Mauro Ronco, Cristianità n. 360 (2011)
Intervento presentato al Seminario Internacional de Investigación de Filosofia del Derecho y Etica dal titolo Dios como fundamento de la moral y del derecho, organizzato nella propria sede dall’Universidade Federal do Rio Grande. Faculdade de Direito, in Brasile, dall’8 al 10-9-2010.
1. Introduzione
Il problema della giusta pena si colloca all’interno del tema giuridico fondamentale, che riguarda la legittimità dello Stato, ove per “Stato” non s’intende riduttivisticamente ciò che la modernità denomina “lo Stato”, bensì lo stato delle cose sul piano della verità giuridica in ordine al fondamento e all’esercizio del potere, come costituzione reale di una comunità sociale autarchica.
Il diritto penale ha subìto nel mondo occidentale lo stesso processo di secolarizzazione che hanno subìto lo Stato e il diritto, secondo caratteristiche analoghe a quelle che hanno riguardato questi ultimi, anche se vi sono, nel processo di secolarizzazione del diritto penale, alcune peculiarità specifiche. L’obiettivo del processo rivoluzionario nel campo del diritto consiste nel cancellare, se fosse possibile, l’inclinazione dell’uomo al “giusto”, come dimensione specifica dell’essere, che è, che è vero, che è buono, che è bello, che è giusto, a cui l’uomo è attratto per il dinamismo interiore del suo essere, creato a immagine e somiglianza di Dio (1). Nella prospettiva rivoluzionaria le relazioni giuridiche sono ridotte a relazioni di mero fatto, governate esclusivamente dalla forza del potere e dalle regole che il potere detta secondo la sua utilità. Non stupisca la dilatazione immensa della regolamentazione normativa nelle società contemporanee. Essa è l’effetto, oltre e più che della complessità della vita economica e finanziaria, della scomparsa dei princìpi fondamentali del diritto idonei a governare secondo giustizia le relazioni sociali. Più sono invasive le regole, meno è presente il diritto come principio del giusto e dell’equo.
2. La rivoluzione oltre la secolarizzazione: il programma di Hans Kelsen
Per la rivoluzione il diritto va sciolto nel fatto. Questo programma è chiaramente delineato da Hans Kelsen (1881-1973) nel paragrafo conclusivo di Vergeltung und Kausalität del 1941 (2). L’autore, non senza l’apporto della fantasia e con la pretermissione di tutta l’epoca della Cristianità, descrive uno sviluppo di questo genere: secondo la mentalità magico-sacra, dominante fino all’epoca moderna, il mondo della natura sarebbe stato concepito secondo il principio retributivo, come se fosse una componente omogenea della società degli dei e degli uomini. Con l’emergere della legge naturalistica di causalità la natura sarebbe stata distinta dalla società umana e i due mondi si sarebbero posti l’uno di fronte all’altro come in sé conchiusi, regolati da un principio normativo diverso: il mondo umano retto dalla legge giuridica, la natura dalla legge causale. Ma il dualismo fra natura e società non sarebbe l’ultima parola della scienza, poiché tale dualismo finirebbe con il superamento del concetto di norma giuridica. L’istanza del dovere, della normatività, come appello interamente distinto dal mondo dell’essere, autonomo, però, dalla legge della causalità materiale, questo appello della normatività, proprio di Immanuel Kant (1724-1804), che sembrerebbe ancora valere per la società in modo distinto dalla legge causale naturalistica, è una mera “ideologia”, dietro cui si nasconde la realtà dei concreti interessi degli uomini e dei gruppi. Questi, pervenuti al potere, rappresentano il loro volere come dovere e la manifestazione del loro volere come norma giuridica. La società non è altro che un pezzo della natura, le cui leggi hanno le medesime caratteristiche di quelle che reggono la natura. L’impossibilità di riconoscere nei processi sociali leggi dello stesso tipo di quelle naturalistiche è scomparsa nel momento in cui queste ultime, a seguito delle scoperte del secolo XX, hanno rinunciato alla pretesa dell’assoluta necessità, per accontentarsi della nota della verosimiglianza statistica. Le leggi sociali hanno questo medesimo carattere. All’inizio della speculazione filosofica — così ancora Kelsen — la natura sarebbe stata un pezzo della società; ora la società sarebbe diventata, grazie all‘emanciparsi della legge causale dall’idea retributiva, un pezzo della natura.
Il programma della rivoluzione a riguardo del diritto è nichilistico: si dirige direttamente alla sua distruzione; detto in altri termini, il processo nichilistico non si arresta alla secolarizzazione del diritto, ma va oltre, perché vuole distruggere l’idea stessa del “giusto” come distinto dal mero fatto. Soltanto quest’ultimo, nella sua cruda materialità, può trovare spazio nel mondo secolarizzato. Da un certo punto di vista, si deve andare oltre il positivismo giuridico della società liberale e costituzionale, in cui la legge dello Stato aspira a essere una legge corrispondente alla ragione dei cittadini. Kelsen, nel passo citato, lui, positivista estremo, ha lanciato il programma, per cui bisogna andare oltre il positivismo: poiché la società è un pezzo della natura, retta dalle stesse leggi di verosimiglianza statistica, è ora di smetterla di fare appello al dovere, come fondamento di una normatività specificamente giuridica. Ciò che conta sono le forze e gli interessi, di cui le norme sono soltanto copertura.
La rivoluzione non si accontenta di sostituire la ragione a Dio; ma vuole negare, dopo Dio, anche la ragione, consegnando la società all’esplicarsi caotico delle forze e dei poteri materiali, rectius: dell’uomo visto come semplice forza sensibile e materiale. Dopo aver cancellato il fondamento del “giusto”, occorre cancellare la reminiscenza del giusto nella coscienza dell’uomo, affinché la società sia consegnata al disordine, all’anarchia e alle potenze infere.
3. La rivoluzione oltre la secolarizzazione nel diritto penale
Anche nel campo penale è presente, ormai da molto tempo, la tendenza ad andar oltre la secolarizzazione, già compiuta completamente con l’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che ha sostituito la ragione umana universale al fondamento divino del diritto di punire. Un autore moderno, Wolfgang Naucke, offrendo, nel 1981, un contributo allo studio della secolarizzazione nel diritto penale, ha descritto la linea che va da Martin Lutero (1483-1546) a Cesare Beccaria (1738-1794) a Kant allo scopo di mostrare come il fondamento del diritto penale passi progressivamente da Dio alla società degli uomini e, infine, alla ragione impersonale (3), cancellando del tutto la reminiscenza di Dio. In questo modo, secondo Naucke, che si rammarica di ciò, la secolarizzazione non sarebbe stata compiuta, perché, attraverso il cambiamento dei titoli giustificativi, si sarebbero tuttavia conservati i contenuti del diritto penale ispirato ai princìpi cristiani.
La vera secolarizzazione deve negare non questo o quel fondamento del diritto penale, ma la sua stessa fondabilità. La vera secolarizzazione consiste nella rinuncia a dare al “reato” e alla “pena” un significato più elevato rispetto a ciò che si rinviene nella cruda datità dei fatti. Anche in questo autore, come in Kelsen, è presente l’istanza di cancellare i nomi stessi che evocano una dimensione soprasensibile dell’esperienza umana. Kelsen vuole cancellare il richiamo alla stessa normatività, perché essa evoca una dimensione che egli definisce, con la sua discutibile terminologia, “ideologia”; Naucke suggerisce di abbandonare il termine “reato”, perché, attraverso il concetto di reus, esso evoca la colpevolezza, che non è qualcosa che si vede con gli occhi e che si tocca con le mani, bensì che si comprende con la ragione, nonché il termine “pena”, perché esso evoca l’idea di punizione, che non si vede e non si tocca, ma che costituisce il significato razionale di un gesto che, invece, deve essere visto soltanto nella sua dimensione materiale. Fino a quando non vi sarà questo mutamento, anche semantico, la secolarizzazione non sarà compiuta realmente.
4. La debolezza della ragione senza Dio
Occorre a questo punto svolgere alcuni rilievi. Anzitutto, in via generale, va detto che la negazione di Dio è il primo passo, certo fondamentale, di un processo. Ma quest’ultimo va avanti inesorabile, fino a trovare un ostacolo che, a tutta prima, sembra insormontabile: la ragione dell’uomo. Su quest’ultima sono stati fondati lo Stato liberale di diritto; il diritto positivo degli Stati; il diritto penale liberale. La ragione autonoma, proclamata da Kant come fondamento della vita pratica dell’uomo, sull’assunto che la ragione speculativa non è in grado di conoscere le cose in sé, cioè sul rifiuto della metafisica come scienza delle cose soprasensibili; questa ragione dimidiata, a un certo punto, non basta più. Dopo il rifiuto della metafisica e della fondazione delle realtà umane nel Dio creatore, la rivolta si rivolge contro il significato e il valore soprasensibile che le relazioni e le istituzioni degli uomini conservano. Al contempo si fa sempre più aggressiva la pretesa che le relazioni e le istituzioni umane siano ridotte esclusivamente alla loro datità materiale e sensibile. Il delitto e la pena, come segni di una realtà più alta, significata, ma non esaurita, dal dato storico della norma che lo prevede o dalla privazione di un bene sensibile, segno esteriore della punizione, debbono essi stessi scomparire, perché sono incompatibili con la mentalità antimetafisica, incapace di vedere altro che mezzi per soddisfare utilità materiali.
In secondo luogo va detto che la secolarizzazione è un processo che divora sé stesso. Negato il fondamento del diritto in Dio, sembra che la ragione possa sostenere l’edificio. Ma la ragione autonoma, che si erge a misura di tutte le cose, separandosi radicalmente dalla fede e dalla tradizione, non regge l’urto del relativismo aggressivo, che pretende di togliere ogni significato, che non sia materiale e sensibile, a qualsiasi aspetto della vita dell’uomo. La famiglia, la società, lo Stato, il diritto, la giustizia diventano nomi vuoti che più non posseggono un valore univoco per tutti come beni comuni che favoriscono il conseguimento del fine, naturale e soprannaturale, di ciascun uomo. La ragione autonoma, come ha insegnato, in varie occasioni, il Magistero del regnante Pontefice Benedetto XVI e, soprattutto, nel mirabile discorso di Regensburg (4), è destinata a scomparire a beneficio dell’utilità meramente sensibile. L’istanza alla norma come criterio razionale di contenimento degli appetiti sensibili e come indirizzo alle realtà soprasensibili deve lasciare il completo dominio alla fattualità anarchica degli accadimenti materiali.
Con un terzo rilievo desidero introdurre una nota positiva. Nonostante il processo di secolarizzazione, con il seguito di reductio della società e delle sue istituzioni ad materiam primam, l’esperienza concreta della vita in comune degli uomini continua a offrire delle resistenze. Questa constatazione è importante, almeno da due distinti punti di vista. Riprendo in primo luogo il rilievo di Naucke circa il fatto che la secolarizzazione avrebbe fallito nei suoi scopi — onde occorrerebbe procedere oltre — perché il diritto penale liberale avrebbe continuato a conservare al suo interno un contenuto ispirato a princìpi cristiani. Che il diritto penale liberale corrisponda contenutisticamente al diritto ispirato a tali princìpi non è del tutto esatto; tuttavia, è vero che i precetti del Decalogo costituiscono l’ossatura basica anche del diritto penale liberale. Dunque, nonostante la secolarizzazione, è vero che, se non nel fondamento, almeno nel contenuto il diritto penale continua a ispirarsi alla legge naturale. Sono in corso in questi anni tentativi insistenti per infrangere, anche nei contenuti, il valore inconcutibile dei princìpi della legge naturale; già è successo in quasi tutto il mondo per il crimine di aborto; si sta tentando ora, e in alcuni paesi il passo è stato compiuto, di togliere la protezione assoluta alla vita dell’uomo, in quanto tale, indipendentemente dalla “qualità” della stessa, introducendo la “legalizzazione” dell’aiuto al suicidio, o, addirittura, la “legalizzazione” dell’uccisione di determinati soggetti, tramite la introduzione della cosiddetta “eutanasia”.
Questa tendenza, invero, caratterizza la fase nuova del processo nichilistico, dopo l’avvenuta secolarizzazione. La ragione autonoma non trova più in sé stessa ragioni sufficienti per garantire i diritti fondamentali dell’uomo, quei diritti che sono strettamente connessi alla legge naturale e alla legge eterna di Dio, e lascia che le passioni sregolate dell’orgoglio e della sensualità travolgano le barriere erette dalla stessa ragionevolezza, cioè da una ragione ispirata almeno alla convenienza e all’istinto di sopravvivenza. Non si tratta in questo processo di prendere soltanto atto che la natura umana è ferita e che, in conseguenza di ciò, l’uomo cade nella colpa, bensì che la stessa conoscenza del vero e dell’equo, espressi dalla legge naturale, sfugge all’uomo che si pretende autonomo dalla fede e dalla tradizione. Se è vero, infatti, che la legge naturale ed eterna è conoscibile dalla ragione, è anche vero che questa conoscenza si offusca se non si appoggia alla fede e alla tradizione. Il Decalogo espone la legge naturale, la cui verità, bontà e giustizia sono conoscibili con la ragione da tutti gli uomini. Eppure Dio conferì a Mosè le Tavole in cui la legge era impressa per iscritto allo scopo di dare conferma con la sua parola a ciò che già era inscritto nel cuore dell’uomo, perché egli la ricordasse sempre, anche nei momenti di smarrimento della ragione.
Si ha per questa via conferma dell’importanza decisiva che non sia taciuta la verità che il fondamento del diritto, anche e soprattutto di quello penale, è Dio: senza questo fondamento, invero, la ragione si confonde e, a breve o a lungo termine, perde la sua strada.
L’esperienza storica della vita in società, anche in questo tempo di dissoluzione, offre una conferma, da un secondo punto di vista, della necessità che sia riconosciuto il fondamento del diritto penale, come di tutto il diritto, in Dio. A fronte del dilagare della devianza dalle regole del vero e del giusto; a fronte della crudeltà di molti delitti, l’uomo semplice, ma che non ha perso il senso del vero e del buono, è costretto ad alzare il suo sguardo verso il mistero del male e, correlativamente, verso Dio giusto e misericordioso, la cui giustizia soltanto può fornire una risposta alla colpa dell’uomo. In questo sguardo verso il mistero del male l’uomo semplice intravede anche, sia pure in modo confuso, nel giudice terreno, legittimamente preposto a giudicare la colpevolezza dei delitti, un vicario di Dio sulla terra, che interviene per retribuire e per medicare, svolgendo un compito che egli può compiere non tanto per le sue forze e per i suoi titoli, ma perché si fa amministratore fedele, sia pure debole e imperfetto, di una giustizia più alta.
5. Il diritto penale fondato in Dio: la pena è inflitta dall’autorità legittima
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dato in Roma dal beato Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) l’11 ottobre 1992, è scritto: “La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere” (5). A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica “[…] di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto” (6), senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte. Per analoghi motivi “[…] i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità” (7).
“La pena ha innanzitutto lo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole” (8).
Nelle due parti di questo paragrafo sono espressi fondamentalmente due insegnamenti: nel primo, che l’autorità legittima ha il diritto e il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto; nel secondo, che la pena ha come scopo primario “riparare al disordine introdotto dalla colpa”, nonché, di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone e, nella misura del possibile, contribuire alla correzione del colpevole.
Il primo insegnamento dice a prima vista qualcosa di ovvio, che non sembra contestato dai più, perché corrisponde a ciò che accade in tutti i paesi del mondo, che, cioè, le autorità preposte al governo degli Stati organizzano e sovrintendono a un complesso apparato giurisdizionale, che serve per giudicare i fatti previsti dalla legge penale, nonché a un complesso apparato di esecuzione penale, prevalentemente di carattere detentivo, che esegue le pene comminate in sede giudiziaria.
Ci si deve, dunque, domandare se questo insegnamento differisca in qualche modo, ed eventualmente in che cosa, dal comune sentire della gente, e, soprattutto, dalla opinione espressa in sede scientifica e politica a riguardo della penalità. Se, invero, l’insegnamento della Chiesa corrispondesse a ciò che oggi si pensa dai più e si pratica effettivamente negli Stati, in che cosa consisterebbe la secolarizzazione del diritto penale, di cui ci si deve lamentare come di un avvenimento epocale, di portata incalcolabilmente dannosa per la vita delle società?
Credo che nelle due parti del paragrafo 2266 si possano individuare con chiarezza i punti che esprimono la diversità tra una concezione secolarizzata del diritto penale e una concezione che sia rispettosa del piano di Dio a riguardo della città umana.
Meritano attenzione tre punti fondamentali: anzitutto, la pena giusta è soltanto quella inflitta dall’autorità legittima; in secondo luogo, l’autorità legittima ha non soltanto il diritto, ma anche il dovere di infliggere la pena; in terzo luogo, la pena ha come scopo essenziale di “riparare al disordine introdotto dalla colpa”. Nella definizione sono poi contenuti altri aspetti, pure importanti, ma di rilievo meno decisivo rispetto ai tre sopra menzionati.
Il primo aspetto è cruciale in ordine al tema della secolarizzazione. Alcuni studiosi di notevole spessore intellettuale — penso tra tutti a Paul Ricoeur (1913-2005) (9) — hanno espresso un’opinione radicale circa la sostanziale illegittimità della pena giuridica per due ragioni, collegate tra loro: da un canto, essa mancherebbe di fondamento, perché non si comprende in forza di quale autorità un uomo possa imporre un male a un altro uomo; da un altro canto, la pena è un male fisico che non si correla al male morale del reato. Rispetto al reato essa non può apportare alcuna effettiva riparazione; dunque, essa non fa che aggiungere sofferenza a sofferenza, male a male, accrescendo la quantità complessiva di male nel mondo.
Questo argomento è seducente; sembra trovare appiglio anche in testi scritturali. Luca riferisce le parole di Gesù Cristo: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica” (Lc. 6, 29) e ancora “Amate i vostri nemici” (Lc. 6, 35); “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato” (Lc. 6, 37). Nel Levitico è scritto: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv. 19, 18). Nel Siracide è scritto: “Non vendicarti con il tuo prossimo per un torto qualsiasi; non far nulla in preda all’ira” (Sir. 10, 6).
Senonché nel Levitico è pure scritto: “Quando uno peccherà e commetterà una mancanza verso il Signore rifiutando al suo prossimo un deposito da lui ricevuto o un pegno consegnatogli o una cosa rubata o estorta con frode o troverà una cosa smarrita, mentendo a questo proposito e giurando il falso circa qualcuna delle cose per cui un uomo può peccare, se avrà così peccato e si sarà reso colpevole, restituirà la cosa rubata o estorta con frode o il deposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per cui abbia giurato il falso. Farà la restituzione per intero, aggiungendovi un quinto e renderà ciò al proprietario il giorno stesso in cui offrirà il sacrificio di riparazione” (Lv. 5, 20-24). E lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, interrogato dal sommo sacerdote e ricevuto uno schiaffo da una delle guardie presenti per la risposta data, non espose l’altra guancia all’offensore, ma lo rimproverò dicendogli: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv. 18, 23).
Dunque, la pena è giusta soltanto se inflitta dall’autorità legittima. Ma cosa vi è di particolare nel fatto che la pena sia inflitta dall’autorità legittima per far sì che essa sia giusta, quindi sia un atto di giustizia e non di sopraffazione violenta? In definitiva, per far sì che la pena sia fondamentalmente un bene, e non un male? La ragione sta nel fatto che l’autorità legittima è vicaria sulla terra dell’autorità di Dio ed esercita la giustizia in nome di Dio. Non a caso il paragrafo 2266 del Catechismo richiama i paragrafi 1897-1899. E in quest’ultimo è esposta la dottrina tradizionale della Chiesa, secondo cui l’autorità, esigita dall’ordine morale, viene da Dio: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Rm. 13, 1-2) e, più oltre: “Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna per chi opera il male” (Rm. 13, 4). Allo stesso modo Pietro dice, nella prima lettera: “Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni” (1Pt. 2, 13-15). Nostro Signore Gesù Cristo, infine, proprio nel momento in cui l’autorità romana sta per compiere la suprema ingiustizia, rispose a Pilato, che ostentava il suo potere di metterlo in libertà o di crocifiggerlo “Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv. 19, 11).
Lo scandalo della pena come sopraffazione di un uomo su un altro uomo, che si ergerebbe arrogantemente a giudicarlo, è scandalo per chi più non vede nell’autorità che infligge la pena la mano di Dio, che vuole che la colpa non travolga la giustizia sulla terra. Nella Sapienza è scritto:
“Ascoltate, o re, e cercate di comprendere;
imparate, governanti di tutta la terra.
Porgete l’orecchio, voi che dominate le moltitudini
e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli.
La vostra sovranità proviene dal Signore;
la vostra potenza dall’Altissimo,
il quale esaminerà le vostre opere
e scruterà i vostri propositi;
poiché, pur essendo ministri del suo regno,
non avete governato rettamente,
né avete osservato la legge
né vi siete comportati secondo il volere di Dio.
Con terrore e rapidamente egli si ergerà contro di voi,
poiché un giudizio severo si compie
contro coloro che stanno in alto.
L’inferiore è meritevole di pietà,
ma i potenti saranno esaminati con rigore” (Sap. 6, 1-6).
San Tommaso d’Aquino (1221 ca.-1274), nella Summa contra Gentiles, risponde alla domanda se sia lecito ai giudici infliggere le pene; risponde dunque, alla domanda su quale sia il fondamento del potere punitivo, spiegando che la ragione della liceità e, conseguentemente, il fondamento del potere punitivo sta nel fatto che i giudici sono come esecutori della divina Provvidenza. Vi sono uomini, invero che “[…] disprezzano le punizioni inflitte da Dio, perché essendo dediti alle cose sensibili badano soltanto alle cose che si vedono [per cui] la divina Provvidenza ha ordinato che ci siano sulla terra degli uomini i quali con pene sensibili e presenti, costringano costoro a osservare la giustizia” (10). La grande responsabilità del giudice penale sta nell’esercitare con giustizia questo compito, perché egli, come ministro di una giustizia che non ha rilievo solo terreno, deve cercare di fare in modo di imitare nei suoi giudizi i giudizi manifesti di Dio (11).
In realtà, quando l’uomo è sottoposto al processo e alla condanna, non è in realtà sottomesso all’autorità di un altro uomo in quanto uomo, ma a un uomo in quanto rappresentante dell’autorità di Dio, in rappresentanza del quale il legislatore dà efficacia alle leggi e il giudice giudica. Il principio, fondamentale per la dottrina politica della Chiesa — comune, peraltro, a tutte le società pre-cristiane — dunque, principio di diritto naturale, che il potere deriva da Dio e trova in Dio il suo fondamento, è l’architrave su cui poggia il diritto penale, che, più direttamente che gli altri settori del diritto, mette immediatamente in contatto l’autorità che giudica e l’uomo che viene giudicato; l’autorità che esegue fisicamente la pena e l’uomo che subisce la sofferenza della sua esecuzione.
Ho detto in apertura dello scritto che la rivoluzione secolarizzatrice presenta aspetti particolari a riguardo del diritto penale. La ragione sta in ciò, che il diritto penale, più che ogni altro ramo del diritto, è sensibile alla crisi dell’autorità particolarmente grave nell’epoca della modernità, perché l’autorità è direttamente impegnata nell’attuazione della legge, in sede prima giudiziale, poi esecutiva. La crisi indotta dalla rivoluzione è anche specificamente crisi dell’autorità, in ragione dell’orgoglio, suo motore per eccellenza, che odia ogni differenza legittima e opera per la sua erosione. Dunque, alla secolarizzazione del diritto penale, come rifiuto del fondamento in Dio del giudizio in ordine alla pena, si aggiunge lo svuotamento del concetto dell’autorità, che tende a trasformarsi — non appena sia abbandonato, sia teoricamente o anche solo praticamente, il suo fondamento —, in mero potere, con il rischio di esercitare non la giustizia, ma soltanto la brutale sopraffazione dei deboli e dei poveri. E la rovina del concetto di autorità, intrinsecamente legata al suo svincolarsi dal fondamento in Dio, implica tanto il venir meno della sacralità della legge e dei giudizi, con l’aprirsi di spazi immensi all’anarchia, quanto il divenir crudeli i legislatori e i giudici. Ritenendosi sciolti dallo stretto obbligo di giustizia e dimentichi che “un giudizio severo si compie contro coloro che stanno in alto”, essi si abbandonano alle violenze e alle rapine ingiuste, trasformando i regni, secondo l’espressione di sant’Agostino (354-430), in grandi latrocini (12).
La fondazione del diritto penale in Dio e la funzione ministeriale del potere di giudicare costituiscono un argine all’imbarbarimento del costume dei popoli, temperando l’asprezza punitiva e garantendo la tranquillità dell’ordine sociale.
6. Il diritto di punire fondato in Dio e il dovere dell’autorità di infliggere la pena
Nella dottrina cattolica la legittima autorità non ha soltanto il diritto, ma anche il dovere di infliggere la pena. Non è cruciale per il legittimo ordine politico soltanto lo ius punitivo, ma anche il dovere di punire. Questo principio è il corollario del compito ministeriale dell’autorità politica e giudiziaria, tenuta essa stessa a rispettare gli obblighi strettissimi della giustizia. Nell’ordine politico naturale, legittimo in quanto regolato dalla giustizia nel suo triplice dinamismo delle relazioni delle parti fra loro, del tutto verso la parte e delle parti verso il tutto, il primo atto di giustizia è il riconoscimento del dovuto a ciascuno, cioè il riconoscimento del suo diritto originario. Ora, il dovere di religione di ciascuno verso Dio è il fondamento di ogni diritto. Il dovere di custodire la legge naturale, come faccia umana della legge eterna, è il dovere primario dell’autorità politica e giudiziaria, la ragione per cui essa sussiste ed è stata istituita. Georges Kalinowski (1916-2000) ha scritto che “la legge naturale e la legge eterna sono i due aspetti di una stessa realtà, cioè di Dio inteso come legge suprema del comportamento umano. Dio è non soltanto l’essere per eccellenza, ma altresì la legge per eccellenza perché è la sorgente di tutti gli esseri al di fuori di lui, dell’uomo in particolare. Come creatore dell’uomo e, a questo titolo, come suo supremo reggitore, Dio “pensa” la natura dell’uomo, cioè l’essenza di questo in quanto fondamento degli atti che gli sono propri. È precisamente per questo che egli è la regola e la misura degli atti umani. Questa regola esiste tanto in Dio quanto negli uomini: in Dio in quanto egli regola e misura il comportamento degli uomini, nell’uomo in quanto il suo comportamento è regolato e misurato da Dio” (13).
Il dovere di custodire la legge naturale — che è la faccia umana della legge eterna di Dio — è compito primario dell’autorità politica, che fonda il suo diritto a governare. Nella visione cristiana il diritto non sorge dalla pretesa soggettiva o dall’esplicazione del potere dell’io individuale, fosse questo “io” anche il più potente signore, bensì dal dovere di rendere il suum a ciascuno. E per il governante il primo suum è quello di Dio, verso cui egli ha il dovere strettissimo di rispettarne la legge, in quanto costituito garante della effettiva vigenza di essa nella società umana.
È possibile comprendere la differenza di questa dottrina da quella dominante nell’universo della società laicizzata. In campo penale l’autorità politica ha il dovere di tutelare i diritti umani fondamentali, che la dottrina degli ultimi Pontefici ha fondato in Dio, radicati, cioè, contro lo svuotamento moderno, sulla legge naturale e sulla legge eterna di Dio (14). Certo, il legislatore positivo ha una certa discrezionalità in ordine sia alla scelta di punire, o meno, certi comportamenti, sia alla scelta delle sanzioni con cui punirli. Tuttavia, questa discrezionalità, legata ai tempi, ai luoghi, ai costumi e alle circostanze, ha un limite in quanto almeno i delitti che appaiono come conclusioni prossime e necessarie di ciò che costituisce male per la legge naturale non possono cambiare con il mutare del tempo, perché ricevono direttamente la causa della loro proibizione nella legge naturale. Per quanto riguarda le pene, san Tommaso dice che per legge naturale i malfattori devono essere puniti. Tuttavia, quale sia il tipo e la misura della pena non lo si ricava come conclusione della legge naturale. Dunque, deve essere determinato dall’autorità secondo i costumi, i criteri e le convenienze di ciascuna epoca. La previsione della giusta pena, nonché la sua concreta giusta comminazione sono compiti del legislatore e del giudice, che devono proporzionare la pena alla colpa; proporzionare le pene ai vari delitti; tener conto delle esigenze del bene comune e rispettare la dignità dell’uomo. Entro questi limiti, osserva san Tommaso, le determinazioni di ciò che è giusto dipendono dalla legge positiva, umana o divina, e variano secondo la diversità dei tempi (15).
7. Il diritto penale fondato in Dio: la riparazione del disordine introdotto dalla colpa
I giuristi moderni, i legislatori e i giudici della modernità parlano della funzione del diritto penale come di uno strumento necessario per la protezione dei beni sociali essenziali. Ciò non è del tutto falso, ma enormemente lacunoso. È immediatamente percepibile, invero, la differenza radicale di un diritto penale così inteso rispetto al diritto penale fondato nella verità cattolica. Gli autori moderni, proprio in virtù della laicizzazione del diritto penale, compiono ogni sforzo per espungere dal suo ambito quanto rinvia al concetto di colpa, che consiste, secondo la limpidissima definizione di san Tommaso, in qualsivoglia “volontario distacco dal bene, o per malizia o per negligenza” (16). Non è falso, dunque, che il diritto penale protegge i beni sociali essenziali; ma il diritto penale li protegge come supporto del bene comune, perché, attraverso la pena, intende tutelare e promuovere il bene comune, facendo prevalere il diritto contro la disgregazione arrecata dalla colpa.
Il mondo delle realtà terrene, invero, è distinto ma non separato dalla dimensione morale, spirituale e religiosa della vita dell’uomo. Occorre tener conto che nella colpa, insita in ogni delitto, poiché il delitto non può prescindere, ex parte animi, dal “volontario distacco dal bene, o per malizia o per negligenza”, è inclusa la violazione dei tre gradi dell’ordine entro il quale l’uomo vive la sua esperienza di vita: l’ordine della ragione; l’ordine della vita politica o economica; l’ordine universale sottomesso al governo di Dio. Dice precisamente san Tommaso: “Primo, la natura umana è soggetta all’ordine della propria ragione; secondo, all’ordine di chi governa l’uomo dall’esterno, sia spiritualmente che civilmente, e nella società politica e in quella domestica; terzo, è soggetto all’ordine universale del governo divino. Ora, col peccato ciascuno di questi ordini viene sconvolto: infatti chi pecca agisce contro la ragione, contro la legge umana, e contro la legge divina. Perciò tre sono le pene che incorre: la prima da se medesimo, cioè il rimorso della coscienza; la seconda dagli uomini; la terza da Dio” (17). La colpa, dunque, che postula la conoscenza dell’ordine che si ferisce, nonché la volontà di ferirlo, è la ratio e la causa della pena.
Fra la pena “naturale”, la pena giuridica e la pena divina v’è distinzione, in relazione al diverso punto di vista da cui è valutata la condotta che offende il medesimo bene; ma v’è anche analogia, determinata dal fatto che le tre forme di pena sono inflitte in ragione di una colpa. Il delitto, alla cui base v’è la colpa, è insieme un’offesa contro la ragione, contro il diritto e contro Dio. Con la pena giuridica, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, il legislatore e il giudice riparano un disordine — quello specifico disordine arrecato all’ordine giuridico esteriore — introdotto dalla colpa. Certo, il compito del legislatore e del giudice della città terrena è circoscritto dall’ambito della sua competenza: essi non sono coloro che dettano la legge alla coscienza o che giudicano la coscienza dell’individuo; né giudici della violazione recata alla legge eterna di Dio, e a Dio stesso, che è il suo Autore. È bene che si conservi ben netta la delimitazione della sfera giuridica dalla sfera della coscienza e dalla sfera religiosa. Eppure la sfera giuridica è rettamente delimitabile, evitandosi con ciò la sua assolutizzazione, soltanto se si tiene conto che essa non è separata dalla sfera della coscienza e dalla sfera spirituale.
La distinzione nell’unione affiora con chiarezza se si pensa ai fini della pena, che sono tanto di retribuzione della colpa commessa, quanto di carattere medicinale a riguardo del reo che ha volontariamente violato la legge penale. L’aspetto retributivo è intrinsecamente connesso alla pena giuridica; ma il carattere relativo, e non assoluto, della retribuzione lo si comprende soltanto se s’inserisce la pena giuridica nel grande quadro dei tre ordini cui l’uomo è soggetto, quello della propria ragione; quello della società politica; quello di Dio. Ciò è chiaramente visibile nel modo in cui san Tommaso affronta il problema della pena giuridica. Per il Doctor Angelicus v’è un tempo per l’esatta retribuzione delle colpe e dei meriti; è questo il tempo della giustizia divina governata dal giudizio cui ciascuno è sottoposto al momento della morte. In questa vita le pene, sia quelle giuridiche, sia quelle divine, pur non perdendo il loro carattere intrinsecamente retributivo (18), hanno una nota spiccatamente medicinale, sia per il singolo individuo, sia per la società nel suo insieme. Le due finalità sono strettamente allacciate: da un lato, la retribuzione non può essere perfetta e assoluta in questa vita, sia perché è impossibile all’uomo conoscere realmente la gravità della colpa, sia perché il giudizio giuridico non prende in considerazione l’insieme della vita della persona, ma solo un episodio particolare; da un altro lato, perché essa deve lasciare spazio al carattere medicinale della pena, in relazione alla possibile correzione della persona in vista del giudizio finale. Ecco il passo fondamentale di san Tommaso sulla giusta pena giuridica, posta in relazione al giudizio di Dio nella vita futura: “Le pene che sono inflitte da Dio nella vita futura corrispondono alla gravità della colpa, per cui l’Apostolo dice (Rm 2, 12) che “il giudizio di Dio è secondo verità nei riguardi di coloro che fanno tali cose”. Ma le pene che vengono inflitte nella vita presente sia da Dio sia dall’uomo non sempre corrispondono alla gravità della colpa: […] infatti le pene della vita presente vengono imposte quasi come medicine” (19). E ancora, nella Summa Theologiae: “[…] i castighi della vita presente sono più medicine che sanzioni: la sanzione infatti è riservata al giudizio di Dio, che colpisce i peccatori “secondo giustizia”” (20).
È possibile comprendere, a questo punto, la grande distanza che separa il diritto penale secolarizzato dalla integrale dottrina cattolica. La pena inflitta dal giudice della società civile ha sì in sé stessa un intrinseco carattere retributivo, perché essa “redime” la colpa — in questo senso va forse inteso il passo del De Malo di san Tommaso, in cui egli dice che “la pena è il fine della colpa” (21) —, nel senso che opera metafisicamente il ripristino della relazione di giustizia interrotta dalla colpa. Questo carattere retributivo non esaurisce il significato della pena, perché essa, nello stato dell’uomo pellegrino, ancora lontano dalla patria definitiva, è anche la medicina che serve alla emenda per essersi reso colpevole della rottura del vincolo di amicizia che lega gli uomini in società.
Il diritto penale, secondo la visione cattolica, dunque, nel proteggere i beni sociali essenziali, svolge un compito che è superiore alla mera amministrazione delle cose e dei beni e alla semplice organizzazione dei cittadini per il loro benessere materiale. Esso, come recita il Catechismo, ha come compito essenziale “di riparare il disordine introdotto con la colpa”. Dunque, deve dimostrare concretamente che il male del delitto non ha nella società la parola definitiva, perché l’ultima parola spetta al diritto e alla giustizia. Con ciò il diritto penale contribuisce al bene comune, in quanto opera affinché i cittadini pervengano liberamente al loro fine, sia naturale, sia, anche, soprannaturale. Al fine naturale, che è la pace, cioè la tranquillità dell’ordine legittimo, la pena contribuisce assicurando “l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”, come è detto pure nel Catechismo. La pena è, dunque, condizione indispensabile affinché i cittadini vivano in pace, che è, secondo le parole di sant’Agostino “l’ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini” (22). Al bene non soltanto temporale di ogni singolo uomo la pena contribuisce attraverso la sua funzione medicinale. Agli uomini “che non si lasciano muovere facilmente dalle parole” (23), secondo l’icastica espressione di san Tommaso, la pena si rivolge affinché desistano dal delinquere, almeno per timore di essa. Se, poi, essi abbiano consumato il delitto, la pena costituisce un rimedio per riacquistare la virtù perduta e per emendarsi. Per tutti gli uomini, infine, anche per quelli che non hanno delinquito, la pena è un medicinale prezioso per l’ascesi virtuosa, che è un fine della società, la quale deve essere costituita in modo da favorire la virtù dei cittadini. La pena conferma i cittadini nella convinzione del giusto, mostrando che la colpa non ha l’ultima parola (24). Il delitto impunito è fonte di scandalo, perché lascia aperta la ferita dell’ingiustizia nella società. La pena, in questa prospettiva, è necessaria “per ristabilire l’equilibrio della giustizia e per togliere lo scandalo altrui” (25), confermando i cittadini nei propositi di bene, nonché per disingannare e far rinsavire coloro che hanno delinquito (26).
8. Conclusione
Lo sradicamento del diritto penale dal suo fondamento in Dio non ha fatto venir meno la penalità, ché anzi, in tutte le parti del mondo e, soprattutto, nei paesi dell’Occidente già cristiano, l’incidenza concreta della pena sulla popolazione si è enormemente accresciuta negli ultimi due secoli. Sociologicamente sarebbe possibile descrivere una legge in virtù della quale quanto più il diritto penale si distacca dal fondamento soprasensibile, tanto più si fa impellente la necessità per lo Stato di ricorrere alle sanzioni punitive che limitano coattivamente la libertà e i beni dei cittadini. E più gli Stati ricorrono alla via della “depenalizzazione” dei reati minori, più diventa massiccia la richiesta di nuove strutture carcerarie per far fronte alle necessità di restrizione di chi ha commesso gravi delitti.
Coloro che pensano che la “laicizzazione” del diritto penale debba andar oltre la negazione di Dio come fondamento, sono diventati fautori di una criminologia e di un diritto penale “critico”, che delinea il programma di una progressiva abolizione del diritto penale. Questo “rimedio” presenta qualcosa di assurdo. Eppure designa con chiarezza l’anomalia di una politica e di una dottrina che pretendono di punire, ma che rinunciano a sapere perché, e in base a quale diritto, sia consentito punire. Se la colpa non è questione che possa essere discussa sul piano del diritto, allora il diritto penale non ha più cittadinanza nella città terrena. Ciò significherebbe consegnarla alle forze oscure che alimentano l’anarchia e il caos.
Note
(1) La filosofia classica delinea tre inclinazioni naturali nell’uomo: le prime due ad esse, legate rispettivamente all’istinto di conservazione e ai meccanismi biologici e sessuali attinenti alla generazione; la terza ad melius esse, come inclinazione specifica dell’uomo, regolata dalla ragione e che regola a sua volta le inclinazioni ad esse. Aristotele (384-322 a. C.) dice di questa conoscenza primordiale originaria e originante: “Infatti, vi è un qualche giusto [“dikaion”] e un qualche ingiusto comune per natura [“physei”], di cui tutti hanno una divinazione (“manteia”), anche se non esistesse nessuna comunanza degli uni con gli altri, né alcuna convenzione [“syntheke”] […] e come Empedocle afferma riguardo al non uccidere l’essere animato. Infatti, non (è possibile) che ciò per alcuni sia giusto, mentre per alcuni non sia giusto” (Retorica, I, 1373b, 6-16, in Idem, Retorica e Poetica, a cura di Marcello Zanatta, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2004, pp. 13-442 (p. 209). Cfr. anche Idem, Politica, 1253, a 4, in Idem, Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1992, pp. 51-342 (pp. 66-67). Ciò potrebbe corrispondere a quanto dice il frammento 23 di Eraclito (550 ca.-480 ca. a.C.): “Gli uomini non conoscerebbero neppure il nome della Giustizia, se non ci fossero cose ingiuste” (Giovanni Reale [a cura di], I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels [1848-1922] e Walther Kranz [1884-1960], 3a ed. riveduta e corretta, Bompiani, Milano 2008, p. 347).
(2) Cfr. Hans Kelsen, Vergeltung und Kausalität. Eine soziologische Untersuchung, “Retribuzione e causalità. Una ricerca sociologica”, University of Chicago Press, Chicago 1941, in particolare pp. 279-282.
(3) Cfr. Wolfgang Naucke, Christliche, aufklärerische und wissenschaftstheoretische Begründung des Strafrechts (Luther-Beccaria-Kant), “La fondazione cristiana, illuministica e scientifica del diritto penale (Lutero-Beccaria-Kant)”, in Luigi Lombardi Vallauri e Gerhard Dilcher (a cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè, Milano 1981, pp. 1201-1209.
(4) “Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. […] Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. […] L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza — è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente” (Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti del mondo scientifico nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, del 12-9-2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 2, 2006. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 257-267, trad. it., in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-9-2006.
(5) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2265.
(6) Ibid., n. 2266.
(7) Ibid., n. 2265.
(8) Ibid., n. 2266.
(9) Cfr. Paul Ricoeur, Interprétation du mythe de la peine, in Enrico Castelli (1900-1977) (a cura di), Le mythe de la peine, Aubier, Parigi 1967, pp. 23-42.
(10) San Tommaso, Summa contra Gentiles, libro III, cap. 146, n. 1 [testo e trad. it., in Idem, La Somma contro i Gentili, vol. 2, Libro Terzo, a cura di Tito Sante Centi O.P. (1915-2011), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001, p. 551.
(11) Cfr. Idem, Summa Theologiae, II-II, q. 108, a 4, ad. 2 [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, trad. e commento a cura dei domenicani italiani, testo latino dell’edizione leonina, vol. XIX, Le altre virtu riducibili alla giustizia (II-II, qq. 101-122), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 130].
(12) Cfr. Sant’Agostino, De civitate Dei, libro IV, p. 4, trad. it., La città di Dio, vol. I, (Libri I-X), testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione di Agostino Trapè O.S.A. (1915-1987), Robert P. Russel O.S.A. (1910-1985), Sergio Cotta (1920-2007), traduzione di Domenico Gentili O.S.A. (1914-1992), Città Nuova, Roma 1990, p. 257: “Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?”, “Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri?”.
(13) Georges Kalinowski, Le fondement objectif du droit d’après la Somme Théologique de saint Thomas d’Aquin, in Archives de Philosophie du Droit, tomo XVIII, Dimensions religieuses du droit (notamment sur l’apport de Saint Thomas d’Aquin), Parigi 1973, pp. 59-75 (p. 69).
(14) Cfr. Philippe André-Vincent O.P., (1911-1986), Le fondement du droit et la religion d’après les documents pontificaux contemporains, ibid., pp. 149-164.
(15) Cfr. Idem, Summa Theologiae, I-II, q. 104, a 3, ad 1 [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. XII, La legge (I-II, qq. 90-105), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 414].
(16) La definizione è tratta da Tiberio Deciani (1509-1582), Tractatus criminalis clarissimi ac celeberrimi iurisconsulti d. Tiberii Deciani Utinensis, Tomus primus, Liber primus, De vocibus, quibus delicta, e crimina significantur, Cap. IV, De Culpa, 7, Venetiis MDXC, il quale cita san Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 48, a. 6 co. [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. IV, La creazione. Gli Angeli (I, qq. 44-64), pp. 122-129], ove si legge che “[…] la colpa consiste in un atto disordinato della volontà” [p. 126]; ibid., II-II, q. 34, a. 2 co. [ibid., vol. XVI, Peccati contro la carità. La prudenza (II-II, qq. 34-56), pp. 28-32], ove si legge che “[…] l’essenza della colpa consiste nel volontario distacco da Dio” [p. 30]; ibid., I-II, q. 21, a. 2 co. [ibid., vol. VIII, La beatitudine. Gli atti umani, (I-II, qq. 1-21), pp. 446-451], ove si legge che “[…] lodare o incolpare qualcuno equivale a imputare a lui la libertà o la malizia dei suoi atti” [p. 448].
(17) Ibid., I-II, q. 87, a 1 co. [ibid., vol. XI, Vizi e peccati (I-II, qq. 71-89), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 320].
(18) Ha ribadito questo carattere della pena il venerabile Pio XII (1939-1958) nel discorso Ai partecipanti al VI Congresso Internazionale di Diritto Penale, del 3-10-1953, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XV, 2 Marzo 1953-1° Marzo 1954, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1954, pp. 335-353, trad. it., in Atti e discorsi di S. S. Pio XII, vol. XV, Anno 1953, Edizioni Paoline, Roma 1954, pp. 386-407.
(19) San Tommaso, De Malo, q. 2, a. 10, 4 [testo e trad. it., in Idem, Le questioni disputate, trad. e commento a cura dei domenicani italiani, testo latino dell’edizione leonina, vol. 6, Il male. Questioni 1-6, con Introduzione di Giovanni Cavalcoli O.P., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2002, p. 247].
(20) Idem, Summa Theologiae, II-II, q. 66, a. 6, ad 2 [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. XVII, La giustizia (II-II, qq. 57-79), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 220].
(21) Idem, De Malo, q. 1, a. 5, 17 [testo e trad. it., in Idem, Le questioni disputate, cit., vol. 6, Il male. Questioni 1-6, cit., p. 109].
(22) Sant’Agostino, De Civitate Dei, libro XIX, 13, 1, trad. it., La città di Dio, vol. III, (Libri XIX-XXII), testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione, traduzione e note di D. Gentili O.S.A., indici di Franco Monteverde O.S.A., Città Nuova, Roma 1991, p. 51.
(23) San Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 95, art. 1 co. [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. XII, La legge, cit., p. 112].
(24) Va al riguardo ricordato l’insegnamento del venerabile Pio XII: “L’essenza della colpa sta nell’opposizione libera alla legge ritenuta vincolante, nell’infrazione e nella violazione cosciente e voluta del retto ordine. Una volta che essa è avvenuta, è impossibile fare in modo che non esista. Tuttavia, per quanto è possibile dare soddisfazione all’ordine violato, bisogna farlo. È un’esigenza fondamentale della “giustizia”. Nel campo della moralità è suo compito mantenere l’uguaglianza esistente e giustificata, conservare l’equilibrio e ripristinare l’uguaglianza infranta. Questa richiede che, mediante la pena, il responsabile sia con la forza sottoposto all’ordine. Il compimento di quest’esigenza proclama la supremazia assoluta del bene sul male; per mezzo di essa si esercita la sovranità assoluta del diritto sull’ingiustizia. Vogliamo fare un ultimo passo ancora: nell’ordine metafisico la pena è una conseguenza della dipendenza dalla Volontà suprema, dipendenza scolpita fin nelle ultime pieghe dell’essere creato. Se mai si deve reprimere la rivolta dell’essere libero e ristabilire il diritto violato, ciò è precisamente quando l’esige il supremo Giudice e la giustizia suprema. La vittima di un’ingiustizia può liberamente rinunciare alla riparazione, ma la giustizia da parte sua gliel’assicura in ogni caso” (Pio XII, Ai partecipanti al VI Congresso Internazionale di Diritto Penale, cit., pp. 351-352, trad. it., in Atti e discorsi di S. S. Pio XII, vol. XV, Anno 1953, cit., pp. 386-407 [pp. 404-405]).
(25) San Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 87, art. 6, ad 3 [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. XI, Vizi e peccati (I-II, qq. 71-89), ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 336].
(26) Cfr. ibid., II-II, q. 65, a. 1 co. [testo e trad. it., in Idem, La Somma Teologica, cit., vol. XVII, La giustizia, cit., pp. 192-196], ove si legge che è “inflitta come castigo di certi delitti” [p. 194].