di Chiara Mantovani
La vicenda del piccolo bimbo Charlie, pochi mesi e tutti segnati (ma non definiti) da una grave malattia, rivela la falsità del concetto di autodeterminazione così come intesa dal linguaggio corrente. Nel DDL all’esame del Senato italiano, che vorrebbe regolamentare a chi spetta prendere decisioni nelle situazioni cliniche critiche, la volontà del soggetto o di “chi per lui” sembra intoccabile. Il medico, quale che sia il suo parere clinico e/o etico, dovrebbe adeguarsi alla decisione superiore del paziente. Anche il desiderio e la volontà, espressi o presunti, persino se affermati per delega a un rappresentante, dovrebbero essere esauditi.
In nome di che cosa? Di un presunto diritto all’auto-determinazione.
I fatti: nel Regno Unito Inghilterra un padre e una madre vogliono, nel dramma del proprio bimbo gravemente malato, che la sua vita non sia eliminata come non degna di essere vissuta (scrive così la Corte, a quel che è dato sapere dalle notizie di stampa, ché la sentenza originale non è di pubblico dominio). Sanno per certo che altrove qualcuno si prenderà cura di lui e che, se non lo guariranno, almeno lo considereranno un soggetto degno di essere accompagnato alla fine della sua malattia. Vogliono che, se deve morire presto come tutti dicono, muoia a causa del male che lo ha colpito e non perché qualcuno smette di dargli aria, acqua, calore e latte. I genitori di Charlie hanno scelto per lui questa via, che poi è la loro fatica e la loro speranza.
Ma i medici vogliono smettere di accudire il bambino, sospendendo tutto quello che loro e il personale paramedico compie per lui. Affermano che, poiché non lo possono guarire, non vale la pena lasciare vivere Charlie. Sono ricorsi ai giudici, affermando che è inutile, dannoso anzi, per il piccolo, vivere. E i giudici, finora, hanno concordato. Per comprendere la gravità di tutto ciò, immaginiamo di capovolgere la situazione. Immaginiamo ‒ ma basta usare la cronaca, non la fantasia ‒ che dei genitori vogliano far morire un figlio perché soffre troppo. Immaginiamo che i medici dicano che no, i dottori sono lì per prendersi cura di chi sta male, non per smettere di curare. E immaginiamo che si finisca davanti a un giudice. Reale, non immaginario. L’esito non è frutto di ipotesi, ma di sentenze: guai a opporsi alla volontà di chi ha la patria potestà o l’amministrazione di sostegno o la delega fiduciaria, guai a ostacolare il desiderio di chi lo ama.
Nessun dubbio, beninteso, sull’amore di entrambe le famiglie.
Perché allora due pesi e due misure? Perché l’autodeterminazione di Charlie per la vita, espressa da chi lo ha generato, non ha la stessa dignità di quella per la morte? Perché un tribunale deve arrogarsi il diritto di scegliere per la morte? E soprattutto perché imporla?
Perché oggi viviamo un tempo avvelenato, abbiamo stretto un’alleanza con la morte, viviamo in una cultura di favor mortis. Eppure, se si afferma che il nostro mondo è oggi affascinato e persino ipnotizzato da un cupio dissolvi disperato e distruttivo, si rischia di passare per crepuscolari decadentisti. Ma se, disincantati e dis-ideologizzati, guardiamo i fatti, l’evidenza mostra che molti dei problemi più spinosi si vorrebbero risolti eliminando le persone che li hanno.
Ben altro tribunale, al tempo di Salomone, riconosceva come vero il bene che sceglieva per la vita.
Per ricuperare quella saggezza proverbiale è necessario tornare a comprendere la sconfinata preziosità di ogni essere umano. Ma è difficile farlo senza ammettere che non siamo nell’esistenza per autodeterminazione.