Leone XIII, Cristianità n. 388 (2017)
Presentazione della lettera apostolica «Praeclara gratulationis»
Il testo è nel sito web <https://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/apost_letters/documents/hf_l-xiii_apl_18940620_praeclara-gratulationis.html>, consultato il 10-12-2017.
La Lettera apostolica Praeclara gratulationis del 20 giugno 1894 è espressione del grande progetto di Papa Leone XIII (1878-1903) teso a ricomporre le fratture prodotte in Europa dalla Riforma protestante del 1517, dalle successive guerre di religione nel secolo XVII e dalle rivoluzioni nazionaliste e liberali dell’Ottocento. I fautori di quest’ultime avevano trovato il consenso di quanti volevano riottenere per la Chiesa quelle libertà soffocate dal giurisdizionalismo, cioè dalla dottrina politica dell’assolutismo illuminato, che subordinava la religione agli interessi dello Stato.
Per ricomporre l’unità dell’Europa, secondo Leone XIII, era necessario restaurare l’unità religiosa delle origini, superando gli effetti deleteri conseguenti allo scisma delle Chiese orientali (1054) e a quello successivo delle comunità protestanti.
Il suo appello ecumenico costituiva la premessa per una possibile rinnovata concordia dentro un’Europa che marciava verso nazionalismi sempre più aggressivi e armati. Le uniche vie — a viste umane — in grado di neutralizzarli sembravano essere l’internazionalismo socialista e comunista, un rimedio peggiore del male che questo diceva di voler combattere, oppure l’incarnazione storica dei princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Di certo, questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile molto più facilmente da una Chiesa nella quale si fossero trovati riuniti, dopo quasi mille anni, orientali e latini, nonché i protestanti delle diverse comunità antagoniste. Alcuni studiosi, perciò, individuano nel pontificato di Leone XIII gli inizi di un sano ecumenismo, definibile come il desiderio, da parte delle diverse confessioni cristiane, di ricomporre quelle divisioni che scandalizzano gli uomini ai quali si rivolge il messaggio evangelico, senza però indulgere, da parte cattolica, a compromessi o ad attenuazioni sulle verità di fede.
Lettera apostolica
«Praeclara gratulationis»
Leone P.P. XIII (*)
Ai sovrani ed ai popoli di tutto il mondo.
Il Papa Leone XIII. Salute e pace nel Signore.
Le luminose testimonianze di pubblica riconoscenza che per tutto lo scorso anno ricevemmo da ogni dove a ricordo dell’inizio del Nostro episcopato (testimonianze ultimamente accresciute dall’insigne devozione degli Spagnoli) Ci recarono anzitutto motivo di gioia in quanto in quella affinità e concordia di sentimenti rifulsero l’unità della Chiesa e la sua mirabile unione con il Sommo Pontefice. Sembrava che in quei giorni il mondo cattolico avesse dimenticato ogni altro avvenimento e avesse rivolto incessantemente lo sguardo e il pensiero al Vaticano.
Ambascerie di Prìncipi, folle di pellegrini, lettere piene di affetto, cerimonie sacre confermavano palesemente che uno solo è il cuore e una sola è l’anima di tutti i cattolici nell’ossequio verso la Sede Apostolica. Questo fatto Ci riuscì ancor più lieto e gradito in quanto del tutto conforme agli insegnamenti e alle azioni Nostre. Certamente consapevoli dei tempi e memori della Nostra missione, in tutto il corso del Nostro pontificato Ci siamo costantemente proposti e Ci siamo sforzati (per quanto con l’insegnamento e con l’azione Ci fu possibile) di stringere più intimamente a Noi tutte le genti e tutti i popoli, e di porre in luce la virtù, sotto ogni aspetto benefica, del Pontificato Romano.
Anzitutto rendiamo dunque somme grazie alla divina benevolenza, ché per suo benefico dono abbiamo raggiunto incolumi un’età così longeva; poi ai prìncipi, ai vescovi, al clero, a tutte le persone, a quanti con molteplici manifestazioni di pietà e di ossequio si comportarono in modo da rendere onore alla persona e alla dignità Nostra, recandoCi in particolare opportuno conforto.
Tuttavia, non poco mancò alla Nostra piena e totale consolazione. Infatti, tra le stesse testimonianze della gioia e dell’affetto popolare, si affacciava alla mente una moltitudine sterminata, estranea a quella concordia dei cattolici in festa, in parte perché del tutto ignara della sapienza evangelica, in parte perché, pur essendo iniziata al cristianesimo, dissente tuttavia dalla fede cattolica. Per questo motivo Ci siamo acerbamente rattristati e Ci rattristiamo: infatti non è giusto rivolgere il pensiero, senza intimo cordoglio, a tanta parte del genere umano che procede lontana da Noi, deviando dal retto cammino. E invero, poiché Noi siamo sulla terra vicari di Dio onnipotente, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità, e poiché la tarda età e le amarezze Ci sospingano al termine della vita, Ci piace imitare l’esempio del redentore e maestro Nostro Gesù Cristo che, prossimo a far ritorno in cielo, con eccelse preghiere chiese a Dio Padre che i discepoli e i seguaci suoi fossero di mente e di cuore una cosa sola: «Prego … perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola» (Gv 17,20-21). Questa preghiera e supplica divina non solo abbraccia coloro che allora credevano in Cristo, ma anche quanti avrebbero creduto nei tempi successivi; pertanto Ci affida un valido motivo per manifestare con fiducia i Nostri voti e per far sì (per quanto possiamo) che senza alcuna distinzione di stirpe o di luogo tutti gli uomini siano chiamati e sospinti all’unità della fede divina.
Spinti dalla carità, la quale accorre più sollecita là dove è maggiore la necessità di aiuto, l’animo si volge anzitutto alle genti più misere fra tutte, a quelle che in nessun modo accolsero la luce del Vangelo o, pur avendola ricevuta, la estinsero o per incuria o per il trascorrere del tempo; perciò ignorano Dio e vivono nel più grave errore. Dato che ogni salvezza proviene da Gesù Cristo, e «infatti sotto il cielo non è dato agli uomini altro nome cui noi dobbiamo la nostra salvezza» (At 4,12), questo è il più ardente dei nostri voti: possa il sacrosanto nome di Gesù colmare e dominare rapidamente ogni plaga della terra.
In questa impresa giammai la Chiesa trascurò di adempiere alla missione a lei affidata da Dio. Perché mai si affaticò per diciannove secoli, perché mai agì con più ardore e costanza, se non per condurre le genti alla verità e ai princìpi cristiani? Oggi assai spesso, per Nostro incarico, banditori del Vangelo valicano i mari per addentrarsi nelle più remote contrade; e ogni giorno supplichiamo Dio perché voglia benevolmente moltiplicare i sacerdoti, degni della missione apostolica, i quali, per estendere il regno di Cristo, non rifuggano dal sacrificare gli agi, la sicurezza e in caso di necessità la stessa vita.
Affrettati tu dunque, salvatore e padre del genere umano, Gesù Cristo; non rinviare il compimento di ciò che un tempo hai promesso: una volta esaltato in terra, tutti avresti tratto a te stesso. Pertanto scendi al fine e rivelati alle infinite moltitudini tuttora ignare dei sommi benefìci che col tuo sangue elargisti ai mortali; scuoti coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte, affinché illuminati dai raggi della tua sapienza e della tua virtù, in te e per te si assommino in uno.
Pensando a tale mistero di unità, si offrono al Nostro sguardo tutti i popoli che la divina pietà già da tempo trasse dagli antichi errori alla sapienza del Vangelo. In verità, nessun ricordo è più lieto né più luminoso in lode della provvidenza divina quanto la memoria di quelle antiche età, quando la fede divinamente ispirata era universalmente ritenuta patrimonio comune e indiviso; quando la fede cristiana univa le genti civili, dissociate dai luoghi, dalla cultura, dai costumi e perciò per molti versi discordi e spesso in conflitto tra loro, e tuttavia concordi in fatto di religione. Al ricordo di un tale passato, l’animo troppo si addolora considerando che, con l’andare del tempo e con l’insorgere di diffidenze e rivalità, malaugurate vicende abbiano strappato dal seno della Chiesa romana grandi e fiorenti nazioni. In ogni caso, fidenti nella grazia e nella misericordia di Dio onnipotente, che solo sa quando sia tempestivo il soccorso e che ha il potere di piegare a sua discrezione la volontà degli uomini, Noi ci rivolgiamo a queste stesse nazioni e con paterno amore le esortiamo e scongiuriamo di comporre le rivalità e di ritornare all’unità.
Anzitutto rivolgiamo un amoroso sguardo ad Oriente, da dove inizialmente partì la salvezza del mondo. In verità, l’ansia del Nostro desiderio comanda di aprirci a lieta speranza che le Chiese orientali, insigni per avita fede e per antica gloria, ritornino presto là donde partirono. Confidiamo in ciò soprattutto in quanto le distanze che ci separano non sono rilevanti; infatti, se si eccettuano poche cose, per il resto concordiamo a tal punto che nella difesa della cattolicità non raramente noi desumiamo testimonianze e prove dalla dottrina, dal costume, dai riti praticati dagli orientali. Punto principale del dissidio è il primato del Pontefice romano. Ma risalgano ai primordi, considerino il sentimento dei loro precursori, l’eredità dell’epoca più prossima alle origini. In verità quella divina affermazione di Cristo «Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa» [Mt. 16,18] conferma magnificamente il riconoscimento relativo ai Pontefici romani.
E nel novero dei Pontefici, non pochi nell’antichità provennero dallo stesso Oriente: tra i primi, Anacleto [80-92 ca.], Evaristo [97-105], Aniceto [155-166], Eleuterio [175-189], Zosimo [417-418], Agatone [575- 681]. A molti di essi accadde anche di consacrare con l’effusione del sangue il governo dell’intera comunità cristiana, retto con sapienza e santità. È ben noto in quale tempo, per quale causa, da quali promotori fu accesa l’infausta discordia. Prima di quel tempo in cui l’uomo separò ciò che Dio aveva congiunto, il nome della Sede Apostolica era venerando presso tutte le genti del mondo cristiano, e al Pontefice romano, come legittimo successore del beato Pietro e perciò vicario di Gesù Cristo in terra, ubbidivano sia l’Oriente che l’Occidente con uniformità di princìpi e senza alcuna riserva.
Per questo motivo, se si considera l’origine del dissidio, lo stesso Fozio [820-893] si premurò di inviare a Roma dei legati a sostegno delle sue ragioni, e in verità Nicolò I [858-867], Pontefice massimo, inviò da Roma i suoi ambasciatori a Costantinopoli senza che alcuno facesse opposizione, «affinché attentamente investigassero sul contenzioso del Patriarca Ignazio [797-877] e poi riferissero alla Sede Apostolica con veraci e complete testimonianze».
Perciò tutta la storia di quella vicenda palesemente conferma il primato della Sede romana, con la quale allora era sorto un contrasto. Infine, nessuno ignora che in due Concilii ecumenici, il Lionese II [1274] e il Fiorentino [1431-1437], con spontaneo consenso e a una sola voce, tutti, latini e greci insieme, sancirono come dogma la suprema potestà dei Pontefici romani.
Di proposito abbiamo rievocato questi fatti in quanto essi sono quasi un invito a ristabilire la pace; tanto più che negli Orientali Ci sembra ora di scorgere una disposizione d’animo assai più mite verso i cattolici, anzi un certo benevolo atteggiamento. Se ne ebbe conferma recentemente quando vedemmo riservare singolari attestazioni di cordialità e di amicizia ai nostri devoti pellegrini in Oriente. Pertanto «la Nostra bocca si apre per voi» [2Cor. 6,11] quanti siete, di greco o di altro rito orientale in disaccordo con la Chiesa cattolica. Desideriamo vivamente che ciascuno richiami alla memoria il severo e affettuoso discorso che Bessarione [cardinale, 1403-1472] rivolse ai padri vostri: «Quale risposta potremo dare a Dio, dal momento che saremo divisi dai fratelli, mentre per unirci e per raccoglierci in un solo ovile, Egli discese dal cielo, s’incarnò e fu crocifisso? In che modo ci difenderemo presso i nostri posteri? Non dobbiamo patire questa onta, venerandi Padri: rifiutiamo una tale decisione, non comportiamoci in modo così pernicioso per noi e per i nostri fedeli». Ponderate saggiamente al cospetto di Dio i Nostri desideri. Non certo indotti da motivi umani ma dalla divina carità e dall’ansia per la comune salvezza, sollecitiamo alla riconciliazione e all’unione con la Chiesa romana: intendiamo una unione piena e perfetta. Tale non sarebbe infatti in alcun modo se non recasse nulla di più che una certa concordia circa i dogmi in cui credere e uno scambio di amore fraterno. Unione vera tra cristiani è quella che il fondatore della Chiesa, Gesù Cristo, istituì e volle, riponendola nell’unità della fede e della disciplina. Né avete motivo di temere che Noi o i Successori Nostri vorremo in alcun modo menomare il vostro diritto, le prerogative patriarcali, le consuetudini rituali di ciascuna Chiesa. Infatti negli intendimenti e nella pratica della Sede Apostolica è stabilito (e lo sarà sempre in futuro) di rispettare largamente e con equità le origini e i costumi di ciascun popolo.
Invero, una volta reintegrata l’unità con Noi, sarebbero per certo mirabili la dignità e la gloria che per dono divino ricadrebbero sulle vostre Chiese.
Possa dunque Iddio benevolmente accogliere la vostra stessa preghiera, «Fa che abbiano fine gli scismi delle Chiese» (1) e «Raccogli i dispersi e conduci gli erranti a ricongiungersi alla tua santa Chiesa cattolica e apostolica» (2). Così ritornate a quella fede una e santa che la più remota antichità trasmise inalterata a noi come a voi; a quella fede che i padri e i vostri antenati serbarono inviolata; a quella stessa fede che con lo splendore delle virtù, con l’altezza dell’ingegno, con l’eccellenza della dottrina fu illuminata a gara da Atanasio [295-373], Basilio [330 ca.-390 ca.], Gregorio Nazianzeno [344/354-407], Giovanni Crisostomo [344/354-407], dai due Cirilli ([3]) e da molti altri grandi, la cui gloria, come retaggio comune, appartiene ugualmente all’Oriente e all’Occidente.
A questo punto sia consentito fare particolare menzione di voi tutte, genti Slave, al cui chiaro nome rendono testimonianza molte pagine di storia. Voi sapete quanto siano benemeriti degli Slavi i santi padri vostri nella fede Cirillo [827-869] e Metodio [815 ca.-885], alla memoria dei quali Noi stessi decretammo alcuni anni or sono un debito di accresciuti onori. Dalla loro virtù e dalle loro fatiche sono derivate civiltà e salvezza per molti popoli della vostra stirpe. Perciò tra gli Slavi e i Pontefici romani durò a lungo un nobilissimo scambio di benefìci da un lato, e di fedelissima devozione dall’altro. Se poi maligna avversità di tempi distolse in gran parte i vostri maggiori dalla fede di Roma, considerate quanto sarebbe meritevole il vostro ritorno all’unità. La Chiesa insiste nel richiamare anche voi al suo abbraccio, assicurandovi un ampio presidio di salute, prosperità e grandezza.
Con uguale affetto rivolgiamo lo sguardo ai popoli che in età più recenti si separarono dalla Chiesa romana per un insolito rivolgimento di cose e di tempi. Consegnate all’oblio le varie vicende dei tempi andati, innalzino il pensiero sopra tutte le miserie umane e con animo assetato di verità e di salvezza riflettano sulla Chiesa fondata da Cristo. Se vorranno paragonare con essa le loro congregazioni e considerare quale posto occupi in esse la religione, facilmente ammetteranno di aver dimenticato le loro origini e di essere giunti, da un errore all’altro, a fallaci novità in molte questioni di somma importanza; né vorranno negare che di quel patrimonio di verità (che i fautori di novità avevano recato con sé nel separarsi) quasi nessuna formula di fede sicura e autorevole rimane presso di loro.
Anzi si è giunti a tal punto che molti non temono di scalzare il fondamento stesso su cui unicamente poggiano tutta la religione e ogni speranza dei mortali, ossia la natura divina di Gesù Cristo salvatore. Così, coloro che prima affermavano che i libri dell’antico e del nuovo Testamento erano scritti per divina ispirazione, ora negano ad essi siffatta autorità, ed era inevitabile che ciò avvenisse, dal momento che a chiunque era stata data facoltà di interpretare quei testi a proprio talento e discrezione.
Ne deriva che la coscienza di ciascuno diventa la sola guida e norma della vita, rifiutando ogni altra regola nell’operare; ne derivano opinioni tra loro contrastanti e sètte molteplici che assai spesso degradano nelle dottrine del naturalismo o del razionalismo. Pertanto, disperando di trovarsi d’accordo nelle dottrine, ora esaltano e raccomandano l’unione nell’amore fraterno. E ciò è ben giusto in quanto tutti dobbiamo essere congiunti da amore reciproco. Tale soprattutto fu l’insegnamento di Gesù Cristo, che appunto volle come distintivo dei suoi seguaci lo scambievole amore. In verità, quale perfetto amore può congiungere gli animi se la fede non avrà reso concordi le menti?
Per questi motivi molti di coloro di cui stiamo parlando, sani d’intelletto e bramosi di verità, cercarono un sicuro mezzo di salvezza nella Chiesa cattolica, avendo pienamente compreso che non si può essere uniti a Gesù Cristo come a un capo se non si aderisce anche al suo corpo che è la Chiesa; né si può raggiungere la vera fede di Cristo se si ripudia il suo legittimo magistero, affidato a Pietro e ai suoi successori. In altri termini, costoro ravvisarono nella Chiesa romana la viva e compiuta immagine della vera Chiesa, facilmente riconoscibile dai segni che Dio creatore le ha impresso. Pertanto tra costoro si contano molti, di viva intelligenza e di sagace acume nella esplorazione delle antiche età, i quali con scritti insigni hanno dimostrato la continuazione ininterrotta della Chiesa romana dagli Apostoli, l’integrità dei dogmi, la disciplina costante. Dunque, sull’esempio di costoro, l’animo ancor più che la parola vi ispiri, fratelli Nostri, che già da tre secoli siete in disaccordo con Noi circa la fede cristiana, voi altresì, quanti siete, che in seguito per qualsivoglia motivo vi separaste da noi: «Incontriamoci tutti nell’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio» (Ef 4,13).
A questa unità cui mai venne meno la Chiesa cattolica, né mai per alcun motivo potrà venir meno, lasciate che Noi vi invitiamo e che con profondo amore vi porgiamo la destra. La Chiesa, madre comune, già da tempo vi chiama a sé; vi attendono con ansia fraterna tutti i cattolici, perché santamente con noi veneriate Iddio, congiunti in perfetta carità nella professione di un solo Vangelo, di una sola fede, di una sola speranza.
Perché sia pieno il concento dell’agognata unità, non resta che rivolgere il discorso a coloro (quanti sono in tutto il mondo) alla cui salvezza da tempo dedichiamo le cure e i pensieri Nostri: Ci riferiamo ai cattolici i quali, professando la fede romana, sono obbedienti alla Sede Apostolica e così sono congiunti a Gesù Cristo. Certo non occorre esortarli alla vera e santa unità, poiché ne sono già partecipi per bontà di Dio; occorre però ammonirli di non invilire nella ignavia e nell’indolenza quel grandissimo dono di Dio, mentre da ogni parte aumentano i pericoli. A tal fine traggano opportuna norma, nel pensare e nell’agire, da quei documenti che Noi stessi abbiamo inviato altre volte a tutte o alle singole nazioni cattoliche; e soprattutto s’impongano come legge suprema di ubbidire in ogni caso al magistero e all’autorità della Chiesa non già con riserva o diffidenza ma con tutto l’animo e con lieta volontà. In questo caso, riflettano quanto sia deleterio alla unità cristiana quella erronea varietà di opinioni che talora oscurò e cancellò la genuina essenza e la nozione della Chiesa.
Essa infatti, per volere e comandamento di Dio che ne fu il fondatore, è una società perfetta nel suo genere, il cui dovere e la cui missione consistono nell’educare il genere umano con i precetti e gli insegnamenti evangelici, nel tutelare la purezza dei costumi e l’esercizio delle virtù cristiane, e nel condurre a quella felicità che a ciascuno è proposta nei cieli.
Poiché, come abbiamo detto, si tratta di società perfetta, essa ha una forza e una virtù di vita non attinte dall’esterno ma insiste per sapienza divina e per la sua stessa natura; per tale motivo essa possiede una originaria facoltà di emanare leggi ed è giusto che nell’emanarle essa non soggiaccia ad alcuno; inoltre è necessario che sia libera nelle altre questioni di sua competenza. Questa libertà tuttavia non è tale da offrire motivo alcuno alla emulazione e all’invidia; infatti la Chiesa non persegue il potere né è sospinta da ambizioni particolari, ma vuole soltanto questo, questo è il suo solo proposito: tutelare negli uomini i doveri della virtù e in questo modo, per questa via provvedere alla loro eterna salute. Perciò suole usare condiscendenza e indulgenza materna; anzi non di rado accade che si astenga dal far valere i propri diritti attribuendone i motivi ai diversi livelli di civiltà; ne sono ampia prova i concordati spesso sottoscritti con i governi. Nulla è più alieno da essa che il sottrarre un qualunque diritto a uno Stato; però è doveroso che lo Stato rispetti a sua volta i diritti della Chiesa e si guardi dall’appropriarsi di qualche parte di essi.
Ora, se si guarda alla realtà, cosa rivela il corso dei tempi? Molti sono soliti sospettare, disdegnare, odiare, calunniare astiosamente la Chiesa; ed è più grave ancora che si agisca così con ogni mezzo e con accanimento per asservirla al potere dei Governi. Ne derivano il furto dei suoi beni e la limitazione della sua libertà; le difficoltà frapposte alla educazione dei chierici; le leggi di eccezionale severità sancite contro il clero; lo scioglimento e la proibizione dei sodalizi religiosi, validi presìdi del cristianesimo; in breve, il rinnovo, con maggiore asprezza, dei precetti e degli atti dei «regalisti».
Ciò significa fare violenza ai sacrosanti diritti della Chiesa e ciò reca immensi danni alla società civile, per il fatto che si contrastano apertamente i princìpi divini. Iddio, sovrano e autore dell’universo, in modo provvidenziale prepose alla convivenza umana il potere civile e religioso; tuttavia volle che essi rimanessero distinti, ma vietò che tra l’uno e l’altro vi fossero frattura e conflitto. Anzi, sia il volere di Dio stesso, sia il bene comune dell’umano consorzio richiedono in modo perentorio che il potere civile armonizzi con quello ecclesiastico nel reggere e governare. Quindi lo Stato e la Chiesa hanno propri diritti e doveri, ma occorre che l’uno all’altra sia collegato col vincolo della concordia. Così certo accadrà che le mutue funzioni della Chiesa e dello Stato si sottrarranno a quelle tensioni che ora sono per molti versi nefaste e insopportabili per tutti gli onesti; si otterrà pure che, senza confondere né separare le ragioni di entrambe le istituzioni, i cittadini rendano «a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio» [Mt. 22,21].
Del pari, corre gran rischio l’unità religiosa ad opera di quella setta che si chiama «Massonica», la cui funesta potenza incalza già da tempo specialmente le nazioni cattoliche. Favorita dai tempi inquieti, e fatta ardita dalla forza, dalle ricchezze e dal successo, cerca con molti mezzi di consolidare più stabilmente e di estendere più largamente il proprio dominio. Dalla clandestinità e dagli agguati essa è già uscita alla luce nelle città e si è insediata anche in questa stessa Urbe, centro del cattolicesimo, quasi a sfidare la presenza di Dio. Ma la peggiore jattura sta nel fatto che, ovunque mette piede, si insinua in tutte le classi e in tutte le istituzioni dello Stato, pur di conseguire finalmente la somma del potere. Una minaccia davvero gravissima: infatti è palese sia la malvagità delle sue opinioni sia la nequizia dei suoi propositi. Col pretesto di rivendicare i diritti dell’uomo e di rinfrancare la società civile, essa attacca con accanimento il cristianesimo; ripudia la dottrina tramandata da Dio; vitupera come superstizioni i doveri religiosi, i divini sacramenti, e i beni più sacri: dal matrimonio, dalla famiglia, dalle scuole della gioventù, da ogni morale pubblica e privata; cerca di strappare l’impronta cristiana e di svellere dall’animo dei popoli ogni rispetto verso l’autorità umana e divina. Insegna poi che l’uomo deve onorare la natura e che unicamente alle leggi di essa si debbano misurare e regolare la verità, l’onestà, la giustizia. In tal modo, come è evidente, l’uomo è sospinto ai costumi e alle consuetudini di vita dei pagani, anzi a quelli resi più corrotti da continue tentazioni. Sebbene in altre occasioni Ci siamo pronunciati severamente su tale argomento, tuttavia siamo indotti dalla vigilanza apostolica a insistere e ad ammonire più e più volte, in un pericolo così incombente, che nessuna cautela è eccessiva al punto da non doverne adottare una maggiore. Iddio clemente impedisca i malvagi propositi; ma il popolo cristiano avverta e comprenda che occorre prima o poi scuotere l’ignobile giogo della setta; e lo scuotano con maggior vigore coloro che ne sono più duramente oppressi, cioè gli Italiani e i Francesi. Con quali armi e con quale uso di ragione possano raggiungere più agevolmente tale fine fu già indicato da Noi stessi; e non è dubbia la vittoria per chi confida in quel condottiero di cui è sempre attuale la divina parola: «Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).
Rimossi l’uno e l’altro pericolo, ricondotti all’unità della fede gli Stati e le comunità, quale efficace rimedio ne deriverebbe ai mali e quale abbondanza di beni! Sia consentito accennare ai più importanti.
Il primo riguarda la dignità e le funzioni della Chiesa: infatti essa riavrebbe il grado di onore che le è dovuto e, dispensatrice della grazia e della verità evangelica, proseguirebbe nel suo cammino esente da invidia e in sicura libertà, con straordinario profitto per le nazioni. Essa infatti, in quanto maestra e guida del genere umano per divina disposizione, è in grado di contribuire efficacemente a moderare, per il bene comune, le più importanti trasformazioni dei tempi, a risolvere equamente i problemi più complessi, a promuovere la rettitudine e la giustizia che sono solide fondamenta degli Stati.
Ne seguirebbe inoltre un legame più saldo tra le nazioni, più che mai desiderabile nell’età nostra, allo scopo di scongiurare i foschi pericoli di guerra. Abbiamo davanti agli occhi la situazione dell’Europa. Già da molti anni si vive in una pace più apparente che reale. Dominate da reciproci sospetti, quasi tutte le nazioni insistono a gara nell’allestimento di apparati bellici. La gioventù inesperta viene esposta ai pericoli della vita militare, lontana dalla guida e dagli insegnamenti dei genitori; nel fior degli anni essa viene distolta dalla coltivazione dei campi, dagli ottimi studi, dal commercio, dalle arti per essere inviata sotto le armi. Ne deriva che gli erari sono esausti per le enormi spese, stremate le finanze pubbliche, in declino le fortune private; non è più a lungo sopportabile questa pace armata. È forse tale per natura la condizione del civile consorzio? Ma non possiamo uscire da questa condizione e conseguire una vera pace se non per grazia di Gesù Cristo. Infatti, nulla è più efficace della virtù cristiana, e anzitutto della giustizia, al fine di tenere a freno l’ambizione, il desiderio della roba d’altri e la rivalità, che sono le faci incendiarie delle guerre; è grazie a questa virtù che possono rimanere integri sia i diritti delle nazioni e il rispetto dei trattati, sia i vincoli di fratellanza, purché si sia convinti che «la giustizia fa grandi le nazioni» (Pr 14,34).
Del pari si avrà in patria una salvaguardia del bene pubblico molto più sicura e valida di quella che offrono le leggi e le armi. Non è chi non veda come ogni giorno si aggravano i pericoli per la sicurezza e la tranquillità pubblica, dal momento che congreghe sovversive (come conferma la frequenza di atroci delitti) congiurano alla rovina e alla distruzione della società civile. Con grande passione si discute questa duplice questione che chiamano «sociale» e «politica». Entrambe molto serie, senza dubbio. E sebbene lodevoli studi, aggiustamenti e prove siano in corso per dirimere entrambe le questioni con saggezza e giustizia, tuttavia nulla sarà così opportuno come educare gli animi alla retta coscienza del dovere attraverso l’interiore fondamento della fede cristiana.
Dalla questione «sociale» abbiamo già trattato non molto tempo fa con un’opera specifica, traendo i princìpi dal Vangelo e dalla ragione naturale. Circa la questione «politica», nel proposito di conciliare la libertà con l’autorità — nozioni che molti confondono e senza ritegno separano — un aiuto utilissimo può essere tratto dalla filosofia cristiana. Infatti, dato e universalmente riconosciuto che qualunque sia la forma dello Stato l’autorità viene da Dio, di conseguenza la ragione riconosce legittimo negli uni il diritto di governare, consentaneo negli altri il dovere di ubbidire, e ciò non è contrario alla dignità perché in verità si ubbidisce più a Dio che all’uomo; Dio infatti preannuncia «un durissimo giudizio a coloro che comandano» [Sap. 6,5] se non lo rappresenteranno con rettitudine e giustizia. Invero la libertà dei singoli a nessuno può riuscire sospetta o invisa perché, senza nuocere ad alcuno, si manifesterà in azioni limpide, oneste, compatibili con la pubblica tranquillità. Infine, se si considera quanto può la Chiesa, madre e conciliatrice dei prìncipi, nata per giovare ad entrambi con l’autorità e il consiglio, allora sarà evidente quanto interessi alla comune salvezza che tutte le genti inducano l’animo a sentire ed a professare nello stesso modo la fede cristiana.
Ripensando a queste questioni e con l’animo acceso dal desiderio, scorgiamo da lontano quale potrebbe essere in futuro il nuovo ordine di cose sulla terra, e nulla troviamo di più consolante che la contemplazione dei beni che ne deriverebbero. Si può appena immaginare quale rapido progresso si avrebbe ovunque tra le genti verso ogni ottimale condizione di prosperità, quando fossero ristabilite la tranquillità e la pace, incoraggiate le lettere, fondate e accresciute in senso cristiano, secondo le Nostre prescrizioni, le associazioni di agricoltori, di operai, di industriali, per mezzo delle quali sia repressa l’usura vorace e si dilati il campo dei lavori utili.
L’efficacia di tali benefìci non rimarrebbe poi circoscritta entro i confini delle nazioni civili e colte, ma come un fiume gonfio si spanderebbe ovunque. Bisogna infatti riflettere su ciò che dicemmo all’inizio: che sterminate moltitudini, già da molti secoli aspettano chi rechi loro la luce della verità e della civiltà. Certamente, quanto riguarda l’eterna salute dei popoli e i decreti della mente divina sono assai lontani dalla umana intelligenza: tuttavia, se in varie regioni della terra è ancora così diffusa la sciagurata superstizione, bisogna attribuirne la colpa, in parte non piccola, ai conflitti insorti in tema di religione. Infatti, per quanto la ragione dei mortali è in grado di interpretare gli eventi, la missione affidata da Dio all’Europa sembra questa: propagare per tutta la terra la civiltà cristiana. Gli inizi e i progressi di così nobile impresa, dovuti al travaglio delle età precedenti, stavano raggiungendo i più felici risultati, quando all’improvviso nel secolo decimo sesto scoppiò la discordia. Scissa la cristianità per dispute e conflitti, consunte le forze dell’Europa in contese e guerre, le sacre missioni risentirono della funesta forza degli eventi. Perdurando le cause della discordia, quale meraviglia se tanta parte dei mortali è soggiogata da disumani costumi e da riti insani? Adoperiamoci dunque tutti con pari impegno perché si ristabilisca l’antica concordia per il bene comune.
Al fine di ristabilire la concordia e parimenti di diffondere i benefìci della sapienza cristiana volgono tempi assai propizi, poiché i sentimenti di umana fraternità non mai penetrarono più profondamente negli animi, e in nessuna età si vide l’uomo cercare con ansia maggiore i suoi simili allo scopo di conoscerli e di aiutarli. Carri e navi varcano con incredibile rapidità immensi tratti di terre e di mari; ne derivano sicuramente notevoli vantaggi non solo per il commercio e per le ricerche degli scienziati ma anche per la diffusione della parola di Dio dall’alba al tramonto.
Non ignoriamo quanto lunga e laboriosa impresa sia fondare quell’ordine che vagheggiamo; né forse mancheranno coloro che giudicano eccessiva la speranza cui Noi ci affidiamo, più desiderabile che attendibile. Ma Noi collochiamo ogni speranza e piena fiducia in Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, giustamente ricordando quali e quanti effetti provennero dalla stoltezza della Croce e dalla sua predicazione, a stupore e confusione della mondana sapienza. Scongiuriamo in particolare prìncipi e governanti perché in nome della loro civile saggezza e della loro amorosa cura dei popoli, giudichino secondo verità i Nostri consigli e li assecondino col favore della loro autorità. Se solo una parte dei frutti auspicati venisse raccolta, non sarebbe da considerare come un modesto beneficio tra tanta universale decadenza, tenuto conto che alla insofferenza per le attuali condizioni va congiunta l’apprensione per il futuro.
La fine del precedente secolo lasciò l’Europa stanca di stragi e trepidante per i moti rivoluzionari. Viceversa, questo secolo che volge al termine perché non dovrebbe trasmettere in eredità al genere umano auspici di concordia e la speranza degli inestimabili beni racchiusi nella unità della fede cristiana?
Arrida ai Nostri desideri e ai Nostri voti «Iddio ricco di misericordia, al cui potere soggiacciono i tempi e i momenti» e benignamente si affretti a concedere l’adempimento della promessa di Gesù Cristo: «Vi sarà un solo ovile e un solo Pastore» (Gv 10,16).
Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 giugno dell’anno 1894, decimosettimo del Nostro Pontificato.
Note:
(*) Le inserzioni e la nota fra parentesi quadre sono redazionali.
(1) Divina liturgia di S. Basilio.
(2) Ibidem.
(3) [Il Pontefice si riferisce a san Cirillo patriarca di Alessandria d’Egitto (†444) e a san Cirillo vescovo di Gerusalemme (313 ca.-386 ca.)]