Maurizio Brunetti, Cristianità n. 390 (2018)
«Il figlio sospeso», finalmente un film a misura d’uomo
Girato nel 2014 e proiettato in anteprima nel 2016 in un’Aula della Camera dei Deputati, Il figlio sospeso, scritto e diretto dal palermitano Egidio Termine, ha debuttato nei cinema — sia pure con una distribuzione per ora limitata — il 23 novembre 2017.
Si tratta decisamente di un prodotto atipico per la cinematografia italiana: non è il solito racconto ironico e un po’ dolente dell’immaturità affettiva di una generazione sempre sull’orlo di una crisi di nervi — quella interpretata tante volte da Carlo Verdone, Nanni Moretti, Sergio Castellitto e Margherita Buy —, e neppure un’opera didascalica buonista, magari orientata in senso immigrazionista o gay-friendly. Stupisce, perciò, che l’opera abbia ottenuto il riconoscimento d’interesse culturale da parte del ministero dei Beni Culturali e del Turismo. Il tema è quello dell’utero in affitto, visto dall’ottica delle vittime: il figlio, anzitutto, ma anche le due «madri» fra cui questi è «sospeso».
La pellicola segna il ritorno del regista al mondo del cinema dopo venti anni, assenza dovuta — racconta lo stesso Termine — a una conversione al cattolicesimo che lo ha spinto a intraprendere studi di teologia.
La sceneggiatura non è neutrale rispetto al fenomeno che descrive: le ferite che segnano i protagonisti lo renderebbero, del resto, impossibile. Essa, però, non si caratterizza nemmeno come un’opera di denuncia. Non è, per intenderci, l’analogo «bioetico» italiano del pur pregevole e recente God’s Not Dead 2 (1). L’approccio ricorda piuttosto quello dei romanzi di Susanna Manzin, Il destino del fuco (2) e Come salmoni in un torrente (3), dove, peraltro, si ritrovano messi a fuoco gli stessi punti dolenti della post-modernità: senza la necessità di far proclami, bastano gli snodi narrativi a far emergere la dis-umanità della maternità surrogata, oppure la fragilità e i disagi relazionali conseguenti all’assenza del padre.
Il figlio sospeso riesce a emozionare. Glielo consentono la plausibilità della storia (a meno dell’anacronismo anagrafico di una certa scena semi-onirica); la fotografia e le location suggestive — il film è stato girato a Bagheria, Capo Zafferano e altre zone incantevoli della città metropolitana di Palermo —; ma soprattutto la bravura dei protagonisti: Paolo Briguglio, impegnato in un doppio ruolo; le due «madri», Aglaia Mora e la giustamente premiata Gioia Spaziani. Lo script prevede anche intermezzi che inducono al sorriso: impegnano la soprano palermitana Laura Giordano, che nel film non interpreta però una cantante lirica, e sono strumentali non solo a stemperare la tensione drammatica, ma anche alla «guarigione» del protagonista.
Un’ultima osservazione riguarda la presenza nel film, sobria ma tangibile, del trascendente: vi sono richiami evangelici; si ragiona sul perdonarsi e il lasciarsi perdonare come precondizione per accedere ai benefici della Redenzione; c’è un sacerdote che celebra senza dire cose stravaganti; nonché una suora che, in barba a qualunque stereotipo cinematografico, ha un cuore e un cervello e si comporta, senza essere stucchevole, in accordo a un’autentica vocazione religiosa.
Maurizio Brunetti
Note:
(1) God’s Not Dead 2, del 2016, diretto da Harold Cronk.
(2) Cfr. Susanna Manzin, Il destino del fuco, D’Ettoris, Crotone 2014.
(3) Cfr. Idem, Come salmoni in un torrente, D’Ettoris, Crotone 2016.