La disponibilità del “prodotto del concepimento”, ottenuta tramite la legalizzazione dell’aborto, è stata la mossa decisiva in un processo che passo passo, strumentalizzando vicende dolorose, oggi ci vede ad un soffio dalla realizzazione di un’idea fantasiosa, a lungo letterariamente cullata: l’utero artificiale. D’altra parte, avendo già con disinvoltura affidato molto della procreazione umana alla tecnica, perché mai limitarsi? Messo a punto il concepimento tramite svariate opzioni, da tempo l’attenzione è rivolta al prosieguo della gravidanza, tanto da aver immaginato e realizzato di ovviare alla mancanza di un utero proprio tramite l’uso di un utero altrui.
Capita però che molta parte del mondo – anche senza ispirazione religiosa – nutra una profonda, viscerale (raramente una espressione metaforica fu così realistica) avversione nei confronti delle gravidanze per conto terzi. Questo ‘scrupolo’, tra l’altro, è ostacolo a giri d’affari e di profitti davvero consistenti. Poter eliminare la sgradevole accusa di sfruttamento del corpo femminile toglierebbe mordente alle critiche della riproduzione su richiesta.
Il momento culturale contemporaneo appare già ben disposto ad accettare la logica del desiderio come diritto: voglio, dunque devo potere. La stessa dinamica vorrebbe giustificare l’uso della droga, la poligamia, la scelta eutanasica non meno che la fecondazione artificiale e l’aborto.
Eliminata la profonda consapevolezza del significato personale e sociale, fisico e metafisico, della maternità, costruita una nuova semantica del concepire e del nascere anche grazie ad arbitrii legislativi e giudiziari, abbandonata la logica che la vita umana non è a disposizione, resta solo da costruire un labile (e possibilmente grazioso e accattivante) paravento che pudicamente e temporaneamente copra l’indecenza. Cadrà, assieme alle ‘buone’ intenzioni, non appena ciò che oggi è indecente sarà prima tollerato in vista di un ipotetico bene futuro, e poi accettato come inevitabile progresso scientifico.
Ecco perché ancora una volta la notizia ci arriva ammantata dalle migliori intenzioni: gli ‘scienziati’ hanno raggiunto un risultato meraviglioso, ovvero la sopravvivenza per quattro settimane di un feto di agnello in un utero artificiale. Collegato il cordone ombelicale ad un apparecchio che sostituisce la placenta nello scambio di ossigeno e di anidride carbonica e garantisce la circolazione del sangue e l’apporto nutritivo, il feto di ovino ha continuato a vivere e crescere. Un lavoro di ricerca iniziato alcuni decenni fa, mentre le tecniche di fecondazione artificiale pensate per mucche e cavalle iniziavano ad avere successo anche per gli umani. Ad aprile 2017 sono stati pubblicati su Nature Communications i brillanti risultati di un gruppo di ricercatori del Children’s Hospital of Philadelphia, guidati dal prof. Alan Flake. Perché un agnello? Perché lo sviluppo polmonare è simile a quello del feto umano. Che è il vero destinatario della nuova tecnica.
Un utero di plastica per salvare la vita ai bimbi molto prematuri. E chi non lo vorrebbe? Salvare la vita ai bimbi, s’intende. Forse qualcuno arriccerà il naso per la plastica, e c’è da temere che sia l’unico argomento di dissenso.
Il problema – ovviamente – non è la plastica. Men che meno è il progresso tecnico-scientifico che potrebbe salvare bimbi fortemente prematuri consentendo la vita in un ambiente simile, funzionalmente simile, all’utero materno. Ma come assicurarsi che l’eccezionalità di una tecnica d’emergenza non diventi la routine per la sostituzione della fisiologia umana e il succedaneo dell’ordinario?
Alla luce dell’esperienza, di come sono andate le cose negli ultimi decenni, di quello che ogni giorno succede nelle aule di tribunale e nei Parlamenti, come è ragionevolmente possibile ignorare che l’utero artificiale servirà a reificare ancor di più e più efficientemente il generare umano?
Chiara Mantovani