di Chiara Mantovani
In tutta franchezza, non sono interessanti le contrapposizioni, vere o presunte, tra associazioni o addirittura istituzioni ecclesiali sulla valutazione della legge Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Possono esserci ‒ in casa cattolica, dalla soffitta alla cantina ‒ legittime difformità di giudizio sul ddl divenuto legge? No. Per un motivo semplice, ma sostanziale: o si accetta e si pratica l’eutanasia, oppure la si esclude dall’orizzonte del possibile. Tertium non datur, il resto sono chiacchiere per confondere le acque e imbrogliare i poveri. O la morte entra nel prontuario “terapeutico” oppure si guarisce quando si può e del malato ci si prende cura sempre. Ora, questa legge non esclude e persino suggerisce l’eutanasia: il giudizio non può dunque che essere negativo.
Ciò che rende eutanasia un atto medico è l’intenzione; è reputare l’eutanasia non una buona morte, bensì la morte come una cosa buona. Lo afferma il Magistero, nello specifico la lettera enciclica Evangelium vitae, promulgata da Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1995: «Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte» (n. 65) e la dichiarazione Iura et bona, pubblicata nel 1980 dalla Congregazione per la dottrina della fede: «L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati» (capitolo II).
“Dialogo collaborativo” è la nuova parola d’ordine del rapporto paziente-medico che da oggi si vorrebbe fondato non sul bene dell’ammalato, clinicamente riconoscibile, ma su un consenso che, qualora non condiviso, da questa legge è trasformato in disposizione, obbligo e sanzione: ovvero dettato del paziente sul medico. Per evitare una presunta dittatura del medico, s’instaura quella del paziente. Questo è un punto nodale: la dialettizzazione di un rapporto umano tra i più delicati, tra parti ineguali per condizione e per competenza. Uno scontro tra due volontà assunte per postulato come tendenti a fini differenti, quasi che al medico interessi più il proprio “potere sui corpi” che non l’esercizio di un’arte caritativa. Se il contesto immaginato è questo, non si ha scampo: è una lotta. La cosiddetta medicina difensiva e gli aumenti delle quote assicurative per i medici obbligano a considerarlo uno scenario oggettivo. Ma sarebbe stolto ignorare che un altro impeto è presente, ancor più potente e suggestivo. È un moloch che oggi opprime e distrugge: l’amore per la morte. La volontà di padroneggiare la vita come mai prima, nobilitando ‒ con l’avallo della legge ‒ l’atto supremo di rinunciarvi quale segno di un potere incondizionato. Lo stigma della solitudine come affermazione di sé: non più un “io” in relazione con “altri” (medico, famiglia, amici), né tantomeno in relazione con l’unico “Altro”, ma auto-determinazione. Se, con la nascita, si è sfuggiti alla decisione di essere messi nell’esistenza, afferma questo criterio, almeno che ci s’impossessi della decisione di uscirne.
Una tragedia. Non si dica dunque che l’autodeterminazione è un diritto civile: è una condanna incivile e un imbroglio. Soprattutto quando si è deboli, quando ha vinto l’idea di dignità come efficienza, quando le risorse sono così risicate da sfiorare l’indigenza, è strumentale nobilitare la morte come soluzione di libertà.
Allora forse può essere utile ragionare a partire da altri inizi. Anzi, dal solo inizio possibile: chi è un medico? Chi si vuole che sia? Di conseguenza: come si educa a essere medico? Il ddl trasformato in legge ha già risposto: un medico è solo un tecnico che deve eseguire i dettati della Costituzione, dei Tribunali, del Ministero della Salute, della Direzione ospedaliera, del Primario e dell’Utente.
E della coscienza? Non pervenuta, nella legge non ce n’è traccia. Non solo perché non è nominata, ma soprattutto perché, a una figura medica così, non serve. Che tristezza.