di Pier Marco Ferraresi
1. Le fonti
Descrivere la storia della popolazione in Italia significa da una parte ricostruire, per quanto possibile, l’andamento della popolazione in termini quantitativi nella penisola italiana per un periodo definito, e dall’altra implica la necessità di fornire idonee chiavi interpretative, che mostrino come i «tempi della popolazione» siano legati ai tempi della società, dell’economia e della cultura, pur mantenendo una loro autonomia specifica.
Nella ricostruzione storica dell’evoluzione quantitativa e qualitativa — fasce d’età, istruzione, ricchezza e così via — della popolazione la prima difficoltà riguarda le fonti: fino al 1500 le rilevazioni, a fini prevalentemente militari e fiscali, sono rare; esse consentono ipotesi sulla consistenza della popolazione, ma nulla è possibile dire circa le caratteristiche di natalità, mortalità e fecondità. Un vero corpo di dati organico emerge solo fra 1500 e 1600: nel 1563 il Concilio di Trento (1545-1563) introduce l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali di battesimo e di matrimonio secondo modalità omogenee; inoltre, nel 1614, con il Rituale Romanum di Papa Paolo V (1605-1621), diviene obbligatorio registrare anche le sepolture e compilare annualmente, in tempo di Pasqua, lo «stato delle anime», una sorta di censimento su scala parrocchiale, ricco d’informazioni sugli individui e sulle famiglie. In Italia le fonti d’informazione rimangono prevalentemente ecclesiastiche fino al 1800: durante la dominazione napoleonica s’introduce un sistema civile di rilevazione, si gettano le basi delle anagrafi comunali, delle rilevazioni di stato civile e dei moderni censimenti. Ma il periodo che comincia con la seconda metà del 1600 ha un valore particolare soprattutto dal punto di vista metodologico. Con la nascita dell’«aritmetica politica» si applicano metodi matematici e misurazioni quantitative anche ai fenomeni sociali, e nel 1662 l’inglese John Graunt (1620-1674), con l’opera Natural and political observations upon the bills of mortality, «Osservazioni naturali e politiche sui bollettini di mortalità», in cui esamina i bollettini di mortalità della città di Londra, si pone all’origine dell’analisi statistico-demografica; questa si evolverà secondo due vie complementari: da una parte l’utilizzazione secondo appropriate tecniche di dati rilevati non necessariamente a fine d’indagine scientifica, dall’altra la messa a punto di rilevazioni prevalentemente a questo scopo, secondo modalità omogenee anche a livello internazionale, il cui frutto è l’imponente massa d’informazioni disponibile alla fine del secolo XX per i paesi economicamente sviluppati.
2. Andamento della popolazione dall’inizio dell’era cristiana
I primi due secoli dell’era cristiana segnano una fase di espansione della popolazione italiana, che passa da 7 a 8,5 milioni di abitanti. I successivi cinque secoli — dal 200 al 700 d.C. — sono invece caratterizzati da una prolungata contrazione che, pur a un tasso di decremento annuo medio solo dell’1,5‰, porta la popolazione a 4 milioni di abitanti, ben al di sotto del valore iniziale. Il ricupero iniziato nel 700 richiederà altri cinquecento anni per riportare la popolazione a 8,5 milioni nel 1200, e si protrarrà fino alla metà del 1300 a un tasso medio annuo dell’1,9‰, quando, raggiunto il livello di 12,5 milioni di abitanti, la penisola viene spopolata dalla peste del 1348. Il declino demografico dura fino al 1450, a un tasso annuo del 3,4‰, e riporta la popolazione a 7,5 milioni di abitanti. Dopo il salasso dovuto alle grandi epidemie si registrano 150 anni d’espansione — da 7,5 a 13,5 milioni — e una breve contrazione — 50 anni —, che portano l’Italia a 11,7 milioni di abitanti nel 1650. La successiva fase espansiva dura ancora ai nostri giorni e ha portato l’Italia a 56,4 milioni di abitanti nel 1991, con un tasso medio annuo d’incremento del 4,6‰.
Meritevoli di un esame più ravvicinato sono, per la loro rilevanza qualitativa, i cambiamenti avvenuti a partire dall’Unità d’Italia fino a ora: in via generale si nota un raddoppio della popolazione, con un tasso d’incremento comunque modesto e caratterizzato da notevoli oscillazioni fra un censimento e l’altro; ma i cambiamenti interessanti riguardano i singoli fattori dell’evoluzione demografica, in particolare la natalità, la fecondità e la mortalità; inoltre, le disparità regionali, in parte acuite dal processo di unificazione, hanno portato alla ribalta le migrazioni come fenomeno riequilibrante della «pressione demografica». Subito dopo l’unificazione l’Italia aveva un tasso di natalità di 35 nati vivi ogni 1000 abitanti, negli anni 1990 è fra i paesi al mondo con più bassa natalità, con un tasso di circa il 10‰; un’analoga riduzione si è avuta nella mortalità, che si è stabilizzata, in quanto il notevole invecchiamento della popolazione, aumentando la componente a forte rischio di morte, ha bilanciato gli effetti dell’ulteriore aumento dei livelli di sopravvivenza. Fra la fine del 1800 e i primi decenni del 1900 si è verificata anche in Italia la cosiddetta «transizione demografica»: un periodo di forte incremento dovuto all’iniziale riduzione della mortalità, già molto evidente nel trentennio precedente la prima guerra mondiale (1914-1918), non accompagnata dalla riduzione della fecondità, che si è verificata lentamente durante il quarantennio successivo alla guerra, comportando una più lenta modifica di condizioni di vita e di mentalità. In particolare, essa ha comportato: a. la considerazione del numero dei figli come una variabile da pianificare sotto il controllo della coppia; b. l’esistenza di un vantaggio economico a ridurre la fecondità; c. la disponibilità e la conoscenza di metodi di controllo e pari consapevolezza e accordo fra i componenti della coppia nella volontà di utilizzarli.
La transizione demografica è stata comunque in parte attenuata dall’emigrazione e il tasso medio annuo d’incremento della popolazione non ha mai superato l’1%. Negli anni 1990 i flussi migratori hanno un segno tendenzialmente positivo, mentre il saldo naturale fra natalità e mortalità ha raggiunto la cosiddetta «crescita zero». Un ultimo elemento d’interesse può essere la dispersione regionale: subito dopo l’unificazione le regioni sono accomunate da alti livelli di fecondità e bassa speranza di vita; poi passano a una maggiore differenziazione lungo entrambe le dimensioni, per giungere, all’inizio degli anni 1990, a una speranza di vita alla nascita, per le donne, intorno agli 80 anni su tutto il territorio dello Stato, mantenendo però, pur entro modesti limiti assoluti, una notevole differenziazione in termini relativi per quanto riguarda la fecondità. I dati fino a qui esposti suggeriscono un mutamento qualitativo nelle dinamiche demografiche: il passaggio da un regime vecchio a uno moderno e, forse, l’inizio di una nuova svolta.
3. I tempi della popolazione fra vecchio e nuovo regime demografico
La transizione compiuta in Italia fra la fine del 1800 e la prima metà del secolo XX segna appunto il definitivo affermarsi del nuovo regime demografico, le cui premesse si scorgono già nell’Europa del secolo XVIII. Per comprendere la differenza qualitativa fra vecchio e nuovo regime bisogna vedere l’incremento/decremento demografico come risultante di più fattori legati fra loro in un sistema, che può mettere in atto diverse strategie di risposta alle pressioni esterne. I fattori da considerare utilmente sono: il numero di nati, di un certo sesso, in un certo anno; la mortalità prima dell’età feconda; la nuzialità — intesa come percentuale dei nati che arriva a un’unione a fini procreativi —; la fecondità dell’unione e la sua durata, nonché i flussi migratori.
Nel regime vecchio la dinamica della popolazione è affidata prevalentemente a variazioni della sopravvivenza all’età riproduttiva e della nuzialità. In altri termini il sistema può, in una certa misura, inquadrarsi in uno schema di tipo malthusiano: la popolazione si adatta alle risorse disponibili riducendo o aumentando il numero delle unioni; in caso contrario, quando si presentano situazioni difficili per la scarsità di risorse o per altri motivi, aumenta il numero dei decessi; per contro, la fecondità non è controllata e rimane sempre abbastanza alta — diciamo fra i quattro e i sette figli per donna —, mentre i movimenti di popolazione fra un paese e l’altro non sempre risultano agevoli.
La dinamica del nuovo regime assume invece come elementi regolatori la fecondità e il processo migratorio: la prima viene controllata direttamente dalla coppia, mentre il secondo è reso più semplice dalla facilità delle comunicazioni. Anche in questo caso si verifica una crescita lenta o addirittura una riduzione: la fecondità in Italia è ormai scivolata a 1,3 figli in media per donna — anche se va precisato che oggi si tende a ritardare il momento della procreazione, e questo produce una sottostima — e previsioni ormai attendibili per il 2000 indicano un saldo naturale — cioè senza considerare i movimenti migratori — fortemente negativo.
In sostanza il passaggio dal vecchio al nuovo regime demografico può essere visto come un passaggio da un regime «ad alta pressione» a uno «a bassa pressione»; nel vecchio regime la regolazione è traumatica: povertà e carestie, o addirittura epidemie, portavano alla riduzione della crescita demografica attraverso l’aumento della mortalità, o la rinuncia al coniugio. La «pressione» del nuovo regime è invece costituita dagli elementi tipici di un’economia sviluppata, come l’aumento del costo dei figli a causa delle spese d’istruzione e del ritardato ingresso nel mondo del lavoro nonché la «difesa» dello standard di vita conseguito. L’affermarsi di sistemi previdenziali e socio-assistenziali riduce da parte dei genitori la necessità di procreare per essere assistiti nella vecchiaia; inoltre i meccanismi di regolazione non sono fisicamente traumatici, essendo costituiti dal controllo volontario della fecondità e dai flussi migratori. A tale non traumaticità fisica — rispetto alla quale, peraltro, la pratica dell’aborto costituisce un tragico controfatto — s’accompagna non di rado una traumaticità psicologica, che oppone, nei rapporti generazionali, gli adulti ai bambini, considerati come un «pericolo», un «ostacolo» alla crescita e al benessere dei genitori e della società.
4. Uno sguardo al futuro
Il futuro presenta come al solito margini d’incertezza: in particolare non è possibile stabilire se il forte rallentamento demografico rappresenti o meno l’inizio di una nuova fase di squilibrio di lungo periodo; ma è certamente possibile che esso ponga nei primi decenni del secolo XXI forti ostacoli allo sviluppo economico del paese. Le caratteristiche tipiche del nuovo regime demografico, in particolare il costante calo della mortalità degli anziani e la natalità a livelli minimi, portano a un invecchiamento della popolazione che ha almeno due effetti. Da una parte si ha un aumento delle classi percettrici di trasferimenti sociali a fronte di una riduzione delle classi attive, e questo mette in crisi lo Stato sociale, in particolare il sistema previdenziale e assistenziale. Dall’altra l’ingente necessità di trasferimenti alle classi economicamente improduttive non consente di alleviare alcuni costi che gravano sulle famiglie, riducendone così la fecondità: il reddito a cui rinunciano le donne che decidono di non lavorare è elevato, e così il costo per educare i figli, a cui si aggiunge la lunga durata della loro permanenza in famiglia.
Prescindendo dall’ipotesi che lega eventuali potenzialità di sviluppo del sistema economico a potenzialità di sviluppo dal punto di vista demografico, un’immigrazione che possa riequilibrare la struttura della popolazione sembra inevitabile. Si tratta però di una notevole incognita: infatti, in mancanza di un accurato controllo, che consenta un afflusso di persone economicamente attive dall’estero di pari passo con l’evolversi delle necessità interne, l’immigrazione si trasforma fatalmente in fonte di nuovi grandi problemi sociali.
Pier Marco Ferraresi
Per approfondire: vedi una sintesi della storia demografica d’Italia, in Lorenzo Del Panta, Massimo Livi Bacci, Giuliano Pinto ed Eugenio Sonnino, La popolazione italiana dal medioevo ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1996; vedi pure Nora Federici (a cura di), La popolazione in Italia, Boringhieri, Torino 1976; e Atos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, Einaudi, Torino 1987. Vedi una sintesi breve e completa di più ampio spettro, anche se a tratti un po’ tecnica, in M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, il Mulino, Bologna 1998, che chiarisce bene le relazioni della demografia con le altre scienze sociali. Sugli aspetti etici della questione demografica e sulle sue relazioni con lo sviluppo, vedi Lorenzo Cantoni, Il problema della popolazione mondiale e le politiche demografiche. Aspetti etici, Cristianità, Piacenza 1994.