Benedetto XV: un grande Papa per un breve pontificato
di Oscar Sanguinetti
1. Il mondo di Benedetto
Il secolo XX è stato definito dallo studioso marxista Eric Hobsbawm il «secolo breve», perché ciò che accade di importante è compreso in sostanza fra il 1914, ossia l’inizio della Prima Guerra Mondiale, e il 1989, quando viene rimosso il Muro di Berlino. Gli anni in cui Benedetto si trova a reggere la Chiesa sono anni di svolta, anni in cui davvero l’Ottocento finisce e prende corpo il Novecento «vero». In quegli anni, infatti, il momento «politico» della dialettica della modernità così come ha preso forma con la Rivoluzione francese — dopo quello a dominante «religiosa» coincidente con la Riforma del secolo XVI — conosce una fase più «avanzata», tracima nella sfera economica e sociale, trovando il suo emblema nella Rivoluzione bolscevica dell’ottobre del 1917.
2. Giacomo della Chiesa
Giacomo della Chiesa nasce a Genova nel 1854 da un’antica famiglia aristocratica originaria della Valsassina, in Lombardia. Nell’albero genealogico paterno e materno figurano, anche se in anni ormai lontani, ben due pontefici, rispettivamente Callisto II (1119-1124) e Innocenzo VII (1404-1406). È impressionante quanto il suo itinerario formativo assomigli a quello di Eugenio Pacelli, il suo secondo successore con il nome di Pio XII (1939-1958). Brillanti studi classici, collegio ecclesiastico, corsi universitari di Diritto, precoci vocazione e ordinazione — per Giacomo nel 1878, anno in cui muore Pio IX (1846-1878) e ascende al soglio Leone XIII (1878-1903) —, accademia dei nobili ecclesiastici a Roma, tirocinio diplomatico nelle nunziature estere — in Spagna, nel caso di Giacomo —, ritorno a Roma e ingresso nella Segreteria di Stato. Giacomo della Chiesa resterà nella Segreteria leoniana, retta in quegli anni dal cardinale Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), fino al 1907, quando Papa san Pio X (1903-1914) lo vorrà arcivescovo di Bologna.
Nei sette anni di episcopato bolognese — coronati assai tardi dalla porpora cardinalizia — il presule genovese si fa apprezzare dalla popolosa diocesi per la sua dolce e umana fermezza, accompagnata da una ardente carità anche materiale.
Il Conclave del 1914 lo vedrà accettare con serenità l’altissima missione di successore di Pietro. Come accadrà di nuovo nel 1939 con Eugenio Pacelli, i cardinali elettori vedranno in Giacomo Della Chiesa, diplomatico navigato e dimostratosi valente pastore, la guida ideale di cui ha bisogno la Chiesa in un frangente segnato da un conflitto dagli sviluppi imprevedibili.
Benedetto non è un figlio di contadini come Pio X, ma viene da una famiglia nobile e riceve una educazione da aristocratico. È un prelato di curia, un giurista preparato, un raffinato intellettuale e un esperto di relazioni internazionali: in altri termini, un prodotto riuscito di quella grande scuola di «esperienza in umanità» che è la Curia vaticana.
Come persona fisica e come carattere non ha, come si dice oggi, grandi carismi: piccolo, occhialuto, dal viso irregolare, leggermente claudicante, non è certo un personaggio che oggi si direbbe «buchi gli schermi», alla san Giovanni Paolo II. Intelligentissimo e, smentendo il pregiudizio contro i liguri, assai generoso, è un tipo riservato, ma non freddo, né alieno da un certo humour elegante, inframmezzato però talora da improvvisi malumori e scatti d’impazienza. Ha pochi amici, anche se «per la vita», come il quasi coetaneo vescovo piemontese Teodoro Valfrè di Bonzo (1853-1922), nunzio a Vienna negli anni della guerra, che Benedetto nominerà cardinale nel 1919 e che, per inciso, morirà nello stesso anno di Giacomo.
Benedetto XV si spegne nel 1922 per una banale bronchite, due mesi prima del giovane e devoto amico Carlo d’Austria (1887-1922), padre di otto figli, offrendo, come fece quest’ultimo, la sua vita per la pace dei suoi popoli, ossia, nel caso del Papa, dell’intera umanità.
3. Il pontificato
3.1 La “linea” benedettiana
Benedetto XV — come peraltro tutti i pontefici a lui successivi — da papa si porrà non solo il problema della difesa dell’«ovile di Cristo», ma anche quello del dialogo fra Chiesa e mondo del suo tempo, un mondo profondamente cambiato e sempre più alieno da una relazione di subordinazione o anche solo da un legame organico legata con la prima. Egli apprezza l’irrobustimento della struttura ecclesiale attuato con grande sforzo dalla «restaurazione» programmatica — «Instaurare omnia in Cristo» era stata la sua divisa pontificale — di Pio X ed è conscio che la solidità della base di partenza è la condizione di ogni apertura, ma propenderà per la linea più «morbida», inaugurata da Leone XIII, meno proclive allo scontro con la modernità e favorevole a non rompere, anche nel divergere delle opinioni, con le potenze mondane e dagl’intenti sostanzialmente rifondatori.
3.2 Il modernismo dopo Pio X
Non solo per la diversa sensibilità, ma anche per l’influenza che esercita su di lui la «robusta» figura, così diversa dalla sua, dell’esperto Segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri (1852-1934), le sue scelte intra-ecclesiali divergeranno alquanto da quelle del santo predecessore.
In particolare, Benedetto si dimostra meno allarmato del predecessore dell’infiltrazione delle ideologie moderne e dei metodi scientifici positivistici del primo Novecento nelle scienze sacre. Tuttavia, non abbandona le censure piàne. Mentre conferma con nettezza la condanna delle dottrine moderniste, egli mantiene l’obbligo del giuramento anti-modernista per i nuovi sacerdoti e conferma gli organi di vigilanza diocesani. Smobilita sì il Sodalitium Pianum, l’agenzia d’informazioni — per gli avversari: di delazioni — ecclesiali messa in piedi da monsignor Umberto Benigni (1862-1934) ed emargina i principali attori della battaglia anti-modernista, come Benigni e il Segretario di Stato di Pio X, il cardinale spagnolo Rafael Merry del Val (1865-1930). Anche con i modernisti, leonianamente, Benedetto sembra voler anteporre la pedagogia alla condanna, se così si può interpretare la fondamentale enciclica sull’esegesi biblica Spiritus Paraclitus emanata nel 1920 per commemorare il quindicesimo centenario della morte del traduttore della Bibbia in latino, san Gerolamo (347 ca.-420). Soprattutto, Benedetto pare non condividere l’eccessivo arroccamento nelle relazioni esterne praticato dal santo predecessore. Mentre all’interno dell’organismo ecclesiale interviene fin da subito, non avrà il tempo di impostare una linea politica di lungo respiro verso l’esterno, poiché i rapporti fra i popoli, quando sale al soglio di Pietro, sono già precipitati in una tragica spirale di odio e di scontro.
3.3 La guerra mondiale
Come quello di Pio XII, l’azione pastorale e il magistero di Benedetto saranno segnati in maniera determinante dal primo conflitto mondiale, che occupa metà del suo regno.
3.3.1 Il conflitto frutto della crisi della civiltà europea
Benedetto, acutamente, scorgerà nella guerra «[…] la conflagrazione dei mortali elementi fermentati nel materialismo; la crisi di pensiero e di coscenza [sic] di un’èra» e una «“manifestazione sovra ogni altra odiosa del predominante disordine morale”».
Molteplici segnali nell’età di Benedetto autorizzavano una lettura in termini di sostanziale regresso etico del tumultuoso sviluppo della civiltà moderna in Occidente. Per citarne solo alcuni: la tremenda guerra russo-giapponese del 1904-1905, autentica anticamera della guerra mondiale; il genocidio degli armeni nella Turchia post-ottomana del 1915; la nascita — già alla fine del secolo precedente, durante il conflitto anglo-boero — dei campi di prigionia e di concentramento; lo sterminio del clero russo e ucraino a opera dei bolscevichi; i primi segni della persecuzione anti-religiosa nel Messico cattolico; la nascente dottrina eugenetica — non solo in Germania, ma anche negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi — e le prime teorizzazioni del razzismo biologico.
3.3.2 L’offensiva magisteriale e diplomatica
Fin dall’enciclica di inizio del pontificato, la Ad beatissimi, Benedetto si rende conto di quali funesti sviluppi potrà avere una guerra nata apparentemente per risolvere contenziosi politici tutto sommato minori, ma i cui attori sono uomini e gruppi sempre più estranei all’ethos cristiano e visibilmente in preda a una devastante febbre ideologica.
Impressionato e addolorato dalla terribile carneficina che vede imperversare nel cuore della famiglia dei popoli un tempo ufficialmente cristiani — l’8 settembre 1914 scrive: «[…] vediamo tanta parte d’Europa […] rosseggiare di sangue cristiano» —, intuisce che il conflitto è destinato a estendersi al mondo intero, che durerà a lungo e che sarà combattuto in maniera sempre più barbara. I dati sulle perdite e la notizia degli orrori sempre più gravi e diffusi perpetrati dai combattenti conforteranno tragicamente, giorno dopo giorno, questi suoi presentimenti e pronostici.
Benedetto non è un pacifista, cioè uno che avversa qualunque guerra «senza se e senza ma», come si usa dire ai nostri giorni: è un evangelico “operatore di pace”, sa che la giustizia, per essere attuata in temporalibus, necessita talora anche della forza. Tuttavia, di principio, detesta che i conflitti siano risolti — ma poi lo sono veramente? — esclusivamente attraverso la forza: e soprattutto capisce, forse per primo, che la guerra del suo tempo è priva di ogni ragionevolezza, perché, visto in che modo viene combattuta, le sue conseguenze, non solo sui soldati, comportano quasi sempre un male che supera quello, reale o presunto, che si vorrebbe eliminare.
Tre sono le linee della sua azione pastorale e diplomatica: in primis convincere i belligeranti a concordare una tregua e a siglare una pace; in mancanza di ciò, indurli a circoscrivere il conflitto e a umanizzarlo; infine, soccorrere le vittime dovunque si combatta, dalla Marna allo Stretto dei Dardanelli.
Facendo appello ai popoli e ai loro reggitori, nella esortazione Allorché fummo chiamati, il 28 luglio 1915, definisce la guerra una «orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa» e, ancora, ammonisce che «[…] il mutuo proposito di distruzione» “non paga”, perché — e lo dice qui, già nel 1915, e non solo nella famosa Nota del 1917, come molti hanno scritto — «[…] le nazioni non muoiono», ma «[…] umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta». Nel messaggio del Natale dello stesso anno si duole che il mondo sia diventato «ossario e ospedale». Nel marzo 1916, ancora, parla di «suicidio dell’Europa civile» e del ricorso alle armi come «la più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza».
In questo impegno per la pace Benedetto — lo rivendicherà nel famoso “appello” dell’agosto del 1917 — mantiene altresì un atteggiamento di assoluta e tenace equidistanza dai contendenti — tutti cristiani, tranne i turchi e i bosniaci — e di rigida imparzialità nell’alleviare le sofferenze comuni.
Riguardo all’episodio che ha trovato più spazio nella memoria comune, la nota diplomatica del 1917, si può dire che essa segna la conferma e il culmine della politica pacificatrice di Benedetto XV: in quell’anno fatidico, l’incremento del numero dei soldati impegnati nel conflitti, lo stallo dei fronti, le inutili e sempre più numerose e sanguinose battaglie di massa, l’uso scriteriato di armi ognora più letali e devastanti lo indurranno, quando gli sembrerà di intravedere qualche spiraglio di buona volontà — o almeno di stanchezza — da parte di più di un contendente, l’imminente discesa in campo di milioni di soldati statunitensi, a indirizzare, il 1° agosto, l’appello Dés le dèbuts ai capi delle potenze in armi, in cui egli definirà la guerra una «[…] lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage». Benedetto, oltre alla tregua, chiederà in sostanza di ritirarsi dai territori occupati dopo il 1914, di aprire negoziati per definire le varie pretese territoriali, di limitare l’escalation degli armamenti, d’istituire un arbitrato internazionale, di garantire la libertà di navigazione dei mari e, infine, la rinuncia reciproca agl’indennizzi post-bellici.
La nota del Papa avrà una enorme eco, ma, soprattutto per il suo giudizio, tanto obiettivo quanto radicale, sarà letto su tutti i fronti come una pugnalata alle spalle e questo gli conquisterà la definitiva inimicizia dei circoli nazionalisti e guerrafondai di ciascun Paese, inclusa la sua Italia.
In questa sua lotta contro la degenerazione della guerra la voce di Benedetto echeggia pressoché sola. È con lui l’ala intransigente e più popolare del cattolicesimo italiano, ma anche, come detto, il giovane e futuro beato imperatore d’Austria, che ne condivide genuinamente l’ansia di pace e l’orrore per le atrocità della guerra moderna. Esemplare e anche toccante, in questo senso, è la lettera con cui Carlo, il 20 settembre 1917, risponde all’appello di pace di Benedetto: in esso vibra un autentico accento filiale e il medesimo ardente desiderio di pervenire a una pace giusta. Davanti al fallimento del suo tentativo, il 24 ottobre 1917, Benedetto confesserà al giovane e fedele imperatore: è «l’ora forse più amara della nostra vita».
4. Il dopoguerra
La sua indefessa opera di pacificazione e l’intervento umanitario della Santa Sede per i civili, i prigionieri, le famiglie dei caduti accrescerà enormemente il prestigio della Santa Sede negli anni del dopoguerra. Con Benedetto, possiamo dire che la Chiesa passa realmente allora da un protagonismo di tipo «temporalistico-territoriale» — l’età del beato Pio IX — e da una fase che potremmo definire di «primato magisteriale», conseguito soprattutto grazie a Leone XIII, a una nuova condizione in cui inizia a svolgere, anche se embrionalmente, un ruolo di primazia morale e di guida mondiale nella difesa della giustiziai e dei diritti umani, che conquisteranno sempre maggior spazio nel magistero dei Papi del secolo XX.
Non è un caso che, alla morte di Benedetto, dai quattordici dell’epoca di Pio X siano ventisette i Paesi con relazioni diplomatiche stabili con la Santa Sede: tanti, anche tenendo conto del frazionamento degl’imperi sancito a Versailles: l’Inghilterra, l’Olanda, ma soprattutto la Francia — nel clima della beatificazione di Giovanna d’Arco — riaprono le loro sedi diplomatiche romane.
5. Benedetto e l’Italia
Negli anni di Benedetto XV nei rapporti con il nuovo Stato italiano pesa ancora fortemente la Questione Romana: anche in questo campo l’indole conciliatrice di Papa Della Chiesa si mette subito al lavoro. Fin dai suoi primi atti di governo egli si preoccupa di aprire un canale con la monarchia. E la guerra favorirà il riavvicinamento fra le due sponde del Tevere. Già il governo di Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), nel 1919, non rigetta l’idea di uno Stato vaticano; poi con il successore Francesco Saverio Nitti (1868-1953) le intese subiranno un deciso impulso per compiersi, infine — vinte le insuperabili more dell’età liberale —, con il governo di Benito Mussolini (1883-1945) nel 1929.
Con Benedetto XV, nel 1919, il non expedit è di fatto soppresso e i cattolici tornano pienamente all’elettorato passivo e attivo. La prepotente ascesa del partito «di cattolici», autonomo e aconfessionale, fondato da don Luigi Sturzo nel 1919 metterà fine alla linea delle intese «clerico-moderate» degli anni di Pio X e offrirà — accanto a quello sindacale — un nuovo strumento alla presenza dei cattolici nella politica nazionale. Benedetto rimuoverà un altro piccolo non expedit, che favorirà anch’esso il riavvicinamento alla nuova Italia: il divieto ai sovrani cattolici di far visita al re italiano nell’antica residenza papale del Quirinale a Roma.
6. Conclusioni
Vi sono molti altri aspetti del breve ma ricco pontificato benedettino che andrebbero affrontati. Sarebbe importante, per esempio, rievocare la sua opera per la diffusione della devozione al Sacro Cuore — attraverso la canonizzazione della mistica francese santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), la dedicazione dell’Università Cattolica di Milano al Sacro Cuore e il «lancio» della Basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre a Parigi —; ricordare che il ciclo di apparizioni mariane a Fatima del maggio-ottobre 1917, così gravido di segni per lo sviluppo successivo degli eventi novecenteschi, si svolge sotto l’attento sguardo di Benedetto XV; rivisitare la grande riforma dell’azione missionaria ad gentes, contenuta nell’enciclica Maximum illud del 1919; sottolineare l’importanza della promulgazione, nel 1917, nel cuore della guerra, del Codice di Diritto Canonico, già elaborato in gran parte sotto Pio X; parlare della creazione dell’Università Cattolica come importante tappa di riconquista culturale e religiosa della società — quindi anche di padre Agostino Gemelli (1878-1959) e della sua cerchia intellettuale, dalla linea politica alternativa a quella sturziana —; menzionare come Benedetto abbia rilanciato i rapporti con le Chiese orientali; rileggere la magnifica enciclica In praeclara sul poeta cristiano Dante Alighieri (1265-1321); infine, descrivere la nascita della politica vaticana verso Israele e i Luoghi Santi, liberati nel 1917 dagli ottomani, e considerare, magari, come la Chiesa abbia reagito all’atroce genocidio degli armeni.
In conclusione, in questa prospettiva, è utile una frase che il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), arcivescovo di Genova, scrisse nel cinquantenario della morte di Papa Benedetto: «La [sua] figura ha diritto alla giustizia della storia. Purtroppo, la storia si muove quanto si muovono gli scrittori, allorché si tratta dell’apprezzamento degli uomini. Chi non ne trova nella sua scia, è costretto all’oscurità. È quello che è accaduto a Benedetto XV. Se qualcuno sorgerà per scrutarlo a fondo renderà giustizia al grande papa e renderà più onesta la storia».