di Domenico Airoma
1. L’etimologia
“Associazione segreta con leggi proprie, avente lo scopo di procacciare, con qualsiasi mezzo, favori e guadagni a coloro che ne fanno parte”: così un dizionario della lingua italiana, il Devoto-Oli, spiega la voce “camorra”, una realtà – aggiunge – “tipica della malavita napoletana”. L’etimologia più accreditata la fa derivare dal termine mediterraneo “morra”, che significa “rissa”, “confusione”; inoltre, la “morra” era un gioco molto diffuso a Napoli, “camorrista” era il “capo della morra, colui che dirige il gioco e prende i soldi su di esso”, e con tale significato “morra” compare per la prima volta, nel 1735, in un documento ufficiale del regno, una prammatica, un’ordinanza del sovrano con la quale venivano autorizzate case da gioco.
2. Le origini
La dinamicità del fenomeno camorristico, la molteplicità dei clan, il carattere aperto e non esclusivamente familistico delle organizzazioni, spiegano le difficoltà che ha incontrato la storiografia nell’identificare le origini e nel descrivere le caratteristiche della camorra.
Trascurando ipotesi meno facilmente accreditabili – benché non poco suggestive, come quella di una derivazione spagnola -, la maggior parte degli storici indica la data di nascita, per così dire ufficiale, della camorra, utilizzando come punto di riferimento un “processo” svoltosi davanti al tribunale della camorra, la cosiddetta “grande mamma”, nel 1819-1820, processo del quale è conservata traccia nell’archivio di polizia. Inoltre, è opinione prevalente nella storiografia che il fenomeno camorristico nasca nelle carceri. In tal senso deporrebbero una prammatica, emanata nel 1573 dal vicerè, card. Antoine Perrenot de Granvelle (1517-1586), secondo cui “a nostra notizia è pervenuto che dentro le carceri della Vicaria si fanno molte estorsioni dai carcerati, creandosi l’un l’altro Priori, facendosi pagare l’olio per le lampade e facendosi dare altri illeciti pagamenti”; nonché l’uso da parte degli adepti di un linguaggio convenzionale e il ricorso a riti di iniziazione modellati su quelli massonici, probabili effetti della convivenza carceraria con liberali e con cospiratori anti-borbonici. Non si può neppure escludere che il radicamento nel corpo sociale sia stato favorito dalla tendenza della malavita napoletana a organizzarsi in compagnie – si citano sovente, come esempio, la Compagnia della Morte, la Compagnia degli Impeciati, gli Abati di Mezza Sottana, donde deriva verosimilmente l’appellativo di compagni, scambievolmente usato dai camorristi -, né che base per il reclutamento dei guaglioni – il primo livello di appartenenza – sia stata una certa parte turbolenta della plebe partenopea, tradizionalmente identificata nei guappi e nei lazzaroni, nei bravacci e nei fannulloni.
Comunque, si può affermare fondatamente che la camorra attecchisce con la modernizzazione dell’assetto socio-politico del regno borbonico. L’accentramento politico-amministrativo, il progressivo decadere del sistema organizzativo imperniato sui Sedili, cioè sugli organismi di rappresentanza della nobiltà e del popolo napoletani, l’inurbamento della nobiltà e di una consistente parte della popolazione rurale, privata della tutela feudale degli usi civici, sottopongono Napoli, la seconda città europea, dopo Parigi, per numero di abitanti, a un processo di rapida trasformazione, che registra il graduale affermarsi dei camorristi quale élite non solo della variegata plebe urbana, impegnata spesso in attività al limite della legalità, ma anche di un emergente ceto mercantile. Pur conservando il modulo strutturale settario – con diversi gradi di appartenenza e uno statuto, il frieno, destinato a disciplinare l’esercizio della violenza -, l’Onorata Società avverte la necessità di segni esteriori di riconoscimento – l’abbigliamento, l’acconciatura dei capelli, i monili, la perizia nell’uso del coltello -, che valgano a sancirne il ruolo non solo di “partito della plebe” – come ritiene riduttivamente il sociologo Isaia Sales -, bensì quale “mezzo di ordine”, “governo naturale” del disordine, secondo definizioni dello storico liberale Pasquale Villari (1826-1917), riprese anche dalla Commissione Parlamentare Antimafia nella relazione del 21 dicembre 1993.
“Mancando istituzioni sociali naturali e rispettate, popolari o governative, che tramezzassero fra governanti e governati” – scrive lo storico liberale Pasquale Turiello (1836-1902) -, la camorra diventa l'”unica grande mediatrice” – la qualificazione è nel citato documento della Commissione Parlamentare Antimafia -, che “promette per ottenere, e ottiene promettendo”, come si osserva nella relazione della Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, del 1901. E, secondo l’analisi dello storico liberale Giustino Fortunato (1848-1932), l’operazione camorristica viene svolta sia in basso, con l’imposizione di contribuzioni alle arti, ai mestieri e alle attività illecite, che in alto, traendo “[…] alimento, per opera della borghesia, nei commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei grandi istituti, nei circoli, nella stampa”.
3. L’istituzionalizzazione, l’eclissi nel ventennio fascista e la rinascita nel secondo dopoguerra
Il prefetto Liborio Romano (1793-1867), nel 1860, riconosce dignità istituzionale alla camorra, affidando a essa il compito di organizzare la guardia nazionale cittadina, allo scopo di consentire, allontanando il pericolo di rivolgimenti popolari “sanfedistici”, il trapasso incruento del potere nelle mani dell’autorità dell’appena istituito Regno d’Italia. Tale ufficializzazione rappresenta il “corollario” – il giudizio è della sociologa Marcella Marmo – di un rapporto di collaborazione mercenaria fra cospiratori liberali e camorristi e segna, pur fra l’alternarsi di repressione e di tolleranza, l’avvio di quell’utilizzo opportunistico-clientelare della camorra da parte dei governanti nazionali e locali per tutto il periodo seguente l’Unità d’Italia. L’Onorata Società, dal canto suo, si organizza stabilmente secondo un modello federativo di gruppi, non necessariamente a base familistica, come “governo parallelo” della società napoletana – l’osservazione è della stessa Marcella Marmo -, affiancando al tradizionale sistema estorsivo il monopolio del contrabbando, puntando sempre a occupare gli spazi lasciati dalle istituzioni e mai presentandosi come alternativa a esse. L’occupazione statalista di tali spazi sociali da parte del fascismo spiega, pertanto, al di là della pur violenta persecuzione, il ripiegamento, negli anni 1930 e 1940, sullo sfruttamento delle originarie attività illecite da parte della camorra, che approfitterà del disordine dell’immediato dopoguerra per riproporsi come regolatrice del nuovo assetto sociale ed economico: emblematico è il ruolo dei camorristi nei mercati dei prodotti ortofrutticoli e del bestiame, dove agiscono da mediatori, fissando prezzi e riscuotendo tributi. La riorganizzazione della camorra, sempre in chiave federativa, si completa negli anni 1970, grazie soprattutto all’opera di numerosi capi-mafia inviati al confino proprio nel Napoletano, sulla base dell’interesse della mafia rappresentato dall’utilità del porto partenopeo per il contrabbando di sigarette. L’apprendimento del know how delinquenziale mafioso accresce la “professionalità” dei camorristi, che incominciano ad affacciarsi sulla scena criminale internazionale. La “mafizzazione” della camorra – secondo Sales -, come tentativo di costruire un’organizzazione gerarchizzata e centralizzata, trova realizzazione nella Nuova Camorra Organizzata, capeggiata da Raffaele Cutolo, e nella Nuova Famiglia, diretta dal clan dei Nuvoletta. Ma la vocazione gruppuscolare della camorra prenderà ben presto il sopravvento, fra regolamenti di conti e vere e proprie stragi, sì da determinare il fallimento anche della Nuova Famiglia Campana, di Carmine Alfieri. Non fallisce, però, negli anni 1980, l’ingresso dei camorristi, non più solo come tangentisti ma anche nella veste di imprenditori, nei circuiti economici, nei quali viene immessa l’ingente liquidità proveniente dal contrabbando e dal traffico degli stupefacenti.
4. Il “dopo-terremoto” e il consolidamento della camorra-impresa
L’espansione dell’intervento dello Stato nell’economia, l’ingente trasferimento di risorse finanziarie in Campania dopo il terremoto del 1980, l’attribuzione agli enti locali del potere di gestione dei fondi connessi alla ricostruzione, inducono la camorra ad alzare il prezzo del sostegno clientelare fornito ai politici – sono questi gli anni che registrano i primi agguati camorristici a esponenti politici locali -, ottenendo di partecipare a quel sistema di “imprenditoria istituzionale”, che ha caratterizzato la vita politica ed economica della regione a partire dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, fase da taluni definita “seconda modernizzazione”. “È importante sottolineare che attorno agli enti locali e alla loro crescente funzione economica si è sviluppato un particolare tipo di mercato, il mercato politico, che ha schiacciato tutta l’attività economica sulla politica, selezionando politicamente il sistema delle imprese e impedendo il formarsi di processi reali di autonomia della società civile. Il potere politico è diventato così il regolatore assoluto della vita sociale ed economica […]. Una economia dunque sempre più pubblica, una società civile sempre meno autonoma, una selezione distorta delle imprese, una società politica sempre meno controllata e condizionata” – scrive sempre Sales -, un contesto, pertanto, di disordine economico-politico-istituzionale consente ai camorristi di consolidare la propria funzione di “governo parallelo”, da un lato incrementando i profitti, dall’altro presentandosi alle comunità locali come datori di lavoro e dispensatori di sussidi pubblici. Nell’esercizio di tale funzione, la camorra mostra un’assoluta indifferenza ideologica, promettendo e ottenendo da qualsiasi interlocutore politico-imprenditoriale, tanto da far affermare al boss Pasquale Galasso: “Noi potevamo fare affari con tutti, non avevamo problemi. Chi me lo doveva dire che mi avrebbero addirittura dato soldi le ditte comuniste!”. La consacrazione del ruolo istituzionale della camorra si consumerà in occasione del rapimento, da parte delle Brigate Rosse dell’assessore regionale Ciro Cirillo, quando i capi camorristi faranno valere i propri rapporti con gli ambienti terroristici per ottenere la liberazione dell’uomo politico.
5. Critica
Pur non essendo connaturata alla camorra, a differenza della mafia, l’aspirazione a porsi come anti-Stato, la sua tendenza a regolare ogni ambito d’illegalità fa sì che il suo raggio d’azione si estenda in misura direttamente proporzionale all’accrescersi del dis-ordine nei rapporti società-Stato e al progressivo venir meno di punti di riferimento sociali, istituzionali e culturali. Ciò spiega altresì – secondo la Commissione Parlamentare Antimafia – la “forza attrattiva dei modelli camorristici” sui giovani, per i quali “la camorra è l’unico soggetto che riesce a dare un’identità ed una parvenza di integrazione”. Pertanto, un’efficace terapia anti-camorra non può prescindere da una radicale riforma morale e sociale che, sanando la frattura fra società e autentica moralità, elimini la causa ultima del fenomeno: il dis-ordine inteso come sovvertimento dell’ordinato rapporto fra uomo, società e Stato.
Per approfondire: vedi prospettive storiche, in Marco Monnier (1829-1885), La Camorra, Argo, Lecce 1994; e Pasquale Villari, Scritti su mafia, camorra e brigantaggio, Vallecchi, Firenze 1995; informazioni e prospettive sociologiche, in AA. VV., Camorra e criminalità organizzata in Campania, a cura di Francesco Barbagallo, Liguori, Napoli 1988; Isaia Sales, La camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988; Commissione Parlamentare Antimafia, Camorra e Politica, Laterza, Roma-Bari 1994; e Marcella Marmo, Tra le carceri e i mercati. Spazi e modelli storici del fenomeno camorristico, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Campania, Einaudi, Torino 1990.