Massimo Introvigne, Cristianità n. 376 (2015)
Testo annotato della relazione conclusiva del convegno «… Perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20): persone, drammi, prospettive, organizzato da Alleanza Cattolica e dall’Associazione Integra Onlus a Milano, presso l’Hotel Mediterraneo, il 28-3-2015.
La mia breve relazione conclude non un convegno, ma due in uno: uno sui cristiani perseguitati e uno sui rifugiati e i migranti che — in un momento in cui l’immigrazione verso l’Italia di chi cerca lavoro diminuisce a causa della crisi economica — sono sempre più spesso persone in fuga dalla guerra, dalla disperazione e dalla persecuzione religiosa. E molti di loro sono cristiani.
Mi limito a trarre alcune conclusioni sui cristiani perseguitati, attraverso due elementi di fatto e sei di analisi.
Comincio dagli elementi di fatto.
1. Papa Francesco lo ha affermato più di venti volte nel suo pontificato e ne avevano già parlato spesso anche san Giovanni Paolo II (1978-2005) e Benedetto XVI (2005-2013): Vi è il paradosso dei cristiani perseguitati. I cristiani sono la minoranza più perseguitata del mondo, ma sono quella di cui i media parlano di meno. Vi è anche un grande conflitto sui numeri. In questo campo, come in molti altri, le statistiche sono esse stesse politiche. Ho scritto spesso su questo tema e vi rimando ai miei testi, facilmente reperibili anche online. Vi è un po’ di confusione sui «martiri», cioè i cristiani che offrono volontariamente la loro vita per Cristo e per la Chiesa — nella Chiesa Cattolica, i candidati almeno potenziali alla beatificazione, com’è certamente Shahbaz Bhatti (1968-2011) — e i cristiani uccisi a causa diretta o almeno indiretta della loro fede. I primi sono qualche migliaio; i secondi sono oltre centomila all’anno: uno ogni cinque minuti. Eppure se ne parla così poco.
2. Ieri, 27 marzo 2015, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per la prima volta della sua storia ha dedicato una seduta straordinaria ai cristiani perseguitati in Medio Oriente: o meglio così doveva essere, ma in seguito si è preferito intitolarla alle «minoranze religiose ed etniche perseguitate in Medio Oriente». Comunque sia, si è parlato soprattutto dei cristiani e ha testimoniato davanti al Consiglio il patriarca caldeo-cattolico di Babilonia Louis Raphaël I Sako. Come qualcuno ha rilevato, i consueti veti incrociati dei membri permanenti del Consiglio e l’irruzione non prevista della questione dello Yemen hanno impedito di votare un documento conclusivo che contenesse proposte serie e concrete. Vedo anch’io il bicchiere mezzo vuoto. Posso anche rincarare la dose, segnalando lo strabiliante intervento del governo italiano. Penso di avere sensibilità istituzionale, ho ricoperto incarichi pubblici e mi scuso in anticipo se dovessi mettere in difficoltà i rappresentanti delle istituzioni qui presenti. Però l’intervento italiano nella seduta straordinaria merita almeno un cenno. Ora infatti i cattivi tremano e i buoni si rassicurano. L’Italia non solo ha affermato che le prime vittime dell’ISIS sono i musulmani — affermazione che può certo avere, a patto di spiegarla, un significato politico, ma se parliamo di vittime dell’ISIS nella popolazione civile, fra uccisi e costretti all’esilio, la proporzione fra non musulmani e musulmani è di cento a uno — ma ha minacciato misure veramente finali. Quando è troppo è troppo. Il governo Renzi si è detto pronto a passi estremi e a mandare in Iraq un battaglione di… psicologi. Già immaginiamo il califfo rigirarsi insonne nella sua tenda in preda al terrore: «Arrivano gli psicologi italiani, arrivano gli psicologi italiani…». Per la verità, se avesse letto qualche dichiarazione del presidente dell’Ordine degli Psicologi sul gender, il califfo avrebbe davvero di che spaventarsi. Ma è vero che di solito reagisce in modo piuttosto sbrigativo.
Però vedo anche il bicchiere mezzo pieno. Nel 2011 sono stato Rappresentante dell’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Co-operazione in Europa per la lotta al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza e discriminazione contro i cristiani e i seguaci di altre religioni, e ho cominciato a importunare le Nazioni Unite perché facessero precisamente qualche cosa di questo genere. Ora lo hanno fatto e si tratta comunque di un passo simbolicamente importante, oserei dire, a prescindere da che cosa poi è stato detto e concluso. Orbene, tranne Avvenire nessuno dei quotidiani nazionali italiani ha dedicato alla seduta del Consiglio di Sicurezza un trafiletto. Neanche una riga. Eppure c’erano il segretario generale delle Nazioni Unite, ministri e capi di Stato. C’era formalmente anche l’Italia. Non una parola. Perché?
In questo convegno abbiamo parlato di tante cose, ma io credo che questo sia il tema decisivo. Perché i cristiani sono la minoranza più perseguitata del mondo e quella di cui si parla di meno? La risposta a questa domanda ci dice molto non solo sui cristiani perseguitati, ma su di noi.
Senza poterle sviluppare, vi offro sei piste di risposta, sei aree su cui lavorare nei prossimi mesi.
1. Non si parla dei cristiani perseguitati perché, dal 1989, ci si rifiuta di fare i conti con il comunismo. La necessità di questi conti emerge ogni volta che i cristiani ammazzati dai comunisti ci ricordano due cose: che il comunismo uccide e che il comunismo esiste ancora. Il Paese che ammazza il maggior numero di cristiani è la Corea del Nord. E anche in Cina — sì, in Cina, con tutti quei negozi di Prada — ogni tanto qualche cristiano scomodo sparisce, e non lo trovano più. Cominciare a riflettere sul fatto che vi sono luoghi dove i comunisti esistono ancora e si fanno ancora sentire — che so, la Corea del Nord, la Cina, Milano — sarebbe un buon punto di partenza per affrontare il tema del giudizio storico sul comunismo. Dunque è vietato parlarne.
2. Non si parla dei cristiani perseguitati perché si dovrebbe affrontare, senza buonismo e naturalmente anche senza uno stolto «cattivismo», il tema dell’ultra-fondamentalismo islamico. In questo convegno è stata ripetuta una verità facile: non tutti i musulmani sono fondamentalisti. Lo dicono in molti, da Papa Francesco al mio barbiere, che evidentemente ha dei clienti islamici. Ed è vero. Io vi propongo anche due verità difficili. La prima è che non tutti i fondamentalisti musulmani sono terroristi e vogliono uccidere i cristiani. Per definizione i fondamentalisti li vogliono sempre in qualche modo discriminare, questo sì. Ma non tutti li vogliono uccidere. Vi sono anche fondamentalisti che vogliono il voto dei cristiani per i loro partiti nelle elezioni. La galassia islamica è molto complessa e le distinzioni vanno fatte tutte, una per una. La diplomazia e l’arte di salvare vite cristiane non possono ignorare che nel mondo islamico vi sono partiti fondamentalisti con cui il dialogo è possibile e necessario, così come vi sono partiti cosiddetti laici guidati da criminali e da tagliagole. La seconda verità difficile è che, se è vero che non tutti i musulmani sono fondamentalisti e non tutti i fondamentalisti sono terroristi, è altrettanto vero che gli assassini di cristiani di al-Qa’ida, dell’ISIS e di altre formazioni, sono musulmani. Sono un problema complesso emerso all’interno della storia del fondamentalismo islamico. Non si può dire che non c’entrano con questa storia. È una storia con cui i musulmani e i non musulmani dovrebbero fare i conti. Dirlo non è politicamente corretto. Di qui nuovi divieti di parlare dei cristiani perseguitati.
3. Non si parla di altri cristiani perseguitati perché si dovrebbero mettere in dubbio certi miti radicati del terzomondismo e dell’anticolonialismo per cui tutti i mali vengono dall’Occidente e, una volta liberati dal dominio coloniale, i popoli dell’Africa e dell’Asia avrebbero potuto finalmente dedicarsi alla loro occupazione preferita, i balletti folklorici con offerta finale di fiori agli amici e magari anche ai nemici. Certo, lo abbiamo sentito dire in questo convegno, l’Occidente ha le sue colpe e le sue cambiali non pagate. Tuttavia la persecuzione dei cristiani — pensiamo al nazionalismo indù nello Stato dell’Orissa in India, agli orrori della guerra dello Sri Lanka evocati da Papa Francesco, alle tante stragi tribali in Africa che spesso sono stragi di cristiani — costringe a riflettere sulla presenza nei continenti asiatico e africano di etno-nazionalismi e tribalismi spesso violenti e sanguinari. Siccome a parlarne si è scambiati per razzisti e neocolonialisti, ecco che si è invitati a non citare neppure le loro vittime cristiane.
4. Quando anche si riesce a dire qualche parola, si tratta di parole mutilate. Tanti libri neri, rosa o rossi della persecuzione dei cristiani che si trovano in libreria offrono certamente informazioni utili, ma sono come libri gialli cui un libraio impazzito ha strappato le ultime pagine. Morti ce ne sono a profusione, ma non vi è mai il colpevole. Ma il libraio non è pazzo, è solo affetto da prudenza alla Don Abbondio. Il colpevole ci vende il petrolio, ci minaccia con la bomba atomica, compra i nostri prodotti, qualche volta compra anche i nostri buoni del tesoro e se li vendesse tutti insieme chissà che fine farebbe lo spread. Così al massimo si riesce a parlare delle vittime. Ma mai dei colpevoli e meno che mai delle ideologie che li ispirano.
5. Non si parla dei cristiani perseguitati perché è molto difficile farlo senza parlare del cristianesimo. Non li perseguitano perché hanno la pelle di un certo colore, perché sono belli o brutti. Li perseguitano perché testimoniano Gesù Cristo, quello crocifisso. Siccome — parafrasando, ma al contrario, san Giovanni Paolo II — si vogliono chiudere, anzi sbarrare le porte a Cristo, alla sua verità sulla storia, sull’uomo, sull’economia, sulla politica, sulla vita, sulla famiglia, ecco che si preferisce non parlare dei cristiani perseguitati. Perché non si sa mai: si comincia con il parlare dei cristiani ammazzati per la loro fede e poi si rischia di finire a parlare del cristianesimo.
6. Infine — ma non è assolutamente l’aspetto meno importante — non si parla delle persecuzioni perché dire che la libertà religiosa dei cristiani è violata presuppone che ci si chieda, come abbiamo fatto in questo convegno, che cos’è la libertà religiosa. E se da noi, in Occidente, in Europa c’è o non c’è. La risposta è che non c’è. Certamente nessuno neppure immagina di mettere sullo stesso piano le torture e le stragi in Africa e in Asia con la discriminazione e l’intolleranza dei cristiani da noi. Però intolleranza e discriminazione ci sono.
Ieri, 27 marzo, non è stata solo la giornata della seduta straordinaria del Consiglio di Sicurezza. Da quella parte dell’Atlantico è successa anche un’altra cosa. Il governatore dello Stato dell’Indiana ha firmato una legge statale sulla libertà religiosa, come ne esistono in altri Stati degli Stati Uniti. Chi potrebbe essere contrario — negli Stati Uniti, non in Corea del Nord — a una legge sulla libertà religiosa? Eppure il governatore ha ricevuto immediatamente una lettera firmata dagli amministratori delle maggiori aziende multinazionali americane dove lo s’informa che, se resta la legge, gli eventi e i congressi organizzati da queste aziende nell’Indiana saranno cancellati, con grave danno per l’economia dello Stato. Come mai? Perché la legge dell’Indiana ha una clausola che esclude dall’ambito di applicazione delle leggi sull’omofobia i sermoni pronunciati nelle chiese e permette l’obiezione di coscienza per motivi religiosi anche ai titolari di esercizi privati cui venissero richiesti servizi incompatibili con la loro fede. Si tratta dei famosi fioristi cristiani che rifiutano di preparare composizioni floreali e dei famosi pasticceri che rifiutano di preparare torte con decorazioni e scritte che celebrano un «matrimonio» omosessuale. Chi fa queste cose terribili negli Stati diversi dall’Indiana ha già subito pesanti condanne per omofobia. Ora gli amministratori delegati delle più grandi aziende americane dicono che questa legge è inaccettabile perché, se mandassero a un congresso nell’Indiana i loro dipendenti omosessuali, questi potrebbero andare in chiesa, sentire un sermone omofobo e turbarsi, per non parlare dello choc psicologico che potrebbero patire se un fioraio, richiesto di corredare un bouquet con una fascia «John ama Jim», li invitasse a rivolgersi al collega dell’isolato accanto.
Questa è libertà religiosa? Non la è. Come non vi è libertà religiosa dove si cerca di limitare l’obiezione di coscienza dei medici, dei farmacisti, dei funzionari di stato civile che non vogliono celebrare «matrimoni» omosessuali, oppure — succede anche in Europa — si pretende di vigilare su che cosa si dice nelle prediche in chiesa su vita e famiglia.
Questi attacchi sono sullo stesso piano degli incendi di chiese e dei cristiani gettati vivi nelle fornaci di cui ha parlato Paul Bhatti? No, non lo sono. Però vi è una logica di piano inclinato per cui dall’intolleranza si passa alla discriminazione e dalla discriminazione alla persecuzione. Quando la pallina che scivola sul piano inclinato ha preso velocità, nessuno la ferma più. Bisogna fermarla prima. Per questo dobbiamo fermare subito la discriminazione e l’intolleranza dei cristiani non solo in Africa e in Asia ma qui, in Occidente, in Europa, in Italia, prima che parta la corsa sul piano inclinato e si arrivi alla violenza e alla persecuzione.