Il rifiuto “di pancia” del piano architettato dalla “sporca dozzina” evidenzia il desiderio di recuperare un’appartenenza sociale tangibile e deve essere portato dal piano dell’istinto a quello della consapevolezza dal punto di vista culturale
di Renato Veneruso
La vicenda della cosiddetta “Superlega” di calcio, aldilà del merito e dell’esito – a quanto pare infausto per le società ‘secessioniste’, che l’hanno promossa ed abbandonata in poche ore -, merita un approfondimento per relazione alla enorme eco mediatica e popolare che ha suscitato, anche in ambiti istituzionali e politici. Tutti costoro, per qualche momento, si sono distaccati dalla preoccupazione pressoché esclusiva verso la pandemia.
Ebbene, se non c’è dubbio che la gestione del consenso, sin dal panem et circenses degli antichi Romani, richieda oculata attenzione ad un mondo che ne rappresenta la versione moderna, specie in un periodo di restrizioni pandemiche che hanno costretto i ‘reclusi’ da lockdown a ricercare nello spettacolo televisivo calcistico la quasi unica oasi di distrazione, sembra di poter individuare nella reazione “di popolo” alla proposta di modifica del tradizionale format di competizione un indice più profondo della rilevanza sociale del fenomeno.
Sgombriamo, innanzitutto, il campo dal ritenere che l’incidenza del fattore economico sia propria solo dei tempi recenti e che sia, quindi, l’unica chiave di comprensione della nuova proposta: una recente produzione televisiva di Netflix, dal titolo The English Game, è incentrata sulla prima FA Cup (nota anche come “Coppa d’Inghilterra”). Fu la prima competizione nel Paese dove è nato, ufficialmente nel 1862, il calcio moderno, che è stato poi esportato nel resto del mondo, e nel 1880 fu vinta da una squadra non composta da giovani e baldi iscritti ai più prestigiosi college britannici, quindi appartenenti all’aristocrazia e/o all’alta borghesia – come fino a quel momento era avvenuto -, bensì dal Darwen, squadra operaia del Lancashire, il cui presidente, padrone della locale fabbrica di lavorazione del cotone, assunse due giocatori professionisti scozzesi, pagandoli come fossero suoi operai, per aggirare l’obbligo di mettere in campo solo dilettanti, un onere che, ovviamente, consentiva soltanto alle classi più agiate di dedicarsi professionalmente al novello sport.
Dunque, se il denaro è stato sin da subito un motore molto potente di promozione del calcio, l’altro fattore che si rinviene nel periodo dei suoi albori, presente in modo ben più rilevante nelle vicende di questi giorni, è la sua capacità di esprimere istanze identitarie delle comunità locali, radicate sul territorio, che trovano nella squadra di cui si dicono ‘tifosi’ la pressoché unica ragione di auto-percezione sociale.
Se già la società britannica della Rivoluzione industriale di fine Ottocento manifesta un forte livello di disgregazione degli originari vincoli comunitari, propri della società organica medievale, tanto più la società liquida postmoderna globalizzata trova solo in quel particolare residuo rappresentato dalle squadre di calcio fattori di comune identificazione. I moti di piazza dei giorni scorsi dei tifosi delle stesse squadre secessioniste manifestano, allora, una certa capacità di reazione del corpo sociale alla crescente disintermediazione cui è sottoposto, seppur espressa attraverso forme di rappresentanza ‘debole’ quali i teams calcistici, che è però forse il caso di enfatizzare, nella prospettiva di un più ampio recupero di rappresentatività degli organismi sociali nei quali riconoscere la propria appartenenza ed identità.
E’ significativo, al riguardo, che a protestare siano stati gli stessi tifosi delle squadre secessioniste: evidentemente sono i primi a non apprezzare la prospettiva di dover vedere le proprie squadre del cuore competere solo con i “top club” di pari grado: molto meglio riaffermare, a costo di perderla, la propria supremazia sul campo! I supporters del West Ham, storica squadra della East London, attualmente quarta nel campionato inglese e, quindi, potenzialmente eleggibile all’interno della prossima UEFA-Champions League, tengono probabilmente (come dimostra, in malam partem, un altro celebre film ambientato nel mondo del calcio, Hooligans, che ha come attore protagonista Elijah Wood, il Frodo cinematografico della saga de Il Signore degli Anelli) più alla rivalità con la squadra del quartiere limitrofo di Millwall, attualmente militante nella Championship (la seconda divisione inglese), che non agli scontri di vertice con le big 12!
Conta più l’appartenenza al proprio ambiente, nel quale ci si riconosce, che non lo stesso risultato sportivo, come dimostra lo stesso film Hooligans (2005). E sarà appena il caso di osservare, tornando al fattore economico, che la pretesa della ‘sporca dozzina’ (come l’ha bollata il presidente dell’UEFA, Ceferin) di ripianare i propri debiti (ammontanti ad oltre cinque miliardi di euro) facendone altri tramite la cessione e la cartolarizzazione dei proventi dei diritti del nuovo campionato europeo presso la JP Morgan, piuttosto che di intervenire sui costi, riducendoli alla realtà dei propri bilanci, assomiglia al presunto “Bengodi” delle banche centrali, tra le quali la stessa BCE, che, stampando moneta indefinitamente, immettono liquidità monetaria a sostegno di obbligazioni di Stato che indebiteranno le future generazioni.
Se il programma del “Great Reset”, nelle parole del suo primo aedo, Klaus Schwab, è sintetizzato nella risposta «MAI» alla domanda su quando torneremo alla situazione pre-COVID, non è difficile proporre il parallelismo con chi voglia adeguare anche il calcio al post-pandemia in una prospettiva di cambiamento radicale, allo scopo di “uccidere” il profilo sanamente sportivo e sociale a vantaggio, apparentemente, di quello spettacolare ed economico. In tale più ampia prospettiva, non sarà allora inutile riempire di contenuti più articolati il rifiuto di ‘pancia’ di chi ancora mostra un sano attaccamento al reale.
Venerdì, 23 aprile 2021