Marco Invernizzi, Cristianità n. 386 (2017)
Dalla fede una cultura verso una società cristiana
In questo numero di Cristianità trovate un saggio di Ignazio Cantoni sul rapporto che esiste fra l’annuncio e l’adesione alla fede cristiana e la cultura e la civiltà che da essi possono nascere.
Spesso nella storia della Chiesa si è tentato d’interrompere questo legame per diverse ragioni. Alcuni lo hanno fatto per ragioni ideologiche, perché credevano in un cristianesimo «disincarnato», capace di adattarsi a ogni sistema culturale e politico, una sorta di «religione minima» che investe solo l’interiorità dell’uomo e non si preoccupa di costruire un mondo a misura dell’uomo convertito. Tipico di questa posizione è il rifiuto della Chiesa cosiddetta «costantiniana», cioè di quel modo d’inculturare la fede che ha costruito quella particolare società cristiana che ha segnato la storia dell’Occidente. Ma, seppure in maniera culturalmente diversa, la fede ha generato altre cristianità, per esempio la lunga e gloriosa cristianità bizantina.
Altri rifiutano questo legame tra fede e cultura in nome delle vicende tristi e antievangeliche che talvolta hanno offuscato il volto delle cristianità storiche, per esempio alcune guerre non sempre solo difensive, la corruzione, l’imposizione violenta della stessa fede. Sono meno colpevoli in quanto meno ideologici, perché il loro rifiuto della cristianità nasce da motivi storici, dagli scandali e dagli errori commessi dai cristiani. Tuttavia, mai la Chiesa ha confuso il cristianesimo con le cristianità, il Vangelo con le realizzazioni storiche in suo nome, che spesso lo hanno messo da parte o addirittura contraddetto. Nessuno ha mai pensato di confondere il Sacro Romano Impero con la Gerusalemme celeste.
Altri lo fanno perché temono un possibile legame fra la Chiesa e uomini pubblici e potenti, in primis oggi Vladimir Putin e Donald John Trump, considerati come alleati ambigui e nocivi alla Chiesa stessa. Peraltro, gli stessi non si sono mai chiesti perché hanno dato storicamente il loro sostegno, o almeno la non belligeranza, a personaggi che si sono rivelati certamente più nocivi alla libertà della Chiesa, come per esempio Fidel Castro Ruz (1926-2016) a Cuba e più recentemente Hugo Rafael Chavez Frías (1954-2013) in un Venezuela che sta proprio in questi giorni scontando la folle demagogia del dittatore bolivariano che riuscì a sedurre tanti cattolici.
La fede che investe tutto l’uomo e lo trasforma a immagine di Cristo, cambiandone i criteri di giudizio e quindi facendo sorgere una cultura e, se Dio vuole, anche una civiltà cristiana, serve anzitutto ai piccoli, ai poveri, ai cristiani di tutti i giorni come siamo noi. Lo spiegano bene il cardinale gesuita Jean Guénolé Marie Daniélou S.J. (1905-1974) e san Giovanni Paolo II (1978-2005) opportunamente citati nel saggio di Ignazio Cantoni, laddove viene implicitamente ricordato che i santi riescono sempre a esprimere la loro grandezza individuale, in qualsiasi società siano inseriti, anche la più atea e persecutrice. Anzi, proprio in queste società emergono le vocazioni eroiche che ci hanno dato i martiri e i grandi testimoni. Questi ultimi, di per sé, non avrebbero bisogno di alcuna cristianità a differenza di noi, piccoli e poveri, deboli e incapaci di resistere alla pressione psicologica e spesso anche fisica che proviene da una società e da una cultura ostili. Inoltre, come ogni singolo uomo oppure ogni famiglia, comprese quelle religiose, sentono il bisogno di costruire la propria esistenza nel modo migliore possibile, offrendola a Dio nell’intenzione e attribuendola al Signore nella eventuale realizzazione; così avviene anche per le società che cercano di diventare sante secondo le loro possibilità, come gli uomini e come le famiglie.
Scrivo queste cose soltanto per far memoria di un aspetto che la Chiesa ha sempre ricordato e consapevole del rischio che una prospettiva di questo genere possa degenerare in un’ideologia, che dimentica come siano l’amore e la fede dei singoli uomini che generano quei processi — rubo l’espressione a Papa Francesco (Evangelii gaudium, 223) — attraverso i quali venne e continuerà a esser data a tanti uomini la possibilità d’incontrare il Salvatore. Storicamente, le cristianità possono morire, come accade alla nostra in Occidente, sostanzialmente quando gli uomini che più la rappresentano, soprattutto gli intellettuali e i dirigenti della cosa pubblica, cessano di esser mossi dalla passione del servizio verso i più umili, in conseguenza dell’affievolirsi della loro fede, che aveva dato origine alla cristianità stessa. Ciò è avvenuto nel corso dei secoli nell’Europa un tempo cristiana, tanto da spingere il Magistero dei pontefici a invitarci a una nuova evangelizzazione degli antichi Paesi di tradizione cristiana, come condizione per la nascita di un «mondo migliore» nel «mondo che muore».
Ma scrivo queste considerazioni anche davanti alla constatazione di quanto sia lontana dal sentire di molti cattolici di oggi la consapevolezza della necessità di costruire un mondo storico che aiuti la fede dei piccoli e dei poveri, «una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio» (1), come disse san Giovanni Paolo II; necessità che spinse il suo successore Benedetto XVI (2005-2013) a istituire nel 2010 addirittura il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. Una ripresa missionaria del cristianesimo nella vecchia e secolarizzata Europa, come auspica frequentemente Papa Francesco, non può prescindere dal legame tra fede e cultura, cioè dal rilancio della dottrina sociale della Chiesa come strumento di analisi e di giudizio sul mondo contemporaneo e sui suoi errori, e come premessa necessaria per l’azione pubblica dei cattolici.
Quest’ultima può fallire per la difficoltà dei tempi e per la sopraffazione da parte dei nemici, ma può fallire, come sta accadendo, semplicemente perché viene esclusa a priori o addirittura condannata da quei cattolici che hanno tentato, e spesso riprovano, di accusare questa prospettiva di «integralismo» o peggio. Certo, può fallire anche quando viene usata male, per esempio assumendo i singoli princìpi della dottrina sociale staccati e dialetticamente contrapposti l’uno all’altro, come sta purtroppo accadendo quando vediamo opporre i «cattolici della vita» a quelli «dei migranti», mentre non sarebbe difficile valutare l’importanza di entrambi e la rispettiva collocazione gerarchica in vista del bene comune all’interno della dottrina sociale della Chiesa.
Perché una prospettiva di rinascita missionaria non fallisca necessitano comunque alcune cose.
1. Che la dimensione missionaria entri veramente nella consapevolezza dei cattolici, a cominciare dall’insegnamento costante dei pastori, nelle diocesi e nelle parrocchie, come nelle associazioni e nei movimenti.
2. Che la dottrina sociale nella sua integralità e organicità non solo venga studiata ma diventi criterio di giudizio dei cattolici, soprattutto di quelli impegnati pubblicamente, ma comunque di tutti, perché tutti prendono decisioni quotidiane, votano o scelgono di non votare, decidono di convivere o di sposarsi, di mettere al mondo dei figli o di rimandare, di iscriverli in una scuola piuttosto che in un’altra, di acquistare determinati libri o riviste, e così via.
3. Che non si abbia troppo timore di contrapporsi alla cultura dominante e ai «poteri forti» di questo mondo, commettendo lo stesso errore di cinquant’anni fa, quando — di fronte alla rivoluzione antropologica e culturale del Sessantotto — un insieme di paura, di furbizia e d’infatuazione ideologica verso il comunismo e il progressismo diedero inizio a una stagione di subordinazione culturale e politica, drammatica e devastante per la Chiesa.
4. Che non si pensi di poter diffondere la fede e costruire un mondo ispirato al Vangelo tornando indietro nel tempo, perché alla deificazione del futuro non si risponde con la deificazione del passato, ma con la formazione paziente e determinata di uomini che possano dar vita a un «mondo migliore», quando Dio lo permetterà e vi saranno le condizioni storiche.
Alleanza Cattolica ha avuto in dono da Dio la chiamata a fornire il proprio contributo affinché una civiltà cristiana possa domani tornare a vedere la luce. Una civiltà che aiuti gli uomini a salvarsi e a santificarsi, che nasca dall’amore che Cristo ha per ogni uomo pur rispettandone radicalmente la libertà, e che quindi ponga questo amore al centro del proprio apostolato culturale, non come una semplice parola ma come il senso ultimo della propria azione. In un frangente storico difficile e complesso come quello presente giova ricordarlo anzitutto a chi sta rispondendo a questa chiamata con impegno e con generosità.
Note:
(1) San Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema «Dalla “Rerum novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa», del 31-10-1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 2, 1981. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, pp. 519-523 (p. 523).