Un incontro di grande importanza per il tentativo di pacificazione del Medio Oriente e per la libertà religiosa dei cristiani
di Silvia Scaranari
Il Papa è in Iraq da venerdì 5 marzo e vi resterà fino a lunedì 8 con un fitto programma di incontri che vanno dalle autorità civili alle diverse autorità religiose cristiane, alla comunità islamica sciita.
Un programma molto denso che il Santo Padre ha fortemente voluto e che ha affrontato nonostante l’inasprirsi nella zona della pandemia dovuta al Covid 19 e i recenti attacchi terroristici che hanno colpito da Baghdad a Erbil, da Daquq a Mosul.
Questa terra martoriata è forse l’area più significativa da un punto di vista religioso per le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam. Nell’area mesopotamica secondo la Bibbia è stata costruita la Torre di Babele, Noè ha costruito l’arca, è nato Abramo nella zona di Ur, i fratelli fedeli al Dio di Israele hanno subito la tortura della fornace ardente ordinata dal re di Babilonia Nabucodonosor, Daniele è stato gettato nella fossa dei leoni, Ester è diventata moglie del re persiano Assuero (probabilmente Serse), e ha profetizzato Ezechiele.
Terra straordinaria anche per l’islam che a Siffin (sul medio Eufrate) vede nel 656/57 frantumarsi l’unità della Umma, la comunità dei fedeli musulmani, divisi per rivalità politiche fra il generale Mu‘āwwija e il quarto successore del Profeta, ʿAlī. Sempre in Iraq, a Kerbala, viene ucciso in un’imboscata il nipote del Profeta, al-Husayn, legittimo successore secondo il mondo sciita. Infine a Najaf, 160 km a sud di Baghdad, il mondo sciita venera il sepolcro di ʿAlī.
Proprio a Najaf il Papa ha scelto di incontrare la massima autorità sciita, l’ayatollah Sayyid ‘Alī Al-Husayni Al-Sistani
La scelta di Najaf per il colloquio non è casuale. I due leader religiosi potevano incontrarsi a Baghdad ma non sarebbe stata la stessa cosa. Najaf è città santa per il mondo sciita e luogo di tutto rispetto anche per il mondo sunnita. E’ il luogo della fede, un po’ come Gerusalemme per il mondo cristiano. Qui è sepolto ʿAlī ibn Abī Ṭālib, il cugino e genero del Profeta, avendone sposato la figlia prediletta Fatima. ʿAlī è uno dei primi seguaci dell’islam, compagno di Muhammad nelle tante avventure e battaglie, è il padre dei due nipoti molto amati, al-Ḥasan e al-Ḥusayn. E’ il quarto e ultimo “califfo ben guidato” per i sunniti, il primo vero califfo per gli sciiti, muore a Kufa mentre sta entrando a guidare la preghiera del mattino, colpito dalla spada intinta di veleno di Ibn Muljam, seguace dei kharijiti, gruppo dissidente che aveva accusato di tradimento ʿAlī dopo la firma degli accordi con Mu‘āwwija a Siffin.
Accanto alla sua tomba è cresciuto uno dei più grandi – forse il più grande – cimitero musulmano del mondo. Sciiti ma anche sunniti desiderano farsi seppellire in questa città per rinascere alla fine dei tempi accanto ad ʿAlī e alla sua moschea. Qui sono sorte le più famose scuole sciite e le migliori università coraniche, qui milioni di musulmani si recano in pellegrinaggio tanto che da molti è considerata la terza città santa dopo La Mecca e Medina.
Qui vive al-Sistani, di origini iraniane, 91 anni, indiscusso leader spirituale del mondo sciita non solo iracheno, esplicitamente in contrasto con il leader iraniano l’Ayatollah Seyyed ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī, Guida suprema della Rivoluzione. L’incontro di sabato probabilmente supera per importanza l’incontro avuto nel febbraio del 2019 con il Gran Imam sunnita di al-Azhar, Amhad al-Tayyed. Si obietterà che i sunniti sono molto più numerosi degli sciiti ed è vero ma non possiedono una autorità religiosa di riferimento. Gli sciiti invece, pur non avendo mai istituzionalizzato un capo supremo, hanno una gerarchia religiosa ben definita. In questo momento al-Sistani e Khamenei, sono le due indiscusse autorità di riferimento. Incontrare al-Sistani, e farlo a Najaf, vuol dire incontrare non una persona ma una “comunità” nel suo insieme.
Sono stati 50 minuti di conversazione privata di cui ben poco è trapelato. Secondo quanto riportato dalla sala stampa vaticana, hanno parlato di pace, di fratellanza, di convivenza, di diritti civili per tutte le comunità religiose presenti in Iraq. Il Papa ha ringraziato al-Sistani per le sue ferme prese di posizione a fronte del terrorismo jihadista e lo Stato islamico e probabilmente per la sua apertura umana nell’aver voluto un cimitero per inumare gratuitamente tutti i malati deceduti di Covid, senza guardare alla loro appartenenza religiosa. Il resto è top secret ma il gesto ha un forte significato anche politico.
La parola “fraternità”, secondo il card. Louis Raphaël I Sako, Patriarca dei cattolici caldei, sarà usata dal Pontefice per aiutare a superare gli scontri presenti nell’area: scontri religiosi fra sunniti e sciiti, fra cristiani e musulmani, scontri culturali ed etnici fra curdi e arabi, scontri politici fra le diverse bande armate che si contendono brandelli di territorio soprattutto dove lo Stato fa più fatica a mantenere l’ordine pubblico.
Oggi il primo ministro Mustafa Kazimi tenta ardui equilibrismi, vestendo i panni sia del filo americano (in attesa dello sviluppo che avrà la politica del Presidente Joe Biden nell’area mesopotamica) sia dell’amico degli iraniani, che giocano un ruolo importante sulla ampia zona di confine e su larga parte della popolazione sciita.
Oltre la politica c’è l’economia – le risorse energetiche dell’Iraq centro settentrionale e l’oleodotto che dal Kurdistan va verso la Turchia – dove si incrociano gli interessi non solo americani ma anche turchi e soprattutto russi e cinesi (questi ultimi hanno già firmato un accordo, non ancora realizzato, per miliardi di dollari statunitensi nelle infrastrutture). Finanziamenti enormi che però rischiano di essere vanificati dalla corruzione e di lasciare nella povertà una massa ingente di popolazione, soprattutto giovanile, che oggi patisce un tasso del 50% di disoccupazione. Il 30% della popolazione vive sotto la soglia della povertà.
E’ noto che al Sistani sostiene la protesta popolare contro la corruzione del sistema politico e contro lo strapotere delle milizie filo iraniane. Le proteste scoppiate già nel 2017 e cresciute nel 2019 hanno subito un rallentamento a causa della pandemia, ma è un fuoco che cova sotto la brace, un brandello di quelle proteste che animano anche larga parte del mondo mediorientale e nord africano. Lo scontro etnico-religioso può servire a mantenere lo status quo, può sopire la rabbia di milioni di giovani iracheni in cerca di lavoro, libertà e cambiamento politico, ma non può durare in eterno. Scardinare il sistema può servire ad aprire nuove strade di crescita sociale e spirituale. E tutto questo panorama è ben noto anche a Papa Francesco, che sta camminando su una strada molto sabbiosa cercando di lanciare la religione non come momento di divisione ma come potenziale via di salvezza.
Domenica, 7 marzo 2021
Approfondimento sull’Iraq – L’Iraq che il Papa sta visitando