto l’on. Giulio Andreotti — “un anacronismo generico” (Avvenire, 1-9-1990). In esso sono interessanti, per esempio, i dati sulle elezioni per il primo Parlamento unitario: su una popolazione di ventidue milioni di abitanti “solo 419.938 avevano diritto al voto”; i voti validi, su 242.367 votanti, “si ridussero a 170.567, di cui oltre 70.000 erano di impiegati statali cui il governo stesso autorevolmente “consigliava” per chi votare” (p. 193).
In conclusione, l’opera di Vittorio Messori ci consegna la figura del beato Francesco Faà di Bruno quale “contemplativo in azione”, dotato di eccezionali talenti e beneficiato di singolari doni spirituali, che “vivrà sino in fondo, da protagonista, il lacerante “caso di coscienza del Risorgimento”, come è stato chiamato quello dei cattolici italiani, costretti a dividersi tra amore di patria e amore di una Chiesa perseguitata da quella patria medesima” (p. 182). Ma Francesco Faà di Bruno non indugia: proprio la molteplicità dei campi in cui profonde la sua attività testimonia la sua comprensione del fatto che la “battaglia dell’ora” non si limitava alla difesa dall’attacco sferrato da un potere ostile al cattolicesimo, ma piuttosto che la Rivoluzione anticristiana andava combattuta “in tutti i dominii dell’azione dell’uomo, dalla scienza all’arte, dalla battaglia sociale e politica alla filosofia” (M. Introvigne, art. cit.).
Dunque, “un cattolico integrale, una gloria per la Chiesa. Ma anche un cittadino esemplare” (p. 210): insomma, un “italiano serio“, capofila di quella schiera di santi ignoti che, costituendo il tesoro nascosto ma grandioso della storia degli italiani, ci rendono oggi partecipi di legami di terra e di sangue molto più reali e fecondi di quelli immaginati dalle caricature tricolori di oscuri “fratelli” d’Italia, cari ormai soltanto ai loro nostalgici nipotini.
“Italiani seri” che non hanno bisogno di difesa, ma più urgentemente di trovare figli che ne rinnovino con la propria vita l’intelligenza e il cuore: perché, come suggerisce Vittorio Messori attraverso un’epigrafe al testo, tratta da Evagrio Pontico, monaco del secolo IV, “a una teoria si può rispondere con un’altra teoria. Ma chi mai potrà confutare una vita?”.
Enzo Peserico