Giovanni Paolo II, Cristianità n. 289 (1999)
Discorso all’Assemblea Generale della Ponti- ficia Accademia per la Vita a conclusione dei lavori sul tema La dignità del morente, del 27-2-1999, nn. 3-5, in L’Osservatore Roma- no, 28-2-1999. Titolo redazionale.
Per la dignità del morente
La Chiesa è consapevole che il momento della morte è sempre accompagnato da una particolare densità di sentimenti umani: c’è una vita terrena che si compie; l’infrangersi dei legami affettivi, generazionali e sociali che fanno parte dell’intimo della persona; c’è nella coscienza del soggetto che muore e di chi lo assiste il conflitto fra la speranza nell’immortalità e l’ignoto che turba anche gli spiriti più illuminati. La Chiesa leva la sua voce perché non si rechi offesa al morente, ma ci si dedichi con ogni amorevole sollecitudine ad accompagnarlo mentre s’ appresta a varcare la soglia del tempo per introdursi nell’eternità.
La dignità del morente è radicata nella sua creaturalità e nella sua vocazione personale alla vita immortale. Lo sguardo pieno di speranza trasfigura il disfacimento del nostro corpo mortale. «Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità si compirà la parola della Scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria» (1 Cor. 15, 54; cfr. 2 Cor. 5, 1).
La Chiesa, pertanto, nel difendere la sacralità della vita anche nel morente, non obbedisce ad alcuna forma di assolutizzazione della vita fisica, ma insegna a rispettare la dignità vera della persona, che è creatura di Dio, ed aiuta ad accogliere serenamente la morte quando le forze fisiche non possono più essere sostenute. Ho scritto nell’Enciclica Evangelium Vitae: «La vita del corpo nella condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore… Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At. 17, 28)» (n. 47).
Di qui promana una linea di condotta morale verso il malato grave e il morente che è contraria, da una parte, all’eutanasia e al suicidio (cfr. ibid., n. 61) e, dall’altra, a quelle forme di «accanimento terapeutico» che non sono di vero sostegno alla vita e alla dignità del morente.
È opportuno qui richiamare il giudizio di condanna dell’eutanasia intesa come «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore», in quanto costituisce «grave violazione della Legge di Dio» (ibid., n. 65). Ugualmente deve essere tenuta presente la condanna del suicidio in quanto «sotto il profilo oggettivo è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo nucleo più profondo esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte» (ibid., n. 66).
Il tempo in cui viviamo esige la mobilitazione di tutte le forze della carità cristiana e della solidarietà umana. Occorre infatti far fronte alla nuova sfida della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. A tal fine non basta contrastare nell’opinione pubblica e nei Parlamenti questa tendenza di morte, ma bisogna anche impegnare la società e le strutture stesse della Chiesa in una degna assistenza al morente.
In questa prospettiva, incoraggio volentieri quanti promuovono opere e iniziative per l’assistenza dei malati gravi, degli infermi mentali cronici, dei morenti. Essi si impegnino, se necessario, a convertire le opere assistenziali già esistenti alle nuove necessità, perché nessun morente sia abbandonato o lasciato solo e senza assistenza di fronte alla morte. È la lezione che ci hanno lasciato tanti Santi e Sante nel corso dei secoli ed anche recentemente Madre Teresa di Calcutta con le sue provvide iniziative. Occorre che ogni comunità diocesana e parrocchiale sia educata a custodire i suoi anziani, a curare e visitare i suoi malati a domicilio e nelle strutture specifiche, a seconda della necessità.
L’affinamento delle coscienze nelle famiglie e negli ospedali non mancherà di favorire una più diffusa applicazione delle «cure palliative» nei malati gravi e nei morenti, così da alleviare i sintomi del dolore, portando loro al tempo stesso conforto spirituale mediante un’assistenza assidua e premurosa. Nuove opere dovranno sorgere per accogliere gli anziani non autosufficienti che si ritrovano soli, ma dovrà essere soprattutto promossa un’organizzazione capillare a sostegno economico oltre che morale dell’assistenza domiciliare: le famiglie, che vogliono mantenere in casa la persona gravemente malata, si sottopongono infatti a sacrifici talora molto gravosi.
Le Chiese locali e le Congregazioni religiose hanno l’opportunità di offrire in questo campo una testimonianza pionieristica, nella consapevolezza della parola del Signore a proposito di quanti si prodigano a sollievo dei malati: «Ero infermo e mi avete assistito» (Mt. 25, 36).
Giovanni Paolo II