di Giulio Dante Guerra
1. Fermenti rivoluzionari
Nella fondazione in Italia, fra il 1796 e il 1799, di repubbliche giacobine da parte dei rivoluzionari francesi, colpisce immediatamente l’assenza quasi totale di quanto viene considerato la caratteristica principale della democrazia: le libere elezioni. “Quasi”, perché nella Repubblica di Lucca, agl’inizi del 1799, si svolgono libere elezioni, indette, significativamente, non dai francesi, ma dall’ultimo governo pre-rivoluzionario.
Allo scoppio della rivoluzione nel Regno di Francia, nel 1789, la Repubblica di Lucca è governata da un’aristocrazia terriera in gran parte di origine mercantile. Nell’università — fondata nell’anno 1788 con la riunione, sancita da un breve di Papa Pio VI (1775-1799), di scuole e d’istituti superiori preesistenti — si studiano, fra l’altro, l’idraulica e la chimica, la prima per difendere la città dalle piene del Serchio e per bonificare gli acquitrini del litorale, la seconda per le sue possibili applicazioni all’agricoltura.
Negli anni precedenti il piccolo Stato non era rimasto immune dalla propaganda illuministica. Nel 1758 ha inizio la pubblicazione di una traduzione italiana dell’Enciclopedia; nel 1764 è approvata la legge sulla manomorta ecclesiastica, che limita la possibilità di donazioni alla Chiesa da parte dei privati; nel 1789 il governo impone che, in duomo, il seggio del gonfaloniere sia spostato a destra dell’altare — posizione tradizionalmente riservata all’arcivescovo — e un gradino più in alto di quello del presule, in omaggio alle dottrine regalistiche correnti.
2. L’occupazione francese
Quando, nel 1792, inizia l’esportazione manu militari della Rivoluzione francese, la Repubblica di Lucca tenta in ogni modo di tenersi fuori del conflitto, ma non può far a meno di versare all’imperatore Francesco II d’Asburgo (1768-1835) contributi in denaro per le spese di guerra. Dopo l’ingresso a Milano delle truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821), il 14 maggio 1796, il governo tenta inutilmente di sopravvivere, cedendo a tutte le richieste in armi e in denaro da parte dei francesi, e negando aiuti, nel novembre e nel dicembre dello stesso anno, agl’insorgenti della Garfagnana estense, ma il 2 gennaio 1799 il generale Jean-Mathieu-Philibert Sérurier (1742-1819) occupa ugualmente Lucca. Alle sue ripetute pressioni per la “rigenerazione” della repubblica, il senato risponde abrogando, il 15 gennaio 1799, le leggi che avevano ristretto ai “cittadini originari”, vale a dire ai patrizi, l’accesso alle cariche pubbliche, e nominando una commissione di dodici senatori che “aggiornasse” — con il consenso di Sérurier e dei “patriotti” filo-francesi — gli statuti medievali tornati automaticamente in vigore in seguito a tale abrogazione. Non troandosi un accordo, il senato delibera l’elezione, il 2 febbraio, di un’assemblea costituente di cento membri, dei quali sei eletti dal senato stesso e gli altri novantaquattro a suffragio universale, esclusi gli ecclesiastici, gli ex nobili e i loro servitori. Ma la decisione del “popolo sovrano” è del tutto opposta a quella auspicata dai sedicenti paladini della sovranità ppolare. Secondo uno storico lucchese, il marchese Antonio Mazzarosa (1781-1861): “Ognuno andava obbediente e con calma a fare il debito suo. Le elezioni accaddero per tutto con ordine ammirabile. Ma queste svelarono il modo universal di pensare dei Lucchesi. Senza preti, senza frati, senza gli ex-nobili e i servitori loro, che votassero, la scelta dei deputati cadde non ostante presso che tutta sopra soggetti non presi da spirito di novità, specchiati, e degni della fiducia comune”.
A questo punto il generale Sérurier impone d’autorità, il 4 febbraio, una Costituzione ricalcata su quella francese, nonché un direttorio e due corpi legislativi, nominati da lui stesso. Il giorno dopo viene innalzato l’albero della libertà sulla piazza di San Michele in Foro, sugli edifici pubblici e sulle porte delle mura s’aggiunge l’accento e si scalpella la “s” dalla parola Libertas, motto dell’antica repubblica, e il governo adotta come bandiera il tricolore francese. Così la democrazia ideologica della Rivoluzione è imposta con la forza a un popolo che solo due giorni prima aveva espresso con il voto il proprio desiderio, più o meno consapevole, di un ritorno a quella democrazia organica e storica che il piccolo Stato aveva conosciuto fino alla prima metà del secolo XVI.
Dal 4 febbraio al 17 luglio il direttorio e i consigli si sforzano di governare in qualche modo, perché di fatto possono solo eseguire gli ordini dell’occupante francese. Se per la soppressione di conventi e di confraternite si chiede il placet di Papa Pio VI, prigioniero a Parma, la cessione alla giurisdizione civile della “Jura dei canonici” sui monti fra la città e la costa è imposta brutalmente al capitolo. Non si contano le angherie e le ruberie delle truppe francesi, la cui presenza in città rende pubblica la prostituzione e diffonde il gioco d’azzardo, prima proibito.
3. L’insorgenza
La popolazione — che si sente, fra l’altro, defraudata dai fatti del 4 febbraio — per un po’ morde il freno rivolgendo, quando è possibile, l’arma dell’ironia e della beffa contro i giacobini locali, ma agl’inizi di maggio — quando giungono in Lucchesia le notizie dei prodromi, nell’Aretino, dell’insorgenza del Viva Maria! — inizia a sollevarsi e ad abbattere gli alberi della libertà. Il 4 maggio è l’insorgenza generale della piana, collegata con quella della Val di Nievole toscana; meglio organizzata è la contemporanea sollevazione di Viareggio, dove la popolazione — gente di mare, più avvezza dei contadini a una disciplina di tipo militare — riesce, sotto la guida dell’ex nobile Sebastiano Motroni e del popolano Sebastiano Belli, detto Morino, a estendere l’insorgenza alla confinante Versilia granducale, resistendo alla controffensiva francese fino al 7. Repressa nel sangue l’insurrezione, i francesi arrestano quindici nobili, sette dei quali, con l’aggiunta di un prelato, vengono mandati come ostaggi in Francia, a Digione, dove resteranno fino all’anno successivo.
Ma se l’insorgenza lucchese è stata prematura, ben presto le cose cambiano: fra il 17 e il 19 giugno i francesi sono “trebbiati” — come dice un canto popolare toscano dell’epoca — dagli austro-russi sul fiume Trebbia e il 17 luglio abbandonano Lucca per trincerarsi a Genova, seguiti da molti giacobini, che frattanto hanno lasciato il potere a una giunta di dieci nobili. In tutta la Repubblica il tripudio è enorme. La mattina dopo la città è invasa dagl’insorti delle campagne al grido di “Morte ai giacobini!” e di “Viva i nostri signori!”; nel pomeriggio arriva — buon ultimo, forse addirittura dopo gl’insorgenti pisani e quelli livornesi — anche un distaccamento di truppe dell’Impero asburgico. A calmare gli animi interviene pure, lo stesso 18 luglio, una Notificazione dell’arcivescovo, mons. Filippo Sardi (1736-1826), che, su invito della giunta, ricorda “ai suoi dilettissimi Diocesani que’ principj di virtuosa moderazione, che l’hanno sempre contraddistinti nelle più difficili circostanze”.
Il 24 luglio il generale Johann Klenau (1758-1819) insedia una nuova reggenza provvisoria, composta dagli Anziani e dal gonfaloniere dell’ultimo governo aristocratico; ma la guerra è guerra, e Lucca, già depredata a più riprese dai francesi, deve contribuire alle spese della coalizione, addirittura consegnando agli austriaci i bei cannoni cinquecenteschi delle mura.
La vittoria di Napoleone a Marengo il 14 giugno 1800 capovolge nuovamente la situazione, e il 9 luglio i francesi entrano a Lucca, instaurando un nuovo governo “democratico”, che sarà esautorato ben presto da un prefetto militare, inviato a Lucca dal generale André Massena (1758-1817), per riscuotere con la forza i contributi richiesti. Prima di esser definitivamente rimosso dal generale Guillaume Brune (1763-1815), il prefetto arriverà perfino a incarcerare i membri di un nuovo governo da lui stesso nominato.
Ma fra il 9 e l’11 settembre i francesi sono costretti ad abbandonare la città, perché il generale lodigiano Annibale Sommariva (1755-1829), comandante delle truppe imperiali in Toscana e rappresentante a Firenze del granduca Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (1769-1824), ha arruolato qualche migliaio di superstiti del disciolto esercito del Viva Maria! e marcia su Lucca. Nelle campagne suonano nuovamente le campane a martello e i contadini si radunano sopra un costone di roccia che sovrasta la strada lungo il Serchio, presso la confluenza del torrente Vinchiana. Quando le avanguardie mandate dal generale Launay a sgombrare la strada arrivano sotto la rupe, vengono sepolte da una valanga di massi e il resto della colonna deve aprirsi la strada sterminando gl’insorgenti a cannonate. Vengono catturati dodici ostaggi, che il capitano degli artiglieri lucchesi, il viareggino Ippolito Zibibbi (1772-dopo 1832), libera in mezzo alla boscaglia, pur avendo ricevuto l’ordine di fucilarli sulla piazza del paese più vicino. Zibibbi avrà anche un ruolo piuttosto controverso, come comandante del forte di Viareggio, nelle scaramucce militari che precedono, nel dicembre del 1813, la fine del principato di Felice Baciocchi (1762-1841) e di Elisa Bonaparte (1777-1820). Compare infine — lui, giacobino della prima ora — nell’Almanacco di Corte per l’anno 1832 di Carlo Lodovico di Borbone (1799-1883), duca di Lucca dal 1824 al 1847, come comandante del Battaglione Carlo Lodovico.
Il 9 ottobre Lucca è di nuovo occupata dai francesi, con le solite esazioni in denaro, che si protraggono a lungo negli anni.
4. Gli anni del Ducato
Nei nove anni (1805-1814) del principato napoleonico non mancano certo i motivi di malcontento: soppressione di ordini religiosi, sconsacrazione e abbattimento di chiese, sventramenti nel centro storico, svalutazione della moneta e frequenti storni d’ingenti somme di denaro dall’erario pubblico all’appannaggio personale dei prìncipi, che il senato — riunito solo quattro volte — è costretto a sanare con acrobazie contabili. Ma l’esenzione dei lucchesi dalla coscrizione obbligatoria, voluta e sempre mantenuta da Elisa, contribuisce a evitare nuove insorgenze: anche l’attentato dell’11 maggio 1809 al sindaco di Montecarlo — paese della Val di Nievole toscana, appartenente al Dipartimento del Mediterraneo dell’Impero Francese — è sì opera di un suddito del Principato — il contadino di Porcari Niccolò Tambellini (1786 ca.-1809) —, ma da tempo residente a Montecarlo.
Tuttavia, non cessa l’ostilità al nuovo regime della quasi totalità del clero e del popolo minuto, che fa idealmente quadrato intorno a mons. Sardi insieme con i pochi patrizi irriducibili, alcuni dei quali, più desiderosi di capire il perché di tanti sconvolgimenti, si procurano anche una traduzione italiana delle Mémoires pour servir l’histoire du jacobinisme dell’ex gesuita Augustin Barruel (1741-1820), stampata clandestinamente nel 1802. Una nuova insorgenza — in cui si ritrova anche Sebastiano Belli, Morino, scampato alla fucilazione quindici anni prima — scoppia a Viareggio nel 1814, e costituisce, forse, l’unica nota seria nel clima di disfacimento talora con caratteri farseschi che segna la fine del principato dei Baciocchi.
Un’ultima testimonianza di fedeltà a quel che rimane delle istituzioni tradizionali si avrà, sempre a Viareggio, con le manifestazioni di piazza anti-liberali e filo-borboniche del luglio 1847, decisamente in controtendenza rispetto al Risorgimento. Ma, al di là di questi ultimi sprazzi di legittimismo e del carattere decisamente minore delle insorgenze lucchesi rispetto alle altre della penisola nel periodo rivoluzionario e napoleonico, resta alta la testimonianza del voto popolare anti-giacobino, espresso dai lucchesi il 2 febbraio 1799, nelle uniche libere elezioni svoltesi in Italia in quegli anni.
Giulio Dante Guerra
Per approfondire: vedi Cesare Sardi, Vita lucchese nel Settecento, Pacini Fazzi, Lucca 1968; Pier Giorgio Guelfi Camaiani, Un patriziato di fronte alla Rivoluzione Francese. La Repubblica oligarchica di Lucca dal 1789 al 1799, Olschki, Firenze 1983; Francesco Bergamini, “Viva Maria!”. La rivolta antigiacobina a Viareggio, Pezzini, Viareggio 1995; e Silvio Micheli, Ippolito Zibibbi. Un viareggino da ricordare, Pezzini, Viareggio 1995; il canto popolare toscano del 1799 è stato ristampato a mia cura in L’Arno, anno X, n. 1, Pisa gennaio 1997, p. 14.