Recentemente l’espressione “post-verità” si è diffusa in modo virale nel dibattito pubblico. La locuzione è un adattamento dall’inglese post-truth, utilizzata a tal punto dalla stampa anglosassone e dal web, da spingere gli Oxford Dictionaries a eleggerla parola dell’anno per il 2016.
L’espressione post-truth intende descrivere una situazione antropologica e culturale in cui le emozioni e le opinioni soggettive risultano più efficaci e influenti dei fatti oggettivi nell’orientare le convinzioni delle persone.
Molti commentatori hanno fatto ricorso alla nozione di post-verità per spiegare le recenti vittorie elettorali della Brexit, di Donald Trump e persino del No al referendum costituzionale in Italia, considerati esempi riusciti di manipolazione politica veicolata dal web, risultati vincenti grazie all’impatto emotivo dei contenuti diffusi e all’assenza di verifica della loro veridicità da parte degli elettori. La post-verità viene perciò presentata come legata a doppio filo al fenomeno delle “fake news” (notizie false). Nella categoria delle “fake news” entrano le omissioni, le esagerazioni, le verità espresse in maniera fuorviante, fino alle pure e semplici menzogne, che hanno però il limite di essere facilmente identificabili. La loro diffusione, nella prospettiva della post-verità, risulterebbe facilitata dalla tendenza delle persone a prediligere informazioni che confermano le proprie opinioni a scapito dei dati oggettivi.
Dopo la campagna avviata dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, con il sito bastabufale.it., in cui s’invita alla mobilitazione per contrastare la disinformazione e le fake news, il 7 febbraio la senatrice Adele Gambaro ha presentato al Senato un ddl intitolato “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”, che prevede condanne penali e civili per blog e forum che diffondono notizie “esagerate o tendenziose che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi”. La possibilità che si proceda a varare una legge per identificare e sanzionare le fake news ripropone il problema della libertà d’espressione.
L’uso politico della disinformazione, lo screditamento dell’avversario e anche la diffusione di notizie false non sono certamente strumenti nuovi delle campagne politiche, tali strumenti sono stati ampiamente usati sin dall’antichità e, in tempi più vicini a noi, dai regimi totalitari. Ci si può chiedere, allora, in cosa consisterebbe l’aspetto di radicale novità del fenomeno, capace di suscitare indignazione e allarme. Alcuni individuano la sua novità nella globalità, capillarità e velocità virale «della diffusione delle varie post-verità; e poi (nel)la generalità e genericità degli attori che possono alimentarle, spesso con una propaganda nascosta e inaspettata che può provenire da pseudo-istituti di ricerca, da esperti improvvisati.» (Marco Biffi, Redazione Consulenza Linguistica, Accademia della Crusca, 25 novembre 2016. Consultato il 17/2 /2017)
Si tratterebbe quindi di una novità legata più a un fatto quantitativo che qualitativo, connesso alla capillarità e velocità della diffusione e al moltiplicarsi degli attori che alimentano la “post-verità” nel web.
L’aspetto che suscita la preoccupazione di politici e commentatori, tuttavia, non sembra riguardare tanto la “produzione” della post-verità, quanto le ragioni della sua ricezione: «perché c’è una complicità molto forte da parte di chi ‘subisce’ il dato emotivamente accattivante o di parte, visto che il dato è quasi sempre facilmente verificabile con mezzi endogeni, facilmente accessibili attraverso la stessa rete.» (Ibidem)
La preoccupazione di tutelare gli utenti, espressa in più occasioni dell’onorevole Laura Boldrini, sembra implicare il retro-pensiero che giudica i fruitori delle notizie una massa di minus habens incapaci di discernimento, soprattutto (come nel caso della vittoria imprevedibile e inattesa di Trump, della Brexit e del No al referendum), quando scelgono e sostengono messaggi orientati in direzione contraria alla presunzione di ragionevolezza e di “verità” dei giudizi che danno sostanza al pensiero “progressista”.
Il problema della disinformazione e della menzogna è reale e molto grave, ma si tratta di un problema che riguarda la morale e l’educazione, non la legge. La morale perché chi mente sa di compiere il male negando ciò che sa e crede vero. L’educazione perché formulare o aderire a giudizi infondati è la conseguenza di un’insufficiente formazione della coscienza.
Perciò quando la politica inizia a porsi l’obiettivo di controllare e regolamentare le informazioni, avviando un processo ostile alla libertà di espressione, il timore di una deriva totalitaria è legittimo.
Paradossalmente è proprio il pensiero “progressista”, che ora s’interroga trepidante sulle ragioni della diffusione della “post-verità”, ad aver generato le condizioni della sua esistenza. “Post” significa “dopo, dietro, oltre”; la locuzione “post-verità” indica dunque uno scenario in cui la narrazione, svincolata dall’oggettività del reale, si appoggia esclusivamente su elementi soggettivi il cui esito culturale è il relativismo, cuore pulsante del progressismo.
E’ perciò illogico, e anche un po’ grottesco, che da questa tribuna provengano le recriminazioni sulle conseguenze sociali della destituzione della verità dal suo fondamento.
Laura Boccenti