“Inadatti a sostenere il benché minimo ruolo genitoriale” per “l’abituale tendenza a trasgredire le regole dell’etica”: così è scritto nel provvedimento con il quale il Tribunale per i minorenni di Napoli ha disposto l’allontanamento dei figli di alcuni affiliati ad un clan camorristico napoletano, dediti in particolare allo spaccio di sostanze stupefacenti.
Quasi un anno fa, analoga decisione ha adottato il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria dichiarando la decadenza dalla responsabilità genitoriale di ‘ndranghetisti, sulla base di riflessioni sostanzialmente simili: “il modello educativo (…) rischia concretamente di compromettere lo sviluppo del minore, esponendolo a condotte devianti (…)”.
Non si vuole qui discutere sulla fondatezza e l’opportunità delle decisioni assunte dai giudici minorili che, peraltro, hanno registrato, nel caso dei mafiosi calabresi, la condivisione di alcuni dei genitori colpiti dalla privazione della potestà genitoriale.
Le riflessioni da fare riguardano, in primo luogo, il riconoscimento dell’ambiente mafioso come “modello culturale”.
Finalmente, va detto, si incomincia ad abbandonare un’interpretazione del fenomeno mafioso tutta incentrata sulla povertà e l’arretratezza. Non è così. La descrizione giudiziaria del consenso sociale alle organizzazioni di tipo mafioso lascia emergere tutta un’altra storia: a spingere verso l’adesione al clan, alla cosca o alla ‘ndrina non è solo la ricerca del successo economico; è soprattutto il bisogno di essere riconosciuti, di emergere da un indifferente anonimato, di avere una ragione forte per cui spendere la propria vita: insomma, la mafia risponde sempre più ad una domanda di tipo esistenziale. Né appare fondato nella realtà ritenere, come ha fatto per anni una sociologia ed una letteratura attenta più al noir che ai fatti, che i mafiosi o i camorristi siano ai margini della società, irrimediabilmente imbevuti di ignoranza ed arretratezza: basta osservare il modo di comunicare attraverso i social media, o il modo di vestire dei giovani mafiosi, delle cosiddette paranze, per rendersi conto che non sono affatto distonici rispetto ai propri coetanei.
Allora un interrogativo si impone: che cosa non ha funzionato?
Le famiglie? Certo.
Ma non solo. Se questi giovani hanno, liberamente, fatto questa scelta, è perché non hanno realisticamente avuto alternativa. E non perché gli è stata puntata una pistola alla tempia: quanti mafiosi si sono “pentiti” per lanciare un segnale ai propri figli! Se hanno fatto questa scelta, è perché questi giovani non hanno incontrato modelli culturali alternativi credibili.
Quei provvedimenti giudiziari sanciscono, in realtà, non solo la pericolosità del modello culturale mafioso, ma il fallimento dello stesso modello culturale su cui si regge la nostra società, quello del relativismo assoluto. Se, infatti, non ci sono principi e valori oggettivi, se ogni discorso identitario viene presentato come la peste del nostro secolo, per quale motivo l’opzione mafiosa dovrebbe essere condannata? In base ad una convenzione? Richiamando una sorta di minimo etico? E chi ne stabilisce il contenuto? Sulla base di quale autorità, se è messa al bando ogni discorso di verità sull’uomo?
Ma non basta. C’è un’ulteriore riflessione da fare, che s’impone.
Viene colpita la “devianza” del familismo amorale di stampo mafioso. Bene.
Ma cosa dire della devianza istituzionale, quella cioè tollerata, se non esplicitamente favorita, mediante leggi che rinunciano a qualsiasi giudizio sui comportamenti, a qualsiasi contenuto di verità. Si pensi alla legalizzazione delle droghe. Dove sono le “regole dell’etica”, pure giustamente invocate dai giudici contro i padri camorristi? La legge, si sa, regola i comportamenti, ma forma anche le coscienze. Se lo Stato organizza lo spaccio delle droghe, lo rende cioè legittimo, trasforma con un tratto di pena ciò che è illecito in lecito, ciò che è ingiusto in giusto, ciò che è male in bene. E qual è il modello culturale ed etico proposto ai giovani? La più assoluta indifferenza, la ricerca della “felicità”, qui ed ora.
Ma se così stanno le cose, perché non andare alla “fonte” della felicità terrena, a chi è in grado di soddisfare, al massimo grado, sensi e vanagloria?
In definitiva, da un lato si tolgono i figli agli spacciatori e dall’altro è lo stesso Stato che organizza lo spaccio. La contraddizione è solo apparente.
Il problema non è, infatti, chi devia, ma chi e cosa definisce la devianza. E per questo, non servono provvedimenti giudiziari, ma un salutare ritorno al reale ed ai quei principi che da sempre portiamo scritti nel nostro cuore.
Domenico Airoma