di Daniele Fazio
Non tocca certamente e sopratutto in prima battuta a me, nell’occasione dell’ottantesimo genetliaco del Sig. Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, evidenziare il carisma e la missione di un uomo, e quindi dell’Associazione da lui fondata. Sicuramente sono molteplici i motivi di ringraziamento che non solo i membri di Ac, ma in qualche modo il tessuto ecclesiale e cattolico nonché sociale potrà riconoscere a Giovanni Cantoni: dall’aver, in piena sintonia con il decreto del Concilio Vaticano II Apostolicam Actuositatem, definito sempre più e meglio il ruolo di laico cattolico, teso – secondo gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa – alla consecratio mundi – all’aver professato, anche in tempi non facili, la fedeltà al Papa e alla Chiesa, anche a costo di recidere nettamente la collaborazione con realtà del mondo tradizionalista, con cui Alleanza Cattolica condivideva in parte le preoccupazioni, e comunque sempre in alternativa al progressismo. Ed in questa fedeltà aver mantenuto, integra, l’Associazione che nel 2012 si è vista riconoscere dalla Chiesa l’erezione canonica ad associazione privata di fedeli.
Qui, invece, voglio rendere una testimonianza del tutto personale del rapporto che Giovanni Cantoni instaurava con le persone e soprattutto con i più giovani all’insegna di una speciale e continua attenzione e cura.
Conobbi Alleanza Cattolica quasi in fasce, ovvero tra i miei 12 e 13 anni. L’occasione di ascoltare e frequentare il fondatore era data principalmente dai ritiri regionali. Cantoni, infatti, direttamente visitava le varie regioni italiane curando continuamente la formazione dei soci, percorrendo lo Stivale instancabilmente. La cosa che tutt’ora mi colpisce è la sua attenzione verso tutti, ma in particolare verso i più giovani che teneva in alta considerazione. Alla fine, infatti, di ogni sua comunicazione, mi prendeva sotto braccio chiedendomi se si fosse capito quello che aveva detto, se ci fossero state delle difficoltà. Quell’atteggiamento – confesso – mi lasciava assolutamente sbalordito. Con tanti militanti e amici ad ascoltarlo, il Sig. Cantoni aveva quella straordinaria sensibilità ad andare dall’ultimo arrivato, chiedendo un giudizio sulla comprensibilità di quanto avesse comunicato. Crescendo, naturalmente, credo di aver compreso meglio che l’ottica del fondatore nel suo servizio culturale, che non era mera oratoria, si muoveva nell’ambito della carità intellettuale, ragion per cui era massimamente importante per lui comprendere se il suo messaggio fosse arrivato, anche all’ultimo dei presenti, o per meglio dire, soprattutto all’ultimo dei presenti. Se così non fosse stato si sarebbe sforzato certamente di cambiare registro. Non interveniva mai, infatti, senza aver chiesto prima chi fossero i destinatari della sua comunicazione e soprattutto arrivando sempre in anticipo rispetto l’ora stabilita. E tale metodo consigliava a tutti.
Dicevo, comunque, una particolare attenzione nei confronti dei giovani, che ho sperimentato in tanti momenti, ed in particolare in quello in cui dedicò ai giovani amici messinesi un incontro sottoponendosi ad una raffica di domande e finito l’incontro le domande continuarono a cena fino a tarda notte. Né in quella occasione, né in altre ho udito una sola parola banale o un solo moto di pur legittima stanchezza.
All’origine dei miei studi sul pensiero di Robert Spaemann vi è stato ancora Giovanni Cantoni. Quando, infatti, nel 2007, stavo per completare gli anni della Laurea specialistica in Filosofia contemporanea dovevo anche decidere l’argomento della tesi. Ed, in colloquio con lui, emerse il nome del suddetto filosofo tedesco, che, confesso, sentivo per la prima volta. Il consiglio – opera di misericordia spirituale – di Giovanni Cantoni si rivelò, lo dico a distanza di anni, lungimirante non solo perché mi permise di conoscere uno dei più importanti pensatori del nostro tempo, ma anche perché quel lavoro mi consentì di proseguire, oltre la Laurea, il percorso accademico con un progetto di ricerca triennale, finanziato dal Centro Universitario Cattolico, proprio su alcuni aspetti del pensiero di Spaemann, la cui realizzazione in un saggio, più tardi, vedrà anche un riconoscimento nazionale da parte della Società Italiana di Filosofia morale.
Ricordo la sua gioia, altresì, quando telefonicamente – forse troppo tardi rispetto alla mia iniziale frequentazione – comunicai di voler entrare a far parte ufficialmente di Alleanza Cattolica. Si può, infatti, frequentare ed operare con l’Associazione senza essere “vittime” di proselitismo. Ovvero il servizio formativo di Ac non è diretto ad ingrossare le proprie fila, ma a far scoprire a quanti si vogliono avvalere di tale servizio, la via che il Signore ha previsto per loro, che non è necessariamente per molti la via di un impegno nell’ambito dell’apostolato culturale.
Dovendo, quindi, successivamente assumere la guida della riunione di Messina, tante volte mi consultai con lui. Ciò che mi rimase più impresso fu il suo incoraggiamento – direi – per “via esperienziale”. Mi raccontava, infatti, – rispondendo alla mia domanda sul come fare riunione – come agli inizi lui stesso facesse riunione. Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, non essendoci altro testo ufficiale che racchiudesse in sintesi la dottrina della Chiesa le riunioni si svolgevano sul Catechismo “tridentino”. Ebbene, erano degli incontri in cui – mi raccontò –sostanzialmente si leggeva una parte del Catechismo, poi ci si fermava per un brevissimo commento e quando questo si fosse esaurito si tornava serenamente al testo. Non bisognava e non bisogna essere, infatti, “originali” o fare colpo con qualche teoria filosofica e teologica, ma stare quanto più possibile aderenti al testo. E per iniziare, la stessa cosa consigliava a me, col Catechismo della Chiesa Cattolica.
Un grande rammarico mi porto dentro: quello di non aver mai potuto realizzare l’invito a trascorrere con lui nella sua casa di Piacenza alcune ore per poter – direi egoisticamente – ascoltarlo ancora una volta con consigli “esclusivi” per me. Lo andai a trovare sì a Piacenza, ma anni dopo, quando, per disegno della Provvidenza, iniziò a servire Alleanza Cattolica e la Chiesa attraverso il mistero della sofferenza.
Un ultimo ricordo è sempre legato alla sua attenzione per i giovani. In uno degli ultimi Capitoli allargati a Roma, presentammo, con un amico, al fondatore, un ragazzo che iniziava a seguire i nostri incontri. Cantoni chiese subito al ragazzo: “ti trattano bene?”. Al di là dell’immediata risposta, personalmente capii non solo che ovviamente il prossimo va trattato bene, ma soprattutto che non va chiesto niente di più che la Chiesa o l’Associazione chiedono per essere cattolici e soci di Ac. Può sembrare scontato, ma l’entusiasmo giovanile può consegnare agli altri fardelli insensati e inutili. Per cui mi resta sempre impressa la grande esortazione alla pazienza con cui concludeva ogni ritiro regionale. Il mondo contemporaneo e i suoi uomini, reduci della distruzione antropologica, esigono che si eserciti in modo particolare questa virtù, perché vincere non è schiacciare l’altro, ma convincerlo, cioè favorire la sua conversione al Signore.
Nonostante da diversi anni, il fondatore non regga più attivamente Alleanza Cattolica, credo che l’offerta da parte sua della sofferenza produca frutti concreti essendo – ne sono convinto – un canale di grazia, di quella grazia che va a coprire e sovrabbonda sui peccati che tutti compiamo e che deturpano il volto della Chiesa e per quanto ci riguarda anche quello dell’Associazione.
Auguri e grazie, dunque, a Giovanni Cantoni perché continua ad amare la Chiesa ed in questo amore continua a servirla con Alleanza Cattolica cum Petro e sub Petro.
23 settembre 2018, ottantesimo compleanno di Giovanni Cantoni