Il ricordo di un medico verso l’assistente dei medici cattolici. E la gratitudine per il contributo scientifico a una “bioetica italiana”.
di Chiara Mantovani
Sabato 5 agosto 2017 è morto il cardinale Dionigi Tettamanzi (1934-2017). Ha lasciato l’esilio terreno nella vigilia della festa della Trasfigurazione, che l’Oriente cristiano venera con la speciale solennità riservata alle epifanie del Cristo, e nell’anniversario di morte di un altro suo predecessore, il beato Giovanni Battista Montini (1897 – 1978), Papa Paolo VI. Ed era il primo sabato di agosto: è dolce pensare che la “Madunina” che risplende sulla guglia del Duomo milanese sia accorsa «in fretta» (cfr Lc 1, 39) ad accogliere un figlio fedele che l’amava molto.
Era nato nel 1934 a Renate, in provincia di Monza-Brianza, un luogo che per identità è decisamente milanese. E milanese in questo modo lo era anche il card. Tettamanzi, per come parlava e nell’arguzia, lo ricordo, ammirata per la grande capacità di sintesi anche nell’ascolto estemporaneo, per la straordinaria buona volontà di comporre le differenze senza mortificare nessuno, per la pratica tutta cattolica dell’et-et.
L’ho conosciuto quando era arcivescovo di Genova (1995-2002), poiché nel gennaio 1998 aveva ereditato anche la cattedra della assistenza spirituale all’Associazione Medici Cattolici Italiani, dopo i quarant’anni del fondamentale servizio svolto dal cardinale Fiorenzo Angelini (1916-2014). Stava volentieri con i medici, diceva che eravamo riposanti; ci era maestro, per la grande competenza etica, e ci era amico, per la grande cordialità e amabilità che lo caratterizzavano. Eppure è per un altro grande merito che personalmente mi è caro e doveroso ricordarlo con gratitudine.
Se c’è – eccome che c’è! – uno stile tutto italiano di “fare” bioetica, ovvero di ragionare con sapienza e concretezza nei gineprai teoretici delle sfide bioetiche, lo dobbiamo anche a lui. Qualcuno ha coniato il termine “bioetica cattolica”, sostenendo che si è sviluppato un paradigma originale a partire dalle riflessioni della scuola di mons. Elio Sgreccia: e non ha torto, il filosofo professor Giovanni Fornero, nel rintracciare nelle radici di quel pensiero la solidità della legge naturale. Quel modo di applicare un giudizio razionale agli atti concernenti la vita umana e il riconoscimento della sua preziosa dignità, la cura della salute e il progresso delle scienze applicate, insomma, tutto ciò che allora si chiamava tout court “bioetica” e oggi cade piuttosto sotto il capitolo di un altro neologismo, la “biopolitica”, ha tre padri nobili: Dionigi Tettamanzi, Elio Sgreccia e Carlo Caffarra. Anzi, quattro: anche il vescovo spagnolo Ignacio Carrasco de Paula. Ciascuno con gli accenti particolari caratteristici dei propri entroterra formativi, tutti formidabili costruttori di un pensiero argomentativo di rara efficacia.
Li chiamo così – senza titoli, ma con rispetto e venerazione immense – per sottolineare quanto le loro persone e intelligenze abbiano ricevuto dalla loro consacrazione sacerdotale una marcia in più e non una capacità in meno, come molta retorica anticlericale ancora osa teorizzare. Sono i nomi di autentici scienziati, amanti cioè della conoscenza che la ragione umana è in grado di conquistare, da cui solo un razionalismo riduttivo riesce ad escludere le scienze filosofiche e teologiche.
Si deve riconoscenza e stima a chi ha tracciato una rotta che – almeno finora – ha garantito autorevolezza e sviluppo al modo razionale ed insieme sapienziale di fare bioetica, salvando la “bioetica italiana” dalla Scilla del contrattualismo nordamericano e dalla Cariddi del libertarismo nord-europeo.
L’auspicio è che frettolosi e improvvidi tentativi di arruolamenti nelle paludi del dubbio sistematico non offuschino la limpida testimonianza delle ragioni ragionevoli e sapienti che questi autentici maestri ci hanno offerto.