di alfredo mantovano
Più che un presidio contro il mascheramento di possibili terroristi, la sentenza sul velo della Corte di Giustizia europea è una puntata del serial “la religione fa male”. La preoccupazione a base della decisione non è la maggiore sicurezza: se il problema fosse l’identificazione, il divieto si limiterebbe agli indumenti che impediscono del tutto di cogliere i tratti del volto di una persona, in primis il burka. Ma non sarebbe necessario scomodare la religione: il burka, come ha ben chiarito un ignorato parere di qualche anno fa del Ministero dell’Interno italiano, ha molto a che fare con tradizioni territoriali, non con la fede. La Corte europea ammette il divieto del velo, a condizione che esso rientri nel divieto di indossare qualsiasi segno di convinzione religiosa, nessuna esclusa: sul posto di lavoro, in virtù della pronuncia, se sei cristiano non puoi mostrare il ciondolo col Crocifisso, se sei una suora dovrai prestare servizio in ospedale lasciando a casa ogni visibile richiamo confessionale, e così per un ebreo, un ortodosso, e ovviamente un musulmano o uno scintoista. Diciamo che più di una affermazione di laicità, la Corte di Giustizia ha ribadito un dogma laicista: se pure un dettaglio rinvia all’esistenza di Dio, turba il prossimo e va vietato. Qualcuno dice ancora evviva?