di Chiara Mantovani
Come deciso, annunciato e procurato, Charlie Gard è morto. Charlie era molto malato, ma la causa diretta della sua morte non è stata la sua malattia. Si è terminata la vita di Charlie in nome del suo presunto interesse. Questo è il vero pericolo, ciò per cui Charlie è segno di contraddizione che svela i pensieri di molti cuori. I medici e i giudici non sono i crudeli di turno: sono gli esecutori della nuova barbarie, ammantata di malintesa pietà; sono i chierici della nuova religione dell’efficientismo e dello standard qualitativo; sono i guardiani della folle anticultura che scarta coloro che con la loro vita farebbero sprecare risorse, tempo, coinvolgimento emotivo. “Tanto deve morire, tanto non sente, non vede, non si muove: non è vita, questa”. Non è vita?
Il paradigma della vita di qualità è la normale conseguenza della qualità di vita. È un’idea pervasiva, ha contagiato tanti, molti anche che sanno ancora ragionare, ma che di fronte al dolore e alla sofferenza non sanno trovare ragioni. È un’idea dominante, difficile da scalzare dal sentire comune: l’importante è la salute. È un’idea universale, che prende piede sotto ogni cielo e in ogni situazione, da quella banale e quotidiana fino al grande dilemma etico. È un’idea frutto di un processo culturale, non episodica, bensì insieme causa ed effetto di una ideologia che nega e si ribella alla creaturalità umana: la salute come criterio di una perfezione che, se non c’è, si deve comunque esigere. E là dove non si riesca, si cancella il cattivo risultato.
Come spiegarsi, altrimenti, la pletora e la “buona fama” degli aborti procurati definiti “terapeutici”?
Bisognerà spendere ancora molte parole per Charlie: sarà un successo se si riuscirà a non archiviarlo in fretta come un caso di mala/buona sanità o giustizia. Non sarà il silenzio, improvvisamente calato dopo il clamore, a lenire la pena. Alcune cose devono essere ripetute: tra “lasciar andare”, ovvero accettare la realtà delle condizioni cliniche, e “spingere ad andare” ci passa la differenza tra fare il bene e fare il male. È pura retorica agitare lo spauracchio dell’accanimento terapeutico in una realtà sociale di organizzazione sanitaria che ha problemi gravissimi nell’assicurare un’assistenza di base decorosa, a fronte di risorse a vario titolo sempre più esigue. È inevitabile, in una prospettiva che non reputi la vita umana come un bene indisponibile, tagliare i rami più secchi e improduttivi: bambini, malati, anziani, inguaribili. Facevano così anche gli antichi. Tornano a fare così anche i moderni, dopo la parentesi di una civiltà fondata non sulla filantropia facoltativa ma sul fare il bene indipendentemente da quel che costa, non solo economicamente. Si chiamava civiltà cristiana e ha inventato gli ospedali, ma sembra delittuoso e improprio ricordarlo. Si curava senza la pretesa di guarire, tanto pochi erano i successi; ma man mano che chi stava accanto agli ammalati si affezionava a chi non guariva, si trovava il modo di scoprire le cause delle malattie e di sconfiggerle. Se di fronte agl’inguaribili ci si fosse limitati ad ammazzarli meglio, saremmo ancora alla medicina delle caverne.
Charlie ha anticipato ciò che ci aspetta. Non a caso in questi giorni ci vengono raccontate storie tristissime che suggeriscono una “normalità” di giudizio: basta con la sofferenza, costi quel che costi, anche lo strazio della fine procurata. La pena maggiore sta nello sguardo di chi è accanto al malato. E se chi guarda non sopporta, allora la morte torna a essere una possibilità valida e approvabile, “pietosa” e “terapeutica”.
No, non una malattia inesorabile ha ucciso Charlie: è stata una inesorabile scorciatoia per il nulla.