di Chiara Mantovani
Il primo miracolo cui abbiamo assistito è la forza, il coraggio e la resistenza di questi due giovani, i genitori del piccolo, Tom e Kate Evans, poco più che ventenni, i quali, invece di pensare alle futilità che svuotano la vita di tanti loro coetanei, hanno affrontato un dramma incommensurabile con consapevolezza e con amore non ordinari.
Già molti hanno sottolineato come si possa anche imparare qualcosa di molto importante e positivo in questa vicenda umana che ha scosso il mondo: un popolo si è lasciato interrogare e commuovere, ha sentito le viscere fremere (letteralmente: ha avuto viscere di misericordia) per ciò che era percepito come una profonda ingiustizia. Significa che non tutto è perduto, che il senso del nulla e dell’indifferenza non ha ancora vinto, che ci si può commuovere e muovere, che si è capita l’essenza del problema. Che serve un supplemento di saggezza per affrontare le difficoltà del vivere e del morire. A dirla in breve, che bisogna ricuperare il senso dell’umano. Siccome è una faccenda terribilmente seria, sulla quale l’uomo s’interroga da sempre, e che non conoscerà risposta definitiva se non allo svelamento che ciascuno avrà personalmente dopo la propria morte, bisogna però che si trovino alcuni caposaldi, non esaustivi, ma almeno ragionevolmente supportati in modo che possano essere condivisi in una società che voglia riconoscersi civile. Per esempio che i deboli non vengono soppressi nemmeno se sembrano futili.
Per contro, qualcosa è però andato definitivamente perduto. Non è la vita di Alfie: chi per lui ha pregato e pianto sa che è solo affidata, forse troppo presto, a Colui che per primo la ha amata e creata. È invece perduta, temo in modo irrevocabile, la fiducia di una famiglia nella capacità di cura di una équipe sanitaria. Di più: è andata perduta la fiducia di un popolo – così, senza confini – nell’arte medica. Almeno, in certa medicina moderna. Non si può chiedere a nessuno, men che meno a Tom e a Kate e alle loro famiglie, di avere fiducia in chi ha tradito il patto tacito che lega il sofferente a chi lo cura: allevierai il mio dolore, curerai i miei sintomi, consolerai la mia sofferenza, mi consegnerai vivo alla mia morte. Si spera che le indagini saranno più oneste e trasparenti di ciò fin qui dimostrato, ma nulla varrà a dissipare i dubbi, peraltro molto suggestivi.
Perché una scienza che non si mostra e si dimostra umile, disposta alla collaborazione, aperta a riconoscersi manchevole, non è una buona scienza. Non c’è orgoglio nazionale, senso di superiorità scientifica, passato prestigioso o futuro promettente che tengano: se non si sa lavorare insieme in quel campo così universale che è il prendersi cura dell’uomo, non è invocabile nessuna pace sulla Terra. E pensare che era inglese Dame Cicely Saunders (1918-2005), colei che, infermiera prima e medico poi, inventò gli Hospice: «Tu sei importante perché sei tu e tu sei importante fino alla fine della tua vita. Faremo tutto il possibile non solo per aiutarti a morire in pace, ma anche a vivere fino a quando non morirai». Adesso tutto quello che è rimasto delle sue straordinaria intuizione e dedizione sono le cosiddette “cure palliative” riservate ad Alfie?
Né il proverbiale orgoglio giuridico britannico ci ha fatto miglior figura, ostinato e caparbio solo nel confermare sé stesso: a che cosa serve la giustizia se non a riparare i torti? A che cosa serve indossare parrucche, se esse non sono il simbolo operante di una giustizia che in ogni tempo sa difendere il diritto del debole e dell’oppresso? Non pretendo che i giudici siedano ancora sotto le querce, ma mi auguro che distinguano la ragione dal torto.
Coraggio, “popolo della vita e per la vita”: hai un protettore in più. Oggi, nella festa liturgica ‒ secondo il calendario ambrosiano ‒ di santa Gianna Beretta Molla (1922-1962), Alfie è scomparso ai nostri occhi. A Kate e a Tom possa arrivare, tangibile ancor più della commozione del mondo, la consolazione della Madre che ha offerto il proprio unico Figlio per la salvezza del mondo.
Lunedì, 30 aprile 2018