di Chiara Mantovani
E così, altri tre giudici, il 25 aprile 2018, hanno rifiutato il permesso di trasferire Alfie da quell’ospedale inglese. Non è nel suo “miglior interesse”: questo il mantra, invariato da giorni. Ma oggi un giudice ha aggiunto qualcosa di più: non è detto che il “miglior interesse” sia vivere, ha affermato. Ovvero: la vita umana non è sempre un bene, dunque non è sempre un diritto da rispettare. Giuridicamente è una affermazione devastante. Perché, soprattutto in un sistema in cui le sentenze vanno a costituire un corpus giuridico che si autoalimenta, non si vede come poter fermare questo delirio. Ora sappiamo che la Gran Bretagna ha prosciugato la fonte che ha dato il via ai diritti umani: esserci è meglio che non esserci. Il presupposto antropologico che la vita è un bene e va tutelata, e insieme e di conseguenza quello giuridico secondo cui lo Stato non fonda il diritto alla vita ma può solo riconoscerlo, sono desueti: da oggi è stato formulato il principio della valutazione statale della vita umana ed è cessato il favor vitae.
Ricordando il dottor Albert Schweitzer (1875-1965), scriveva Giulio Meotti su Il Foglio del 7 novembre 2016: «Contro la cultura dell’eutanasia, Schweitzer affermava sempre: “Rimanere in vita è un atto etico”. Diceva che la natura non conosce rispetto per la vita, ma l’uomo sì. L’uomo, diceva, “è morale soltanto quando considera sacra la vita in quanto tale”». Con queste parole Schweitzer spiegava il senso del suo impegno a favore dei malati». Quelle di cui si occupava il “dottore bianco” erano vite molto poco degne, a prognosi terribilmente infauste, molto “futili” visto che non producevano alcun reddito e nessuno avrebbe voluto essere un lebbroso del Gabon.
Quell’articolo di Meotti l’ho trovato mentre cercavo altro. Mentre stanotte non riuscivo a dormire perché pensavo che neppure Kate e Tom riusciranno a dormire per paura che, mentre sono sfiniti, qualcuno entri ad applicare la soluzione finale al loro Alfie. Cercavo le sentenze del “processo ai dottori” a Norimberga. Cercavo di capire con quali passetti, forse inavvertiti, si fosse potuto realizzare un tale oscuramento della ragione. C’era tutta una cultura, ed era condivisa tranne poche eccezioni, allora. Nel 1920, in un libro scritto dal giurista Karl Binding (1841-1920), professore in pensione nell’Università di Lipsia, e dallo psichiatra Alfred Hoche (1865-1943) dell’Università di Friburgo, per la prima volta compare una locuzione oggi attualissima: «Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens», ovvero «Ciò che consente la distruzione di una vita indegna di vita».
Ecco, distinguere la vita dal suo valore è il primo passo. Perdere il caposaldo di riconoscere e difendere la vita, e decidere che la morte è il ‘miglior interesse’, è un passo verso una Weltanschauung che, francamente, può portare solo male.
Giovedì, 26 aprile 2018