Giovanni Cantoni, Cristianità n. 271-272 (1997)
Articolo, senza note e con il titolo redazionale Slovacchia, accuse ingiuste, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 249, 23-10-1997, pp. 1 e 13.
Dopo Sali Berisha, obiettivo Mečiar
Evidentemente non so quali informazioni invii al suo Governo l’ambasciatore della Repubblica Slovacca in Italia, S. E. Rudolf Zelenay, ma — per parte mia — immagino avrà per certo provveduto a inoltrare immediatamente in patria una buona traduzione della pagina Slovacchia, buco nero dell’Europa, curata dall’inviato del Corriere della Sera Sandro Scabello nella sezione Esteri del quotidiano milanese del 21 ottobre 1997, chiusa fra un occhiello drammatico, Sfida finale per il potere in quella che viene definita «ditta- tura postmoderna». Prima a farne le spese la minoranza ungherese, e un «catenaccio» che fa stato di una non meno drammatica bocciatura, Fuori da Nato e Ue, Bratislava si allontana dall’Occidente e guarda a Mosca (6).
Benché il quadro della non invidiabile situazione in cui verserebbe il neonato Stato danubiano — proclamato il 1° gennaio 1993 — sia accompagnato da un’intervista al vice primo ministro slovaco, Katarína Tothova,; braccio destro del primo ministro Vladimír Mečiar (7), cioè nonostante sia data voce anche all’accusato, quale la ragione dell’interesse per l’ampio servizio giornalistico? Nell’articolo di Scabello si può leggere una frase di questo tenore: «È anche per colpa della linea dura nei confronti della minoranza ungherese che Bratislava è finita in Occidente nell’elenco dei cattivi, rimanendo esclusa dall’espansione ad Est della Nato e dalla prima fase di allargamento dell’Unione europea. Troppe zone d’ombra gravano su un sistema politico che esclude l’opposizione dagli organi fondamentali di controllo e che il Congresso americano è giunto a mettere sullo stesso piano dell’Albania in materia di rispetto dei diritti umani.
«Alla Slovacchia non si perdona nulla».
Come si può notare, si tratta della registrazione, con notevole pubblicità, di un’inequivocabile sentenza di condanna, apertamente emessa e registrata, rispetto alla quale non resta che tentare di capire. Partendo dall’illuminante analogia con il caso albanese, autentico paradigma.
Dunque, dopo il 1989, cioè dopo l’implosione del sistema imperiale socialcomunista, in molti paesi di tale sistema — almeno in quelli immediatamente ruotanti attorno all’URSS — si è proceduto alla loro transizione guidata: dal punto di vista economico, dal capitalismo di Stato al capitalismo selvaggio; dal punto di vista civile, da un regime liberticida a un regime libertino e libertario politicamente controllato. In queste occasioni le diverse società, in qualche modo e variamente liberate dalle camicie di forza in cui erano state imprigionate per diversi decenni, non hanno accolto — o hanno accolto diversamente — la condizione di «nudità», di «selvatichezza» culturale proposta e — in modo più o meno surrettizio — massmediaticamente imposta. Così, per usare una metafora quanto mai appropriata, in diverse società si è tirato fuori dal cassettone, qualora vi fosse ancora un cassettone, vi giacesse ancora un abito e nella condizione in cui si poteva trovare, l’«abito nazionale», espressione grossa per indicare sia l’abito di nazionalità immaginato letterariamente da qualche generazione di artisti o di politici romantici, sia l’abito della «nazionalità spontanea», quella risultante dal vissuto di molte generazioni di uomini qualunque e da esso ricavabile. Naturalmente, la scelta di questi abiti ha fatto — e fa — gridare al nazionalismo, il pericolo che sarebbe subentrato a quello socialcomunista. E la denuncia viene elevata senza discernimento di sorta, solamente con qualche prudenza — e neppure per esso eccessiva — in relazione al caso polacco.
Mentre si produceva la transizione cui ho fatto riferimento, in qualche caso marginale essa avveniva in modo meno controllato che altrove: di questi casi marginali il più comprensibile per la sua palese marginalità è stato quello albanese, cui sembra oggi si affianchi, dopo la sua soluzione, quello slovaco.
Che cosa è accaduto in Slovachia? Un popolo di lunga tradizione e di grande rilevanza — a partire dalla Slovachia hanno operato i santi Cirillo e Metodio, gli apostoli degli slavi —, vissuto, almeno per qualche secolo, all’ombra del Sacro Romano Impero condividendo le vicende del Regno di santo Stefano, poi, dopo il 1806, dell’impero asburgico, ha visto crescere le proprie difficoltà di convivenza all’interno di tale struttura sovranazionale a causa dello svilupparsi aggressivo in esso del nazionalismo ungherese; dopo il crollo dell’impero danubiano, alla fine della prima guerra mondiale, si è legato in una ingannevole federazione al popolo ceco, cadendo sotto la dominazione della classe dirigente ceca; quindi ha avuto la tragica ventura di raggiungere la propria indipendenza, per la prima volta nella sua storia, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e grazie — ennesima prova che non vi è medaglia senza rovescio — alla politica espansionistica del Terzo Reich; finalmente, approfittando della transizione dal socialcomunismo, si è non traumaticamente liberato dall’abbraccio ceco, avviandosi a vivere in libertà il proprio destino (8). Ma alla generica libertà ha affiancato la propria identità, con un soprassalto di consenso popolare, che fa parlare polemicamente, a proposito del regime guidato da Mečiar, di «regime socialpopulista» e di «dittatura postmoderna», fra l’altro per aver «sbarrato le porte al grande capitale straniero».
Così nasce — nel senso che viene alimentata — la questione ungherese, sulla base della presenza di una minoranza magiara di tutto rispetto, che si aggira attorno all’11% della popolazione. Così — scrive l’inviato del Corriere della Sera a Bratislava — «troppe zone d’ombra gravano su un sistema politico che esclude l’opposizione dagli organi fondamentali di controllo e che il Congresso americano è giunto a mettere sullo stesso piano dell’Albania in materia di rispetto dei diritti umani».
Dunque, dopo che in Albania, grazie alle società finanziarie caratterizzate dagli schemi d’investimento «piramidali» e all’opera della lobby greca in seno all’amministrazione guidata da Bill Clinton, all’«inaffidabile» Sali Berisha è stato sostituito l’«affidabilissimo» Fatos Nano (9), sembra all’orizzonte la sostituzione, grazie alla questione ungherese, dell’«inaffidabile» Vladimír Mečiar con l’«affidabilissimo» Michal Kovač o chi per lui. Il tutto, naturalmente, prescindendo dalla verità di fatto, anzitutto da quella storico-politica: una falsificazione palese quando si denomina furbescamente «opposizione» l’organizzazione degli uomini della vecchia nomenklatura socialcomunista o dei loro mandatari. Sì che tutto pare per qualche verso nelle mani di quegli ungheresi viventi in Slovachia — e non sono pochi — che preferiscono il regime postmoderno di Vladimír Mečiar al regime postcomunista ungherese di Gyula Horn. Sempre che vengano ascoltati e all’audizione — ideale o materiale — al Congresso americano o in sede equivalente non abbia la meglio la lobby ungherese o tale audizione non sia addirittura riservata al finanziere George Soros, in quanto di origine ungherese.
Giovanni Cantoni
Note:
(6) Cfr. SANDRO SCABELLI, Slovacchia, buco nero dell’Europa, in Corriere della Sera, 21- 10-1997. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da quest’ articolo.
(7) Cfr. KATARÍNA TOTHOVA;, «Pulizia etnica? Solo falsità. L’opposizione gioca sporco», intervista a cura di S. Sc., ibidem.
(8) Cfr. DON MILAN S. DURICA S.D.B., La Slovachia. Un breve profilo storico-culturale, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli-Venezia Giulia, Udine 1994; e la mia recensione in Cristianità, anno XXII, n. 230-231, giugno- luglio 1994, pp. 23-25.
(9) Cfr. il mio Marzo 1997, guardando oltre il Canale di Otranto: qualche considerazione sul passato e sul presente della crisi albanese, Cristianità., anno XXV, n. 264, aprile 1997, pp. 27-28; e Albania, emergenza italiana, i Quaderni speciali di «liMes. Rivista Italiana di Geopolitica», supplemento al n. 1/97, soprattutto FEDERICO EICHBERG, Il Vento del Sud può cambiare il corso della storia, ibid., pp. 29-33.